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Cioccolata amara
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E-book203 pagine2 ore

Cioccolata amara

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Info su questo ebook

Love Me Too Series

Torna la famiglia Garrone! Passato, presente e futuro si intrecciano tra segreti, rivelazioni e amori, per un finale ricco di emozioni

E se il passato tornasse a bussare alla vostra porta?

Dalle autrici del bestseller Scusa ma ti amo troppo

Che cosa ha in serbo per noi, questa volta, l’imprevedibile famiglia Garrone? Giulio è un marito e un padre esemplare, è un uomo solido e affidabile, forte e senza scheletri nell’armadio… O almeno, questo è ciò che tutti hanno sempre pensato. Eppure il suo passato nasconde un segreto, difficile da confessare e con il quale lui stesso non ha ancora fatto i conti. La vita però lo costringe a tornare indietro con la memoria, quando, mentre aspetta, terrorizzato, l’esito del parto prematuro di Felicia, sua figlia, i fantasmi lo assalgono. E allora Giulio si rende conto che è il momento di affrontarli. Uno in particolare. Si tratta di una donna, bella e travolgente ma complicata come un calcolo matematico. Una donna che gli ha rubato il cuore. E che non è sua moglie…

«Bellissimo, romantico, denso e intenso, commovente fino alle lacrime...»

«Quello che sono riuscite a scrivere Elisa Trodella e Loretta Tarducci è un libro pieno, denso, avvolgente come il cioccolato amaro, appunto.»
Elisa Trodella e Loretta Tarducci
sono amiche da sempre. Un giorno decidono di raccontare una storia, che è diventata Scusa ma ti amo troppo, loro primo romanzo, che ha riscosso un grande successo di pubblico e critica. Con la Newton Compton hanno pubblicato anche Imperfetti innamorati, seguito da Cioccolata amara, con il quale le due autrici chiudono l'appassionante, romantica e imperdibile trilogia.
LinguaItaliano
Data di uscita12 apr 2017
ISBN9788822705822
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    Anteprima del libro

    Cioccolata amara - Loretta Tarducci

    1. Il presente

    Un tuono mi sveglia di soprassalto.

    Una scarica di adrenalina mi percuote il corpo, sbarro gli occhi.

    Provo ad assecondare il respiro ansimante, che gonfia e sgonfia il torace, privo di ossigeno chissà da quanto. «Apnea notturna», questa la sentenza del medico. «Dovrà conviverci», ha aggiunto categorico. Una croce per me, che ho sempre riposato come un bambino nella culla. Porto la mano sul petto, attraverso la trama sottile della maglietta di cotone che indosso; è umido e freddo. A tastoni cerco il bicchiere d’acqua sopra il comodino. Gli occhi ancora assopiti si abituano lentamente alla flebile luce del mattino che s’insinua tra le fessure delle persiane. Controllo l’ora, le cinque del mattino. Bevo l’acqua spedito e mi sbrodolo come un cretino. Per fortuna Stella non si accorge di nulla, non voglio che si preoccupi. Lei, e il suo amore incondizionato, mi proietterebbero all’istante tra le mura asettiche dell’ospedale più vicino e, se per errore le confidassi che è l’angoscia a giocarmi brutti scherzi, mi attenderebbe un destino peggiore: i suoi occhi vulnerabili nei miei.

    No grazie, preferisco continuare a custodire qualche piccolo segreto.

    Passerà, mi dico, e ributto la testa sul cuscino.

    Presto i secondi diventano minuti.

    Fisso la carta da parati a fiorellini lilla e penso che ricomincerò una battaglia che ho lasciato in sospeso da tempo: diavolo, sono un uomo maturo, piuttosto robusto e, dicono di me, di un certo spessore e temperamento. Sulla serietà pare non ci siano dubbi… con una carriera di non poca rilevanza tra le mani. I fiorellini lilla stanno bene nei campi!

    Intanto questa brutta sensazione alla bocca dello stomaco sembra non volermi abbandonare. Ipotizzo dipenda dal bisogno che avverto di mia moglie, quello fisico, intendo.

    È da troppo tempo che ci addormentiamo dopo un tiepido saluto.

    Talvolta inorridisco al pensiero di non piacerle più, ma poi ricordo chiaramente i momenti in cui i suoi occhi bramano i miei e io, codardo, abbasso lo sguardo esitante.

    Sarà che per me il tempo sembra galoppare inesorabile. O almeno è ciò che avverto ogni volta che mi guardo allo specchio. Per lei invece… pare essersi fermato.

