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La consuetudine del buio
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La consuetudine del buio
E-book251 pagine3 ore

La consuetudine del buio

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Info su questo ebook

Che colpo di scena! La consuetudine del buio è un thriller che ha davvero saputo stupirmi... e succede molto raramente!” — Roxane Gay, autrice di Fame e Donne difficili

Senza compromessi, feroce e meraviglioso.” — The Guardian

Un affascinante noir rurale che posiziona l’autrice nel solco di Gillian Flynn (L’amore bugiardo) e Daniel Woodrell (Un gelido inverno).” — Publishers Weekly

Non solo un thriller sapientemente architettato, ma anche – grazie alle sue indimenticabili protagoniste – una fine analisi del rapporto madre-figlia.” — Library Journal

Quando la notte è più buia, ricordati chi sei.

Eve Taggert non è estranea al lato oscuro della vita. È sopravvissuta a una famiglia disastrata e a una madre dura e spietata che non le ha certo insegnato la tenerezza, e adesso vive nella precarietà in una piccola cittadina sperduta nei Monti Ozark. Nonostante questo, non ha mai fatto mancare nulla a sua figlia di dodici anni, Junie. L’ha cresciuta da sola, a dispetto di tutto, lottando ogni giorno per darle la vita che lei e il fratello non sono mai riusciti ad avere. Comprensione, sostegno, amore.
Finché, in una mattina livida e fredda, Junie viene trovata nel parco giochi cittadino, stesa accanto alla sua migliore amica. Abbandonate come bambole rotte, la gola tagliata. Le ricerche della polizia finiscono presto in un vicolo cieco, ma Eve non ha intenzione di rassegnarsi. Deve scoprire chi ha ucciso la figlia. La sua ricerca di giustizia la trascina dai bassifondi della città fino alla solitudine dei boschi. Ma più di tutto, la riporta alle lezioni di vita della madre. Perché Eve avrà bisogno di tutta la crudeltà che le è stata insegnata per scoprire la verità.

Amy Engel ci regala un romanzo magistrale e sconvolgente che ha conquistato il cuore dei lettori e della critica e che è stato venduto in quindici paesi nel mondo.

La consuetudine del buio è una storia sul legame indissolubile fra una madre e una figlia.

È una storia di vendetta, è una storia di coraggio. E di come, a volte, anche il più oscuro e terrificante dei luoghi può darci il senso di protezione di una casa.
LinguaItaliano
Data di uscita18 mar 2021
ISBN9788830525726
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    Anteprima del libro

    La consuetudine del buio - Amy Engel

    Dickinson

    LA FINE

    Morirono durante un’anomala tormenta di neve in aprile, con il sangue che colava su un manto bianco e irregolare. In seguito alcuni dissero che l’assassino doveva aver tenuto d’occhio le minacciose nuvole grigie e aver sfruttato il brutto tempo come segnale per colpire: aveva scelto infatti il momento in cui tutti quanti erano asserragliati in casa, ottimisticamente in maniche di camicia, a tremare e a brontolare sul cambiamento climatico. Investigatori dilettanti, desiderosi di dare senso a una vicenda che non sarebbe mai stata altro che insensata. Si sbagliavano, ovviamente. Il tempo non c’entrava nulla. Le ragazze avrebbero potuto dirglielo, se fossero state in grado di parlare.

    Izzy morì per prima, con i capelli castano scuro scompigliati sul viso e un occhio che sbirciava tra le ciocche. Un lento battito di ciglia, lo sguardo fisso sulla faccia di Junie. Un altro battito di ciglia, la messa a fuoco ormai svanita. Junie aspettò un terzo battito di ciglia, che non arrivò, e guardò il sangue defluire in mezzo a loro. Cercò di toccare Izzy, con l’intenzione di riportarla al mondo scuotendola, ma non riuscì a muovere la mano. La sentiva pesante, anche se non ricordava di essere stata legata. Non ricordava niente, in realtà. Perché fosse lì o cosa stesse succedendo. Solo un opaco, lontano terrore che pulsava insieme al suo battito cardiaco sempre più debole. Emise un suono dalla gola straziata, un nome, una supplica, una preghiera. Ma quel suono non oltrepassò mai le sue labbra. Una bolla di sangue scoppiò e traboccò. La neve premeva fredda contro la sua guancia.

