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Forse non tutti sanno che in Puglia...
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E-book478 pagine6 ore

Forse non tutti sanno che in Puglia...

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Info su questo ebook

Curiosità, storie inedite, misteri, aneddoti storici e luoghi sconosciuti di una regione dalla cultura antichissima

Dalle danzatrici di Ruvo al “granaio d’Italia”, un viaggio, di storia in storia, attraverso una regione che non smette di stupire 

Ricca di storia, con un territorio di incredibile esuberanza dal punto di vista artistico e architettonico, circondata da un mare dall’ineguagliabile bellezza, meta turistica per eccellenza, italiana e non solo, la Puglia riserva, proprio per la sua inesauribile varietà, tesori ancora da scoprire, insieme a storie e aneddoti insoliti o poco noti. Sapevate che il sapone di Marsiglia è nato a Gallipoli? O che Nicola Zingarelli, padre del famoso dizionario, era originario di Cerignola? E che, nel 1943, la città di Brindisi fu per sei mesi capitale d’Italia? E come vengono confezionate a Bari Vecchia le famose orecchiette? Un libro che esplora quel che della Puglia resta spesso sullo sfondo, accrescendo ulteriormente il fascino di una regione che continua a sorprendere.

Forse non tutti sanno che in Puglia...

…il Gargano un tempo era un’isola
…la battaglia “di Canne” fu probabilmente combattuta altrove
…Canosa, la “piccola Roma”, sorge anch’essa su sette colli
…Castel del Monte per molti non è un castello 
…Enea approdò a Castro, in Salento
…il pozzo senza fondo esiste, ed è a Manduria (chiedetelo a Plinio)
…anche Bari è stata capitale (sotto il segno di Bisanzio)
…il Carnevale di Putignano è il più lungo di tutti
Stefania Mola
è nata a Napoli nel 1964. Specializzata in storia dell’arte, vive a Bari e lavora in campo editoriale. Ha al suo attivo svariate attività didattiche e collaborazioni con enti pubblici e privati operanti nel settore dei beni culturali e del turismo, nonché numerose pubblicazioni riguardanti soprattutto la Puglia e il suo territorio, tra cui: Puglia. Turismo Storia Arte Folklore; Foggia. Regina di Capitanata; Trani. La cattedrale e, per la Newton Compton, Il giro della Puglia in 501 luoghi e Forse non tutti sanno che in Puglia....
LinguaItaliano
Data di uscita10 nov 2016
ISBN9788822702388
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    Anteprima del libro

    Forse non tutti sanno che in Puglia... - Stefania Mola

    Introduzione

    Il n’est pas en Europe de province aussi facilement accessible, presque à portée de la main, qui soit tellement prodigue en bonnes surprises dans le domaine de la sculpture ou de l’architecture, et qui nous donne à si haut point l’agréable impression de nous être éloignés dans le temps et dans l’espace.

    André Pieyre de Mandiargues, Petit Cicéron des Pouilles, da Le belvédère, 1958

    Forse non tutti sanno che fuori dai confini nazionali la Puglia è considerata la più bella del reame… Ultimo della serie, il «National Geographic» la elegge quest’anno Best Value Destination, tessendo gli elogi dei suoi ritmi di vita, delle sue tradizioni, della bellezza dei suoi luoghi. E non per la prima volta.

    Se come incipit vi sembra troppo facile e scontato, date allora le spalle all’orizzonte consueto e di questa terra prendete un luogo qualsiasi, frugate tra le sue pieghe fino a scovarne gli attori, spesso poco noti, o magari – se siete fortunati – il suo genius. Oppure passate dall’altra parte dello specchio, fermatevi a leggerne la storia e il mito, a orecchiarne la musica, ad assaggiarne il cibo, a toccarne con mano la materia densa, scabra, porosa o liquida, il fluire del suo tempo. Forse non tutti sanno che non basterebbero le cento storie che in queste pagine ho semplicemente abbozzato, e che tutte insieme ne raccontano una sola. Quella della Puglia.

    Trattandosi di una terra inscindibilmente legata al Mediterraneo, le storie sono approdate come accade in ogni proverbiale porto di mare, in ordine sparso, vocianti, eterogenee, senza preavviso, da ogni tempo e da ogni luogo, richiamate dall’allettante proposta di insinuare il dubbio: forse non tutti sanno quanto potrebbero aggiungere al racconto di questa Puglia bella, iconica, alla moda e di cui tutti parlano. Perché forse non tutti sanno che oltre le cartoline tradizionali esistono storie minime, parallele o trascurate che di questa regione regalano un’anima non meno ricca e avvincente di quella già nota.

