Odore di camino spento
Di Enzo Pagano
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Odore di camino spento - Enzo Pagano
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1
Un’ora insolita per una visita
Dovevo aver russato molto. L’ultimo rauco respiro era risuonato nella stanza come se fosse stato di qualcun altro, svegliandomi. Aprii gli occhi: sul soffitto giocavano delle geometriche strisce nere che si dissolvevano tra loro come un disegno astratto di ombre cinesi. Ebbi subito la netta sensazione di essere rimasto solo: il salotto era illuminato dalla sola luce che proveniva da un lampione stradale, proiettando sull’intonaco quelle strane forme.
Non era al mio fianco e non mi illusi un solo attimo che l’avrei trovata intorno. L’aria era gelida. Gli odori, i soliti: quelli polverosi di una casa vecchia.
Mi sollevai con indolenza e, leggermente intorpidito dall’alcool, mi avviai verso la mia camera per un controllo del mio portafoglio: le restanti cinquanta e la carta di credito erano al loro posto.
Provvidi ad alzare un po’ la temperatura, 25 gradi, i soliti che lasciavo per la notte. Non mi tolsi la camicia e i pantaloni, sdraiandomi di traverso sul letto: non avevo voglia di mettere la testa sul cuscino, avrei preso sonno subito, non mi andava.
Ero solo un po’ deluso, o forse l’avevo delusa, temetti. Feci un ripasso mentale dalla puzza di piscio in poi, saltando il momento drammatico dell’astinenza; né mi soffermai sulla sua insistente richiesta di un’eventuale marchetta: motivo del suo approccio per strada. Mi restava, invece, la sua giocosa richiesta di auscultare la terra, la raffinata e partecipata descrizione del Laphroaig e la sua bianca e disimpacciata nudità.
L’avrei rivista?…
Questa remota possibilità avrebbe preso posto nei miei pensieri per i prossimi giorni.
Detti un’occhiata all’ora; non potetti verificarla: il mio Audemars Piguet non l’avevo al polso. Gettai una disillusa occhiata sul comodino: non c’era, né avrebbe potuto esserci; ricordavo benissimo che l’avevo allacciato al polso quando le avevo tenuto la mano.
Il costoso ed elegante regalo del mio principale.
Lo avrebbero pagato al prezzo di uno Swatch un po’ piú elegante, non di piú. Probabilmente li avrebbe convinti decantando i pregi di un Jules Audemars da collezione… non l’avrebbero ascoltata, o meglio, forse, per poterlo riferire piú rozzamente a loro volta, senza però smuoversi dagli eventuali ottanta, al massimo cento… L’unica cosa seccante era quella di dovermi alzare per andare in salotto e recuperare il mio telefonino che avevo messo sotto carica. Non avevo altro modo, ma non avevo voglia; mi alzai solo per abbassare la tapparella e rimettermi a dormire nella mia abituale posizione.
Dallo squillo del citofono in poi – non sapevo che ora fosse – dovetti fare i conti con una realtà con la quale non pensavo mi sarei mai confrontato.
Giordana arrivò in tarda mattinata, mezzogiorno, penso; un’ora insolita per una visita. Direi insolita anche la persona che mi era stata annunciata dal portiere: mia figlia, che non era mai venuta a trovarmi sin dalla partenza della madre, Mariangela. Entrò salutandomi con un solo bacio sulla guancia, il secondo lo indirizzò direttamente verso il salotto dove si avviò con un passo risoluto e l’aria circospetta.
«Due bicchieri?… C’è stato qualcuno ieri sera?»
Fui pronto:
«È quello dell’altra sera. Avevo dimenticato di toglierlo» pronunciai deciso e senza esitazioni; con altrettanta decisione cambiai argomento:
«Il bimbo?»
«All’asilo, lo sai bene».
«L’ufficio?»
«Ho preso un’ora di permesso».
«Per cosa?»
«Avevo intenzione di venirti a trovare».
«Come, abitualmente, non fai» dissi col tono risentito di un padre deluso
«Non ce n’è motivo, sei da noi a pranzo ogni Sabato» banalizzò il mio tono da tragedia.
Stavo per ribattere la mia opinione circa la programmata e insufficiente visita settimanale; ma si era voltata e fiondata nel bagno.
L’entrata e l’uscita in un solo movimento di una porta girevole.
«Questi?…»
Teneva pinzato tra le unghie di due dita il brandello nero di pizzo.
Mi stropicciai il naso, chinai la testa, mi girai di spalle, con l’urgenza di una menzogna, nessuna menzogna:
«Sono di una prostituta» dichiarai a mezza voce.
Sentii i tre rintocchi secchi dei suoi passi alle mie spalle. Mi raggiunse, ponendosi di fronte con l’aria severa di una maestra elementare, come elementare fu la deduzione:
«Mi vuoi fare intendere che offri il tuo prezioso nettare dell’Islay a una prostituta?»
«Perché no?» Mi sentii io stesso poco credibile.
«Papà!…»
Il convincente richiamo alla realtà non mi concedeva scampo. Decisi di sedermi. Avrei bevuto volentieri, se fosse stato un qualsiasi singolo malto delle Highlands. Avevo bisogno di un attimo di riflessione. Non mi dette tregua:
«Non è un perizoma da prostituta, e nemmeno la culotte di una signora; quanti anni ha?»
«Non lo so».
«Comunque… è giovane?»