    «Shhh…» disse una voce. «Tra poco sarà tutto finito. Shhh…» Una mano sulla testa, ad accarezzarle i capelli. Alzò gli occhi, l’unica parte del corpo che ancora riusciva a muovere. Vide il bordo delle altalene, un ramo rivestito di bianco, il cielo grigio ferro, piatto. L’ultima volta che era stata lì era con sua madre, e avevano in mano dei gelati che si scioglievano più in fretta di quanto riuscissero a mangiarli. Crepuscolo caldo, sudato, e lucciole. Si erano dondolate fianco a fianco e la madre era saltata giù dal suo sedile nel punto più alto dell’arco, i capelli biondi al vento, una risata rauca che fendeva l’aria. Diceva a Junie che il segreto era non pensarci. Chiudi gli occhi e vola.

    Mamma. La nostalgia la trapassò come un amo acuminato, mentre il corpo si inarcava una volta contro il terreno e la mano si contraeva in un pugno. Voglio la mamma. Sentì il profumo di sua madre, un giardino di primavera somministrato una goccia per volta, per far durare il flacone. Udì la voce di sua madre che le sussurrava conforto nell’orecchio. In bocca aveva sapore di sale e di sangue, e lacrime sulle labbra. Sapeva che era la fine e non poteva credere che stesse arrivando così vicina all’inizio. Un sospiro la scosse. Guardami, mamma. Ce la faccio. Chiuse gli occhi e spiccò il volo.

    1

    Avevo tenuto d’occhio l’orologio tutto il giorno. E per questo motivo mi rompevano le palle. Ogni volta che mi sporgevo sul bancone per ritirare un’ordinazione, Thomas mi schiaffeggiava la mano con la sua paletta unta. «Devi andare da qualche parte?» mi chiedeva con un verso di disapprovazione. «Ovunque sarebbe meglio che in questo squallido buco» rispondevo ridendo, mentre mi minacciava di nuovo con la paletta. Ecco l’unico aspetto positivo di lavorare in quella topaia da più di dieci anni: non dover più badare alle buone maniere.

    «Sono quasi le cinque» annunciai dopo aver seguito un’ultima volta la lancetta dei minuti nel suo giro sul quadrante.

    «Ma che fretta hai oggi?» domandò Louise, riallacciandosi il grembiule attorno al massiccio punto vita. «Sembri un gatto in una sala piena di sedie a dondolo. Continua così e a Thomas gli fai venire un infarto. Lo sai che odia vederci distratte.»

    Tornai a lanciare lo sguardo al di là dello sportello della cucina facendo l’occhiolino a Thomas, che a tenere il broncio non ci riusciva proprio. «Non lo so» ammisi. «In effetti sono un po’ agitata.» Forse era quel tempo strano, imprevisto. Il giorno prima era di un verde pieno di germogli e sussurri, con l’aria profumata di fiori di campo. Quel giorno invece la neve era venuta a bagnare le vetrate della tavola calda, infilandosi dentro in piccoli vortici ogni volta che qualcuno apriva la porta. Ma ormai il sole iniziava a sbucare dalla coltre di nubi, giusto per il tramonto, e si stavano già formando rivoli di neve sciolta ai margini del parcheggio. La mattina dopo sarebbe stata di nuovo primavera. Ma il Missouri è così. Come dicevano sempre gli autoctoni: se non ti piace il tempo che fa, aspetta cinque minuti.

    «Saranno state quelle sirene di prima» buttò lì Thomas. «Cavolo, ancora un po’ e mi facevano impazzire.»

    Louise annuì e mi fece segno di passarle le bottigliette del ketchup da riempire. «Probabilmente una sfilza di incidenti. Ho sentito che c’era casino intorno al vecchio parco giochi. Da queste parti la gente non è proprio capace di guidare.»