    È sempre così giovane e bella…

    Ieri sera poi… stretta in quel tubino corallo, non facevo che immaginare il momento in cui gliel’avrei strappato di dosso. Peccato che poi, dopo un abbondante antipasto, un arrosto farcito ad arte, una serie infinita di polpettine variegate, un’imbarazzante quantità di contorni e dolci a non finire, il tutto accompagnato da un brunello invecchiato trent’anni, l’unica cosa che mi sono sentito di strappare, quando la casa è tornata a essere silenziosa, è stata la bustina di un avvilente digestivo al gusto di limone. Ancora una volta, ho preferito voltarmi su un fianco e dormire.

    Il giorno del nostro anniversario… me ne vergogno.

    La guardo. Stella, l’amore mio, moglie e madre gentile con un gran cuore, il perno della nostra vita, un’àncora a cui noi tutti ci siamo sempre aggrappati. Chi sarei stato io senza di lei?

    È unica, i suoi capelli sono sempre lunghissimi, lunghe onde morbide che le addolciscono il viso e le contornano il generoso décolleté. Non li ha mai voluti tagliare, neanche quando le sue amiche hanno iniziato a farlo. «Alla nostra età diventiamo ridicole», mi sembra le abbiano detto in più di qualche occasione, e lei ne ha semplicemente riso con me.

    Noto la spallina della sottoveste solcarle la pelle chiara e compatta, timidamente la sfioro facendola scivolare sulla spalla. Mi avvicino e lascio che il familiare odore di buono mi tranquillizzi.

    Alzo curioso le lenzuola per sbirciare quelle gambe che mi hanno sempre fatto impazzire e lì, in quella frazione di secondo, avverto qualcosa di meraviglioso, una sensazione conosciuta che mi scorre nelle vene. Cerco di alimentarla per non perderla, non voglio che mi abbandoni, non voglio reprimerla.

    Euforico, penso che dovrei svegliare la mia donna, mia moglie, la mia Stella; ne ha bisogno, anche lei ha bisogno di sentirmi, lo merita, voglio che sappia che la sto desiderando.

    Negli ultimi tempi le poche volte in cui abbiamo fatto l’amore ha sempre preso l’iniziativa; io partecipavo, sì, ma non come avrei voluto, non come so fare.

    Ho sempre avuto la forza e la fame di un leone…

    Adesso sento che la stanchezza mi schiaccia.

    La verità è che da quando Felicia è rimasta incinta, mi sento diverso. Un senso d’inquietudine mi accompagna in ogni cosa che faccio. Neanche quando Stella aspettava i gemellini, i miei figli, Pietro e Felicia, sono stato così turbato… eppure erano due, ma nella mia casa, sotto la mia protezione… e questo li metteva, nel mio animo, al riparo da ogni rischio.

    Felicia e Marco sono al settimo cielo. «L’abbiamo tanto desiderato!», sostengono ogni volta che si prende l’argomento e, intorno a loro, sorrisi e congratulazioni si disperdono nell’aria.

    Eppure io non riesco a sorridere. Mi sforzo sempre di stirare la bocca da un orecchio all’altro in un’apparente espressione di plauso ma, di fatto, per me è avvenuto troppo presto.

    Non lo dico a nessuno perché non voglio essere criticato, soprattutto perché Stella è rimasta incinta più o meno alla sua stessa età ma, si sa, quando le cose riguardano gli altri sono sempre diverse; siamo tutti bravi giudici ma difficilmente sappiamo incassare giudizi. E io non faccio eccezione.

    Mi chiedo continuamente: Sarà pronta ad accogliere questa nuova vita? Riuscirà a terminare gli studi? Sarà forte quando la natura le mostrerà debolezza e fragilità?.

    In fondo è solo una bambina… o forse ho solo paura di invecchiare. La parola nonno mi spaventa, Felicia non mi ha mai chiamato neanche papà.

    È un salto che non riesco a fare, è un’avventura di cui non mi sento all’altezza.

    Ma avverto dell’altro. Qualcosa non torna. Ho paura di perdere il controllo, mi sono perso.

    Mi avvicino a Stella avvolgendola da dietro, ho bisogno del suo calore. Sento che accoglie la mia presenza poiché il suo corpo preme forte contro il mio. Forse mi aspettava.

    «Ho bisogno di te», le sussurro all’orecchio.

    Lei si volta. «Sono qui… sta’ tranquillo», mi risponde, e nelle sue parole c’è un mondo perfetto, il mondo in cui pensare di avere un segreto con lei appare assurdo.

    I suoi occhi mi acquietano e, quando la sua bocca incontra la mia, perdo finalmente la testa.

    Mi è mancata da morire.

    Guardo l’ora, le sei e un quarto; la luce dell’alba rende tutto più chiaro. Un giorno nuovo, penso.