Annuii con la testa. Prevedevo altre domande piú stringenti. Decisi di passare all’attacco, mi sollevai, quasi gridai:
«Mi sarà concesso avere dei rapporti!»
«Non è questo il problema. Una cosa è frequentare una prostituta, se pur giovane, altro è frequentare una ragazzina» sottolineò il termine col tono spregevole.
«Cioè?» Mi sedetti.
Si alzò lei. Fece tre passi verso il corridoio, per fermarsi alla piú debita e cattedratica distanza:
«Per quale motivo una giovane donna dovrebbe offrire i propri favori ad un…»
Il residuo amore filiale le evitò di proseguire con il termine dovuto. Mi tornò in mente la metafora della lumaca e la mimica della ragazza con la sua mano strisciante sulla sabbia. Avrei voluto dirle che non avevo usufruito del favore. Temetti che quella verità sarebbe risultata piú falsa della piú meschina delle menzogne, lasciai perdere.
Decisi di farla scendere dalla cattedra evitando, così, di dover entrare nei dettagli di quell’incontro:
«Mi chiedo: com’è stato possibile che tu abbia saputo just in time di questa storia?»
Si ridimensionò fisicamente, abbassando testa e spalle per parlare con un tono piú partecipato:
«Avremmo dovuto farlo allora…»
Il plurale non era quello generico, bensì, quello piú reale di una collettiva congiura di palazzo, non in senso metaforico: il portiere, la signora accanto, il ragioniere del piano di sopra… o chiunque avesse potuto vedermi rientrare mano nella mano. Ma importava poco. Quel risentimento metteva a tacere ogni cosa, nemmeno questo metaforicamente: il silenzio calò davvero.
Tornò a sedersi sulla poltrona. Tornai a guardare la bottiglia torbata: non mi sembrò il caso, data la circostanza, di sprecarla.
Il gesto del mio imbarazzo, il contorcermi le mani, mi rivelò il dramma; il mio dramma: l’impronta bianca sul mio polso vuoto mi fece sovvenire la solenne promessa, e il tronfio orgoglio, che quel prezioso orologio sarebbe stato di mio nipote Giuliano, un giorno. Fui sopraffatto da una pesante vergogna. Crollai fisicamente in avanti, chinando la testa sul petto con una gran voglia di dissolvermi.
La mia contrizione fisica le fece effetto. Perlomeno, attenuò la sua carica aggressiva:
«Vabbè, cose passate!»
No, cazzo! – Stavo per dirle – sono cose future. Crollai del tutto, sempre fisicamente: la mia testa era quasi sulle ginocchia.
«Oh, smettila ora!» Sollecitò con falsa benevolenza.
Che fosse falsa, lo dedussi subito dalla sua repentina alzata dalla poltrona e l’apparente divagazione:
«Però… non me lo ricordavo così grande questo appartamento».
Sollevai la testa e le residue forze, dissi con un tono di autocommiserazione:
«Troppo grande per un uomo solo».
«Te lo sei cercato!» Mi sputò in faccia la sua amarezza, precisa, in pieno volto.
«Cercato cosa?»
«Niente, lasciamo perdere…»
L’immobiliarista s’incamminò nel corridoio per una piú precisa perizia estimativa.
Io restai da solo con la mia drammatica stima di quel regalo: un supplemento al già cospicuo TFR per tacitare il mio quarantennale sapere amministrativo. Non meno di ventimila, e anche piú, col passare degli anni per un oggetto da collezione numerato. Avrei potuto simulare un furto, uno smarrimento. Non era questo il problema. Mi coceva e doleva nello sterno il fatto di non poter mantenere quella mia sentita promessa, un gesto di gratitudine verso la creatura che amavo piú di ogni cosa.
L’avrei cercata. Avrei pagato al ricettatore piú del dovuto perché mi restituisse ‘quel’ Jules Audemars, non un altro. Ma dove?
Concentrato nei miei pensieri, fui raggiunto dalla sua voce:
«Quanto può valere?»
«Venti… venticinquemila Euro» risposi subito.
«Vorrai dire duemila, duemilacinquecento, immagino?»
Mi ripresi dal torpore:
«Di cosa stai parlando?»
«Del prezzo al metro quadro, di cos’altro?»
«Pensavo di riferissi all’acrilico di Schifano» finsi.
«Perché, vale tanto?»
«Se fosse autentico, penso di sì».
«Non lo è?»
«Non lo so. Ho provato a cercare la fondazione. Qualcosa di molto ingarbugliato che ho lasciato perdere».
«Hai sempre dato poca importanza alle cose venali».
«Non l’acquistammo per rivenderlo, ma per potercelo godere» risposi convinto per quella lontana scelta con la madre.
Mi agganciai al ricordo:
«Da quando non la vedi?»
«Siamo stati da lei a Pasqua, la rivedrò al mare tra quindici giorni».
«Come sta?»
«Bene!»
Affermò categorica. A voler sottolineare che non fosse dilaniata da una qualche nostalgia.
Io, sì.
Mi sollevai per andare verso la finestra, non volevo che guardasse i miei occhi.
«Ti manca?»
Fu la sua fucilata alle spalle che mi fece inarcare la schiena. Non risposi.
Quindici anni sono un tempo lungo: una decantazione di giorni, piú che di mesi, che lo rende finanche piú lungo per la provvisorietà di ogni giorno. Specie di