    Thomas fece sentire la sua approvazione sbuffando dalla cucina, e Louise si girò a guardarlo. «Quand’è stata l’ultima volta che abbiamo avuto la neve ad aprile? Mi sembra un secolo.»

    «Appena prima che nascesse Junie» dissi io senza esitazione. «Tredici anni.» Ricordavo che mi ero ingrossata al punto da non riuscire a infilare le caviglie gonfie negli stivali pesanti e avevo dovuto affrontare i cumuli di neve con le scarpe da tennis consumate.

    «Oddio, hai ragione» disse Louise. Finì di riempire una bottiglietta e la fece scivolare verso di me. «Che progetti hai per la serata?» Abbozzò un passo di danza. «Vai a ballare? A bere qualcosa? A spassartela un po’?»

    «Ho promesso a Junie di tornare presto, così ordiniamo una pizza e ci guardiamo un film. È da ieri che non la vedo.» Non ebbi bisogno di vedere Louise che alzava gli occhi al cielo per capire quanto trovasse patetica la mia idea di un sabato sera entusiasmante. Mi aveva già detto a sazietà che stavo sprecando la mia giovinezza. «Ne ha trenta e va per i cinquanta» era uno dei suoi commenti preferiti sulla mia vita sociale inesistente.

    «Quando avevo l’età di Junie, avrei fatto i salti di gioia anche se mi avessi portato via i genitori per una settimana, quei rompiscatole.» Louise scosse il capo. «E dov’è che è andata?»

    «Si è fermata a dormire da Izzy Logan.» Continuai a fissare la parte di bancone che stavo pulendo, ignorando il pizzicore che sentivo alla base del cranio.

    «Sono proprio pappa e ciccia quelle due» disse Louise, con una lieve nota di incredulità che non mi sfuggì. Ormai ci ero abituata; avevo capito che ragazze come Junie e ragazze come Izzy di solito non bazzicano la stessa compagnia. Soprattutto in quel piccolo paese, in mezzo al quale pareva quasi di vedere una striscia dipinta come un segnale stradale. Da questo lato, bianchi poveri. Non attraversare. Che a restare dalla parte sbagliata fosse il novanta per cento della popolazione sembrava senza importanza. La linea invisibile non si spostava in base al principio di maggioranza, almeno se si trattava di mescolarsi alla famiglia di Jenny Logan. Quando, alle medie, andavo in giro a cercare lattine da riciclare nei fossi lungo la strada, mi ricordo che già vedevo Jenny gironzolare con la sua piccola decappottabile bianca. Era partita per il college mentre ero al secondo anno delle superiori, e avevo dato per scontato che fosse andata via per sempre. Invece era tornata due anni dopo, con una mezza laurea che non aveva mai usato e un ragazzo giusto avviato a subentrare al padre di lei nella concessionaria di barche. In città non erano niente di speciale, ma da queste parti costituivano una sorta di famiglia reale. Non ci voleva molto. Di solito bastavano un lavoro decente e una casa che non fosse mobile.

    «Eh, sì» dissi. Era un atteggiamento che odiavo: tutti si comportavano come se dovessi essere grata che a Izzy fosse simpatica mia figlia, che i genitori di Izzy accogliessero Junie in casa loro. Nessuno mi chiedeva mai cosa ne pensavo, e probabilmente sarebbero rimasti stupiti di scoprire che non provavo alcuna gratitudine. Che avrei messo fine a quell’amicizia da tempo, se avessi trovato un modo per farlo senza spezzare il cuore a mia figlia. Mi dava fastidio quando Jenny telefonava per organizzare i loro appuntamenti, sempre dando per scontato – nonostante gliel’avessi ricordato non so quante volte – che i miei orari fossero infinitamente flessibili. Facevo finta di non vedere i superficiali gesti di saluto del padre di Izzy, Zach, quando arrivavo davanti alla loro veranda alla guida della mia vetusta Honda con il lunotto posteriore tenuto insieme dal nastro adesivo. Continuavo ad aspettare – e a desiderare – che il primo germoglio di quell’amicizia appassisse, che qualche litigio stupido facesse separare le bambine. Ma la cosa andava avanti da anni, e a quel punto il legame tra loro si era fatto solido. Neppure questo mi piaceva. Odiavo pensare a cosa poteva significare.