    Certo, Il giro della Puglia in 501 luoghi mi aveva viziato: un percorso ordinato e bilanciato, guidato dal territorio stesso, un videndum oggettivo e inequivocabile nonostante le non poche chicche e nonostante le scelte avessero in taluni casi comportato importanti esclusioni. Stavolta invece non sapevo davvero da dove iniziare, soprattutto per evitare di essere accusata di negligenza, vista la mole di curiosità legate praticamente a ogni angolo della regione. Anche perché, per rimanere fedeli al titolo, ci sarebbe stato bisogno di scoprire tesori inediti o almeno di riformulare in maniera accattivante cose poco note persino agli stessi pugliesi. Il tutto restando nel solco di una divulgazione seria, che solleticasse la curiosità del lettore senza annoiarlo, ragione per la quale ogni racconto – per scelta – avrebbe dovuto configurarsi non come un saggio accademico ma più come un breve articolo, pur non rinunciando a riferimenti e citazioni che contribuissero a dargli sostanza e corpo.

    Alla fine avrei potuto continuare a scrivere per anni, ma non erano questi i modi e i tempi richiesti. Sicché la selezione è stata per forza di cose più drastica e severa di quella impostami dai 501 luoghi. Scelte continuamente modificate in corso d’opera perché fossero toccate un po’ tutte le declinazioni del poco risaputo o dell’insolito e – in maniera quanto più possibile omogenea – l’intero territorio pugliese. Il che, trattandosi di storia, arte, personaggi, tradizioni e curiosità assortite, si configurava come un’impresa sovrumana da concentrare in un libro così, resistendo a tentazioni d’ogni tipo e seguendo i percorsi reticolari della mente che, come si sa, sono dotati di link a ogni passo – peggio del web.

    Il filo rosso di questo libro, alla fine, appare vagamente cronologico, nonostante i continui sconfinamenti tra presente e passato, necessari a ogni cosa di cui si parli per indagare le ragioni dell’uno nell’altro. Il risultato è un curioso spaccato della Puglia, trasversale rispetto alla possibilità di affrontare le storie raccontate per temi (come pure ero tentata di fare), che parte dal mare e approda alla Grecìa (salentina) riassumendo il senso profondo di questa terra di confine dotata per sua natura di un orizzonte mobile e liquido che la svela poco alla volta, sorprendendo sempre.

    Forse, nonostante i titoli a effetto di molte riviste glamour, della Puglia non ci sono cose eclatanti da scoprire. Ma da ritrovare sì, eccome, magari seguendo la traccia lasciata nell’aria da alcune delle cento storie qui proposte o delle tante altre che – rimaste fuori da queste pagine – non aspettano che di poter sprigionare il loro irresistibile profumo di memoria.

    Stefania Mola

    ottobre 2016

    1. …la linea di costa è la più lunga d’Italia (e ha disegnato la sua civiltà)

    Tra terra e mare, in molti luoghi, vi sono dei limiti: un inizio o una fine, l’immagine o l’idea che li uniscono o li separano. Numerosi sono i tratti in cui la terra e il mare si incontrano senza irregolarità né rotture, al punto che non si può determinare dove comincia l’uno o finisce l’altro. Queste relazioni, multiple e reversibili, danno forma alla costa. Ogni idioma concepisce e crea appellativi più o meno conformi alle proprie coste, ai legami che esse tessono e annodano. La parola greca kolpos, da cui deriva golfo, inizialmente significava seno o grembo, implicando una certa relazione intima: il mare che tocca e abbraccia la terra.

    Predrag Matvejević, Il Mediterraneo e l’Europa, 1998

    Se ottocentotrentaquattro chilometri di coste vi sembrano pochi… Chilometro più, chilometro meno, a tanto ammonta in Puglia il suo essere letteralmente protesa sul mare. L’essere terra di confine, ancorata nel Mediterraneo e dotata di un tale orizzonte liquido e mobile. Ovunque ti volti si vede il mare. Dalle alture, da quelle che vorrebbero essere infinite lontananze ma è solo terreno che si solleva appena nel breve spazio della sua sagoma allungata, mentre la costa si srotola senza soluzione di continuità dalle lagune garganiche di Lesina e Varano riavvolgendosi fino alle marine tarantine di magnogreca memoria, passando per quella Finisterre dove l’abbraccio tra Adriatico e Ionio sigilla il patto di questa regione con il Mediterraneo di cui è figlia ed erede.