    La prossima volta che Felicia mi parlerà del piccolo Remo – il bambino che porta in grembo si chiamerà come mio padre, per amore, per tenerlo vivo tra noi, poiché da pochi mesi non c’è più – non mi sforzerò di sorridere, lo farò e basta.

    Il tempo è volato, mi dico. Ora mi guardo intorno compiaciuto e la carta da parati a fiorellini lilla non mi dà più così fastidio e, anzi, ha un che di vintage che mi riporta indietro, agli anni migliori, quando ero forte e insaziabile. Sorrido tra me e me.

    Un tuono improvviso mi fa scendere dalla nuvola in cui ho viaggiato nell’ultima ora.

    La pioggia si scontra rumorosa sulle finestre. Mi pare ancora di soffocare.

    Sto per chiudere gli occhi, ma il suono del telefono mi fa sobbalzare sul letto.

    Stella scatta seduta a fianco a me.

    «Pronto?», rispondo con un nodo alla gola che rischia di strozzarmi.

    «Giulio, non mi sento bene…». La voce di Felicia dall’altra parte.

    «Come? Perché?», domando senza dare un senso alle parole. Il cuore mi pulsa nel petto.

    «Non lo so…». Sento che sta per piangere.

    «Arriviamo!», esclamo catapultandomi giù dal letto, mentre Stella è già in piedi che si veste.

    I nostri occhi s’incontrano e bruciano.

    «Sbrigati!», m’implora Felicia.

    Da quel momento in poi… il buio. So solo che annaspo.

    Mi precipito fuori di casa, scendo le scale come un ossesso, mi butto sotto la pioggia, entro nel garage, salgo in macchina e solo lì mi accorgo che Stella è con me. Me ne accorgo perché mi strappa dalle mani tremanti le chiavi e le infila con fermezza nel cruscotto. Finalmente il rombo del motore. Schiaccio con foga il pedale e continuo a correre.

    I tergicristalli si agitano da una parte all’altra, esattamente come i miei pensieri.

    Ieri sera si è stancata troppo, troppe chiacchiere, troppa confusione, troppe persone a cui dare conto. E quell’arrosto farcito che le continuavo a servire… non siamo mica nel Medioevo! Ormai le donne incinte non mangiano più per due… e poi faceva un freddo su quel terrazzo! Diamine, è dicembre! Al diavolo le luci suggestive di Roma! Sì, è colpa mia, è solo colpa mia… le ho versato un bicchiere di prosecco costringendola a brindare… e poi… ho insistito affinché restasse ancora e poi non l’ho obbligata a fermarsi da noi per la notte. Ma scherziamo? Una donna incinta che guida al settimo mese! Ci ha dato a tutti di volta il cervello? Il fatto è che non vedeva l’ora di tornare a casa per parlare con Marco su Skype… lo ha nominato tutta la sera. Le manca tanto da quando è partito per il Kenya.

    In un attimo, lo odio. Odio Marco e i suoi viaggi di lavoro.

    La mia bambina aspetta tuo figlio, cazzo, dove diavolo vai? Come ti permetti di lasciarla sola? Tra un mese e mezzo partorisce, potrebbe avere bisogno di te!

    Sterzo rabbioso il volante, do un’ultima accelerata inutile, cambio le marce dalla prima alla terza in una frazione di secondo facendo schizzare la lancetta dei chilometri orari, poi, inchiodo.

    Sono arrivato. Tiro il freno a mano. Apro la portiera e mi lancio ancora sotto la pioggia battente.

    Improvvisamente, eccola: appoggiata al portone, mentre si tiene la pancia con entrambe le mani.

    È pazza?, mi domando. È per strada, con questo tempo?.

    Le ginocchia sono piegate ed è lì che anche le mie sembrano cedere, ma continuo a correre.

    Vedo la paura, una paura che conosco bene, con la quale mi sono già scontrato in passato, con la quale ho litigato, per anni, e poi l’ho affrontata, cercando di metterla a tacere nel tentativo di volermi ritrovare.

    Ora mi coglie impreparato, nonostante abbia trascorso gli ultimi mesi a scappare da lei che, ostinata, ha continuato a volermi mettere alla prova. Lo capisco solo adesso, ma non ne colgo subito il motivo.

    Quando raggiungo Felicia, mi accorgo che Stella è già vicino a nostra figlia, e che le tocca la fronte.

    Com’è possibile? Avrei giurato fosse dietro di me. Cosa mi succede?

    Non capisco più nulla, non mi sento bene neanch’io, ma non è il momento di darlo a vedere. Non riesco a respirare e ho gli arti indolenziti. Appoggio una mano al portone per sorreggermi e prendo fiato, sono sconvolto.

    Una goccia che sembra pietra si schianta sugli occhiali e divento cieco. Li tolgo e mi stropiccio gli occhi.