    Lasciai cadere lo straccio sul bancone e mi premetti le mani sulle reni. Ero troppo giovane per sentirmi così distrutta a fine giornata, con le gambe doloranti e una pulsazione sorda nella spina dorsale. Con la nevicata, la giornata alla tavola calda avrebbe dovuto essere più tranquilla, ma il tempo era il secondo argomento di conversazione gradito a tutti, subito dopo la politica, e nel locale c’era stato un gran viavai tutto il giorno; si stava svuotando solo ora che tutti si dirigevano a casa per la cena. L’espositore delle torte era vuoto, e stimare quante tazze di caffè avevo versato nelle ultime otto ore sarebbe stato impossibile. Tante chiacchiere e ben poche mance. Non esattamente il tipo di giornata che preferivo.

    «Mi pare che stia arrivando tuo fratello» disse Louise. «Spero non voglia una fetta di torta di mele. Casca proprio male.»

    Mi raddrizzai, guardando la macchina di Cal che si fermava lentamente davanti al locale. Anche dopo tanti anni, la vista di mio fratello dietro il volante di un’auto della polizia mi risultava quasi scioccante. Avevamo passato la maggior parte dell’infanzia a evitare gli sbirri, imparando a tenerli sempre d’occhio. Era un servizio pubblico che poteva farci guadagnare un dollaro in più dagli spacciatori che usavano come bottega la cadente cucina di nostra mamma. Perciò quella di poliziotto non era proprio in cima alla mia lista delle professioni plausibili per Cal. E invece lui mi aveva sorpreso, diventando uno sbirro e rivelandosi pure bravo in quel lavoro. In paese si diceva che fosse tosto ma sempre corretto, il che era più di quanto si potesse dire del suo capo e di quei pigroni degli altri vice. Una volta, quando aveva passato una notte in cella dopo aver fatto casino da ubriaco, Thomas mi aveva detto che Cal aveva «proprio un bel modo di fare, anche quando ti infila le manette». Era il complimento maggiore a cui potesse aspirare un tutore dell’ordine, da queste parti.

    «Di solito il sabato non è in città» dissi. Tra colleghi dovevano dividersi il territorio, dato che pattugliavano non solo Barren Springs, ma diversi altri centri abitati e i lunghi tratti di strada tra l’uno e l’altro.

    «Magari gli va una tazza di caffè» disse Louise. «Di certo ha avuto una giornata faticosa.» Si spettinò i capelli con una mano. Louise aveva abbondantemente l’età per essere la madre di Cal, ma persino lei in presenza di mio fratello si rendeva ridicola, come se volesse in egual misura coccolarlo e sedurlo.

    «Può darsi» dissi io, ma qualcosa di pesante mi si depositò nello stomaco mentre Cal si districava dal sedile dell’autopattuglia. Chiuse la portiera e si fermò, abbassando la testa, con i capelli biondo scuro che riflettevano la luce. Dopo un attimo si raddrizzò e tirò indietro le spalle. Si sta preparando, pensai, e il nodo che mi pesava nello stomaco parve sfondare il pavimento. Quelle sirene… Mi dissi che non avevano niente a che fare con Junie: era troppo piccola per guidare e troppo grande per fare la sciocca al parco giochi. Afferrai lo straccio e distolsi lo sguardo dalla vetrina, tornai a strofinare il bancone di fòrmica pieno di crepe e non alzai gli occhi neppure quando sentii suonare la campanella sopra la porta.

    «Ehi, Cal» disse Louise, con un tono acuto e sbarazzino, «vuoi…»

    Con la coda dell’occhio vidi mio fratello che alzava una mano, bloccando subito Louise. «Eve» disse a bassa voce, camminando verso di me. Le scarpe da poliziotto facevano rumore sul vecchio pavimento di linoleum.