    È un lungo viaggio quello pugliese fatto seguendo il filo del confine sull’acqua. Si toccano due mari e una successione straordinaria di paesaggi, nastri di sabbia finissima e mezzelune di ciottoli rotondi come confetti, montagne di sale, dune costiere e macchia mediterranea, grotte, anfratti e scogliere, fari, torri e campanili. Il tutto lambito da un’acqua cangiante, a tratti color cobalto, altre volte cristallo, turchese, acquamarina e smeraldo. Localmente gli appellativi si sprecano: Maldive o Caraibi di Puglia, dal versante ionico, perché si capisca di cosa parliamo evocando esotismi che con i tropici hanno in comune le trasparenze, l’orizzonte a perdita d’occhio e quel particolare sentore fatto di sogno. Sembra quasi che la Puglia non sia scindibile dall’idea di un mare creato apposta per le vacanze, se dessimo retta alla sovraesposizione mediatica degli ultimi anni. Eppure, a parte la sciccheria delle ville eclettiche che la buona borghesia salentina di un secolo fa edificò a Leuca o a Santa Cesarea, intorno alle quali aleggia un certo spirito vacanziero per pochi e una consuetudine per la villeggiatura non riscontrabile altrove, in Puglia la tradizione della vacanza balneare ha radici recenti e nasce con il turismo di massa negli anni Sessanta. Timidamente, certo. Stranieri e nordici sono stati pionieri della riscoperta, e partivano quasi sempre da e per tutt’altro, prima di approdare alla meraviglia di questi paesaggi praticamente incontaminati. Emblematica è la storia legata a Pugnochiuso, zona sorvolata per caso nel 1959 da Enrico Mattei che ne rimase folgorato, e pochi anni più tardi – in quel paradiso – sorse il Centro vacanze dell’eni. Contestualmente la Puglia e il Gargano finirono sui giornali di tutto il mondo, ed era solo l’inizio dell’avventura.

    Ma più di ottocento chilometri di coste significano anche un oltre fatto di paesaggi insospettabili, di luoghi in cui la linea dell’orizzonte cambia la sua forma ma non scompare mai del tutto, che si tratti di distese di ulivi secolari, boschi lussureggianti o campi di grano a perdita d’occhio, colline dolci o pietrose, tranquille lagune e cavità sotterranee, dove la terra gioca e l’immaginario collettivo rivive antichi racconti popolati da fantasmi. Altri capitoli della stessa storia, che il mare da sempre veglia e lambisce, senza fretta.

    Che fortuna avere il mare. Essere un ponte gettato verso oriente, una porta naturale verso l’intero bacino del Mediterraneo. Dare e ricevere, salpare e approdare, incontrarsi o sfiorarsi, con le sponde a indicare l’avvicendamento e la reciprocità dell’al di qua o di là. La fortuna di essere Puglia comincia con ottocento e passa chilometri di coste e non finisce, neppure oggi che il mare nostrum si fa carico di disperazioni e tragedie in apparenza irrisolvibili. La fortuna è in un orizzonte mutevole che non produce solo scoramento, bensì è capace di muovere emozioni profonde e ricomporre tensioni e bisogni. La fortuna di essere Puglia – pensando alle belle riflessioni di Franco Cassano – sta anche nell’essere l’ombelico meridiano in cui convergono la Storia e le storie di tutti e attorno al quale recuperare la salvifica lentezza di «quando si scopre che il confine non è un luogo dove il mondo finisce, ma quello dove i diversi si toccano». Perché per la Puglia lo sporgersi su questo mare con tutta la sua ricchezza e la sua vulnerabilità significa anche poter nutrire pensieri «in confidenza con forme di vita immobili, lente, stratificate e, a fronte della monocromia della velocità, i mille colori che si possono percepire solo quando la vita rallenta». Forse non tutti sanno che in Puglia, quando tace il frastuono della ribalta, si avverte anche questo.

    2. …c’è ancora chi dice le Puglie (e non è detto che sbagli)

    Il nome con il quale oggi indichiamo questa regione dell’Italia meridionale allungata sull’Adriatico e lo Ionio ha origini remote: la prima testimonianza letteraria del nome Apulia risale infatti all’ultima delle commedie di Plauto ( Casina , detta anche La ragazza dal profumo di cannella ), appellativo seguito poi dai maggiori scrittori latini, da Varrone a Cesare, Cicerone, Virgilio, Orazio, Livio, Ovidio, Tacito.