    «Scotta!», mi urla Stella, straziata.

    Scatto verso di loro, o almeno penso di farlo, ne sono certo… ma di fatto non mi muovo. Sono incollato al pavimento, mentre il cielo continua a lanciare secchiate d’acqua prepotenti.

    Mi passo una mano sul viso e mi infilo di nuovo gli occhiali.

    «Giulio!», m’incalza Felicia. La voce è debole e fioca; nel passato ho sempre accostato il colore rosa alle emozioni paterne che mi provocava, ora percepisco il nero terrificante che si sprigiona attorno.

    Stella mi ammonisce con lo sguardo mentre, abbracciandole la vita, si dirige insieme a lei verso la macchina, non prima di essersi tolta il cappotto e averla nascosta lì sotto, per proteggerla dalla pioggia.

    «Giulio smettila, cosa ti succede?», finalmente ha il coraggio di chiedermi, voltandosi appena. «Muoviti, abbiamo bisogno di te!», incita più diretta.

    Sento che la sto deludendo, sento che non mi riconosce.

    Dannazione! Mi scuoto e le raggiungo veloce, riprendo a correre ma non sono io a farlo, mi vedo dall’alto. L’acqua, violenta, mi colpisce sulla testa, confondendomi le idee.

    Apro la macchina e d’istinto piego in avanti il sedile. Afferro la mano di Felicia. È bollente, eppure l’aria fuori è gelida. I miei occhi si fermano nei suoi, per la prima volta da quando ho schiacciato l’asfalto bagnato. Ciò che vedo mi fa vacillare ancora; sono lucidi e spaventati, non lo sopporto, e mi chiedono aiuto.

    «Amore, stenditi qui dietro, non ti preoccupare, non è nulla, adesso risolviamo…», dice quell’uomo che stento a riconoscere, perché non sento la mia bocca muoversi e neanche le parole uscire.

    Ma lei mi sente e risponde: «Giulio, ho paura…».

    «Di cosa, amore…», dico con un nodo in gola, mentre già premo il piede sull’acceleratore.

    Come un pazzo controllo che Stella sia seduta accanto a me. Mi si ferma il cuore quando non la vedo, ma poi la sento. È dietro con Felicia, accasciata sulle sue gambe, e le accarezza amorevole la testa.

    A un tratto la sua mano forte sulla spalla. Gliela stringo e la pioggia, mi ostino a pensare sia la pioggia, mi bagna ancora le guance.

    Per l’intero tragitto Felicia urla dal dolore. E piange. Quando non piange ci rivolge domande che mi spaccano il cuore: «Perderò il bambino?». O si lascia andare a imprecazioni non meno strazianti: «Avvertite Marco! Fatelo tornare! Morirà di dolore se perderò il bambino e non sarà con me!».

    E so che, se così fosse, andrebbe esattamente così, morirebbe di dolore.

    Mi volto spesso a guardarla; le mani pressate sull’addome, la pelle umida, lo sguardo evanescente.

    Stella la tranquillizza, io annaspo.

    Quando arriviamo in ospedale, mi sembra tutto un incubo. Un incubo che non è mai finito.

    Un infermiere ci raggiunge veloce e la porta via sulla sedia a rotelle.

    Stella e io le corriamo dietro. Felicia si volta a guardarci. Devo ammettere a me stesso la verità, devo assumermi la responsabilità di ricevere tutto questo amore: si volta a guardare me, solo me, e un fremito mi annebbia la vista.

    Mi chiede: «Ci vediamo dopo?»

    «Certo che ci vediamo, dove pensi che vada?», rispondo ridendo come un coglione, mentre avrei voluto dirle tutte quelle cose che ti passano per la mente quando pensi di poter perdere una persona.

    Mi scuoto. Perdere una persona? Stupido fifone, andrà tutto bene, ha solo la febbre alta…, mi dico, mi convinco, infine mi perdono per aver solo ipotizzato il contrario.

    Sembra che la vita si stia prendendo beffa di me, ancora una volta. Non sono in grado di ripercorrere quel cammino. No, non lo sono affatto.

    Alzo una mano e la saluto, poi mi accorgo che è già in ascensore e le porte si stanno chiudendo.

    Stella si lascia andare a un pianto convulso.

    2. Il tempo della resa dei conti

    Tre ore dopo sono ancora seduto nella sala d’aspetto.

    Stella è accanto a me che trema e prega. Le accarezzo la mano e gliela bacio. Mi guarda vulnerabile. Ecco, lo sguardo che non sopporto. Non lo sopporto perché non ci sono abituato. Lei è sempre così forte. Si volta per guardarmi e la scruto bene. Mi concentro per capire quanto sia forte veramente. Mi spavento di più.

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