    Io non alzai gli occhi, continuando a pulire. Qualunque fosse la ragione per cui era venuto, qualunque fosse la sensazione che mi aveva punzecchiato tutto il giorno, non si sarebbe materializzata, non sarebbe stata vera se gli avessi impedito di pronunciarla.

    «Eve» ripeté. Adesso vedevo la fibbia della sua cintura premuta contro il bordo del bancone. Cal tese un braccio e appoggiò la mano sulla mia. «Evie…»

    Con uno scatto levai la mano e feci un passo indietro. «No» dissi. Volevo fosse un tono abbastanza deciso e imperioso da impedirgli di parlare, ma la mia voce vacillò e si spezzò su quell’unica parola, che andò a finire in nulla.

    «Guardami» disse Cal, gentile ma fermo, con la sua voce da fratello maggiore. Alzai lentamente lo sguardo, ma non volevo vedere, non volevo sapere. Aveva gli occhi gonfi e orlati di rosso. Aveva pianto, me ne resi conto con una piccola scossa elettrica. Non ricordavo di aver mai visto piangere Caleb, neanche una volta nell’infanzia di merda che avevamo vissuto insieme. Fissai i suoi occhi azzurro chiaro, e lui fissò me. Come sempre, era come guardare in uno specchio, che però mi rimandava un riflesso più netto e limpido. Gli stessi capelli, gli stessi occhi, la stessa spruzzata di lentiggini, ma tutto rivestito di una luminosità che io proprio non avevo. Come se la natura avesse speso tutto il patrimonio genetico per mio fratello, e al mio arrivo, undici mesi dopo, fosse rimasto appena il necessario per una copia sbiadita, di second’ordine.

    «Cosa vuoi?» dissi, improvvisamente pronta per qualsiasi inferno mi attendesse dietro le sue labbra. Quando non rispose, gli buttai addosso lo straccio, che lo colpì al petto lasciandogli una macchia umida sulla camicia. «Cosa vuoi?» Stavo praticamente urlando. Louise si avvicinò e mi posò una mano sull’avambraccio. Il suo tocco, normalmente il gesto per me più simile a un conforto materno, mi scavò sotto la pelle, e con uno scatto mi sottrassi, fremendo in tutto il corpo come un cavo dell’alta tensione.

    «È per Junie, Eve» disse Cal. «È Junie.» Quando gli si spezzò la voce guardò altrove, la gola palpitante. «Devi venire con me.»

    Ma io mi sentivo inchiodata a terra, con i piedi che affondavano nel pavimento, il corpo pesante come piombo. «È morta?» Louise, accanto a me, inspirò bruscamente. Bastò quel suono a farmi capire che mi ero spinta troppo in là, facendo un salto che Louise non avrebbe mai fatto. Louise però non era cresciuta com’ero cresciuta io. Senza soldi, certo. Buoni pasto e formaggio passato dal governo, certo. Ma senza violenza. Senza una casa mobile che puzzava di uomini sconosciuti e fornelli da metanfetamina. Senza facce estranee e troppe risate, per lo più esagitate e cattive. Tutto ciò in un angolo infame dei monti Ozark, un posto a soli venti chilometri da lì, ma così isolato, così nascosto al mondo esterno che pareva trovarsi in un’oscura sacca temporale tutta sua.

    Ma Cal sapeva. Mi fissò, sostenne il mio sguardo. Mio fratello non mentiva mai, non a me. Qualunque cosa stesse per dirmi sarebbe stata la verità, che potessi sopportarla oppure no. «Sì» disse poi. «Junie se n’è andata. Mi dispiace, Evie.»

    «Com’è successo?» mi sentii chiedere, una voce lontana come un palloncino alla deriva sopra la mia testa.