    Fin dall’alto Medioevo si tentò di spiegare il geonimo nelle maniere più vaghe e disparate: una diffusa pseudo-etimologia farebbe discendere Apulia da a-pluvia (cioè terra senza pioggia); Paolo Diacono la accostò alla voce greca apoleia (che significa sterminio, rovina); Cino da Pistoia lo ricollegò ad aper (cinghiale) sostenendo che il territorio fosse habitat naturale per questo animale. In tempi più recenti il termine fu associato a un generico significato di Paese aperto, privo di ostacoli naturali quali valichi o montagne. Insomma, un sacco di buone ragioni, e pure suggestive.

    I glottologi si impegnarono poi a sostenere spiegazioni più puntuali con il conforto dell’antica toponomastica greca ereditata da quella di origine tracio-illirica. Gli antichi abitanti Iapudi, indicati dai Sanniti come Apudi o Apuli, diventarono Iapyges con i greci che con questo nome intendevano indicare le genti più meridionali della regione con le quali, da tempo immemorabile, avevano stabilito relazioni culturali e commerciali. Nomi diversi per indicare, in lingue diverse, lo stesso popolo stanziato sul medesimo territorio. Un’onomastica accolta pari pari dai romani nel corso della loro penetrazione tra iv e iii secolo a.C., benché col tempo Apulia (esito latino del greco Japigia), fu per loro soprattutto il territorio settentrionale corrispondente alla Daunia e quello centrale denominato Peucezia. La penisola salentina, curiosamente, assunse il nome di Calabria (appellativo che verso il vii secolo passò a indicare definitivamente l’antico Bruttium, ovvero la regione corrispondente alla Calabria che oggi conosciamo come tale).

    Sostanzialmente – dunque – Apulia fu il nome di quella regione dell’Italia romana imperiale («regio secunda» delle undici totali) coincidente con la maggior parte del territorio della Puglia attuale. Poco utilizzato, non ebbe significato amministrativo fino all’xi secolo, quando i normanni – il cui capo supremo era inizialmente designato semplicemente come dux Italie, Calabrie et Sicilie – cominciarono a sostituire Italia con Apulia. Fu Ruggero ii, rex Sicilie, ducatus Apulie et principatus Capue, a inaugurare il nuovo corso: con lui nell’Apulia ricadeva praticamente l’intera Italia meridionale a eccezione del principato di Capua, della Sicilia e della Calabria meridionale, in una formula rimasta invariata fino agli angioini.

    Con Federico ii, le cui riforme amministrative contemplarono tra l’altro la divisione del regno meridionale in province affidate ognuna a un giustiziere, l’Apulia divenne una realtà amministrativa di fondamentale importanza, corrispondente più o meno alle attuali Puglia e Basilicata, composta da quattro distinti microcosmi – Capitanata, Basilicata, Terra di Bari e Terra d’Otranto – profondamente disomogenei. Per dirne una, la Terra d’Otranto da Lecce in giù ebbe una storia permeata da cultura e lingua greca, nonché diritto e rito bizantino, fino alle soglie dell’età moderna.

    Usato sino alla prima metà del xx secolo per descrivere la regione, il toponimo Puglie – tuttora presente nella toponomastica della zona in Tavoliere delle Puglie e, sino al 1931, in Bari delle Puglie, nome ufficiale dell’attuale capoluogo amministrativo – riecheggia fino all’ultimo la memoria delle tre circoscrizioni del Regno delle Due Sicilie. Quanto basta per capire come fino ai giorni nostri questa regione sia ancora nettamente percepita nella sua natura plurale, la stessa che giustifica ancora lo sporadico ricorso all’espressione le Puglie, mai definitivamente accantonata benché francamente desueta. Sarebbe sbagliato anche per la Costituzione, che nell’art. 131 accoglie la voce Puglia, e non altre.

    Resta comunque la suggestione plurale e declinabile ereditata dai tanti nomi della sua storia, dai tanti volti della cultura, dell’arte, del paesaggio, dall’innumerevole varietà di lingue, accenti, etnie rimescolati nel suo dna.

    3. …il Grand Tour provò a ignorarla (anche se i viaggiatori non mancarono)