    Cal serrò la mascella e inspirò forte dal naso. «Sembra che sia stata uccisa.» Solo in seguito, dopo aver saputo tutti i terribili dettagli, mi sarei ricordata di quel momento e avrei capito che persino allora mio fratello aveva cercato di salvaguardarmi da qualcosa.

    Nella mia testa, caddi a terra ululando con la bocca storta, gridando fino a graffiarmi la gola, mi strappai i capelli, battei la faccia sul linoleum finché il naso non si spaccò facendo scorrere sangue scuro. Ma in realtà non feci che girarmi a prendere il giaccone e la borsa dal gancio alle mie spalle, e mentre lo facevo colsi un’immagine della faccia scioccata di Thomas, con la bocca aperta e gli occhi spalancati. Evitai la mano tesa di Louise e il braccio protettivo di mio fratello. Uscii per prima nell’aria fredda che sapeva di neve, stringendo le palpebre davanti ai fiochi raggi del sole che squarciavano le nuvole. Era arrivata, alla fine. La catastrofe che mi aspettavo fin dall’istante in cui Junie era nata. E io non ne avevo avuto il minimo sentore.

    2

    Non è mai ciò che ti aspetti ad abbatterti. È sempre qualcosa di subdolo, che ti arriva alle spalle di soppiatto quando hai l’attenzione monopolizzata da qualcos’altro. Quante volte ce l’aveva detto la mamma a suo tempo? Una perla di prezioso discernimento nella sua esistenza alimentata per il resto da alcol e droga. Lezione imparata da suo padre, che era malato di cuore: ogni singhiozzo o rantolo pareva un segno certo di morte imminente, fino al giorno in cui un cancro allo stomaco apparve dal nulla e lo fece fuori prima ancora che il cuore capisse cosa stava succedendo. La mamma distribuiva saggezza così di rado, quand’ero piccola, che a quella perla mi ero aggrappata come a un’ancora di salvezza. Avevo passato la vita a cercare di prevedere ogni singolo disastro che potesse colpirci, nella speranza che niente arrivasse a coglierci di sorpresa. E alla nascita di mia figlia, avevo immaginato un milione di modi in cui il mio affannoso, disperato amore per lei sarebbe potuto andare incontro al peggio: quando era piccina, sindrome della morte in culla o soffocamento per un pezzetto di hot dog; quand’era cresciuta, incidente d’auto o leucemia infantile; ora che stava diventando adolescente, qualche pericoloso ragazzo più grande o l’inclinazione della nonna per le droghe, riapparsa dopo aver saltato una generazione. Ma finire con la gola tagliata nel parco dove aveva giocato da piccola? No, non era mai stata una delle storie dell’orrore che mi raccontavo. Non in quel paesino in mezzo al nulla dove, se non conoscevi una persona, perlomeno conoscevi la sua famiglia, la sua appartenenza, la sua provenienza. Tutto questo era colpa mia, di sicuro. Perché se avessi avuto un po’ più di fantasia, se avessi rubato quell’idea prima che l’universo se la accaparrasse, forse la mia bambina sarebbe stata ancora viva.

    «Dov’è?» chiesi con la testa appoggiata al finestrino del passeggero. Fuori la luce svaniva in fretta, lasciando una striscia di tramonto arancione accesa dietro le nuvole. Gli edifici ci sfilavano confusamente accanto, mentre percorrevamo l’asfalto bucherellato della strada che costituiva il centro del paese: il supermercato con la sua piramide storta di carta igienica in vetrina; la palazzina della banca di mattoni rossi imbiancati, resa grigio sporco dal passare del tempo; la paninoteca dove nessuno andava a mangiare, a meno che non fosse attratto dalle intossicazioni alimentari. Cosa ci facevo ancora lì, in quel posto dimenticato, quel vicolo cieco che non poteva vantare neppure un fascino nostalgico? Niente piazzetta pittoresca, niente marciapiedi su cui passeggiare nelle giornate di primavera, niente negozietti vintage pieni di tesori fatti a mano; solo un’accozzaglia di edifici cadenti distribuiti sul margine di una statale, e un’atmosfera stanca e sporca che

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