    No n si può dire che la tradizione del Grand Tour abbia privilegiato la Puglia, nonostante il turismo di oggi la premi ormai da anni. I viaggiatori eruditi dei secoli passati seguivano itinerari tradizionali applicando alle loro scelte i canoni del videndum (le guide di allora che indicavano ciò che doveva essere visto), toccando Venezia, Firenze, Roma secondo un percorso mirato a completare l’educazione e la formazione culturale inseguendo l’idea di «classicità» e la memoria della «grande Arte». L’Italia dei viaggi compiuti da studiosi e artisti europei fin dal Rinascimento, nonché quella del Grand Tour, si fermava prevalentemente al massimo a Napoli. Fior di bei nomi come Montaigne, de Brosses, Misson, Montesquieu non osarono spingersi oltre la capitale partenopea con la scusa che non fosse facile e che al di là di quelle immaginarie colonne d’Ercole si stendesse una terra infida, pericolosa, selvaggia, roba da hic sunt leones , come certa storiografia o pubblicistica associava idealmente alle zone ancora inesplorate dell’Africa. Quando nel 1829 Charles Didier – scrittore e poeta francese tra i primi ad aver osato desiderare e realizzare un itinerario insolito per i viaggiatori stranieri di quell’epoca – chiese all’ambasciatore un passaporto per la Puglia, si sentì rispondere che era pazzo, e che sarebbe stato meglio riflettere su tale opportunità. Ai più – incredibile ma vero – si consigliava di fare testamento prima di partire persino all’indomani dell’Unità d’Italia… Ci provò anche l’archeologo francese François Lenormant, finché si arrese, aggregandosi al lungo viaggio soprattutto per lavoro – come il suo connazionale storico dell’arte Émile Bertaux – e lasciandoci un’opera come La Grande Grèce , pubblicata nel 1883. Negli stessi anni, all’indomani della sua morte avvenuta nel 1880, furono pubblicate invece le corrispondenze di viaggio di Gustave Flaubert, sbarcato in Puglia nel 1851 dopo essere stato in Asia Minore, Vicino Oriente e Grecia. Forse non tutti lo sanno, ma le poche pagine pugliesi del suo diario – per lui che non era ancora l’autore di quei capolavori immortali che avrebbe scritto negli anni a venire – colgono e restituiscono particolari e descrizioni che lasciano presagire il suo destino nella scrittura. Niente storia e antiche tradizioni, solo realismo narrativo e un pizzico d’ironia, tipi umani, colori e scene quotidiane: la grande pianura coperta di ulivi, il verde e il mare blu, una cena a base di arance, insalata e capperi a Ostuni; le barche e il bianco abbagliante della calce che riveste case e piazze di Monopoli, dove annota la presenza di un mendicante cieco che ha servito Napoleone e ripete per lui i gesti militari di un tempo, ma anche dei preti con il tricorno a passeggio nonché «l’aspetto pulito e agiato di tutte queste popolazioni»; il bicchierino di rosolio di un dopocena a Bari, le opinioni colte dalla viva voce dei suoi interlocutori.

    E comunque, già più di centocinquant’anni prima era arrivato uno come George Berkeley, pensatore irlandese e ministro della Chiesa anglicana, a cercare in Puglia qualcosa che non fosse solo il passato e il mito. A vedere con i suoi occhi come si viveva nei paesi e nelle città. Ci arrivò la prima volta nel 1713 e ci tornò pochi anni dopo, abbastanza da innamorarsi della Puglia e da definire Lecce la più bella città d’Italia: «Non penso che vi sia architettura simile al mondo. In nessun’altra parte d’Italia si trova un gusto così compatto di forme architettoniche. La pietra è splendida e di un colore molto bello. Si ha l’impressione che architetti e scultori abbiano ereditato lo spirito e l’ingegno delicato dei Greci che anticamente qui hanno abitato». Nonostante gli spettri minacciosi che la tradizione dei viaggi lasciava aleggiare intorno alle estreme province meridionali, Berkeley partì, con il cuore aperto alla scoperta, pronto a lasciarsi catturare dai tarantolati salentini (di cui mezzo secolo dopo avrebbe lasciato una fascinosa e fedele descrizione anche il barone Johann Hermann von Riedesel, gentiluomo di corte di Federico ii di Prussia e suo ambasciatore), da paesaggi, villaggi e umanità ancora felici pur se probabilmente prossimi alla perdita dell’innocenza.

    Un classico di fine Settecento è invece il Voyage pittoresque ou Description des royaumes de Naples et de Sicile dell’abate francese di Saint-Non, arrivato in Puglia con un intero seguito di pittori che ci avrebbero lasciato, di quell’avventura, uno straordinario diario fatto di incisioni acquerellate di tutti i principali luoghi e monumenti della regione. Forse non fu lui in persona a redigere il diario vero e proprio – bensì il barone Vivant de Non – ma poco importa: lo spirito di quel viaggio non era lo scoprire ma il ritrovare, un viaggio più nel tempo che nello spazio, nella memoria più che lungo le strade. Che era poi la cifra specifica della stagione settecentesca consacrata dal Grand Tour, ovvero un viaggio di formazione sulle tracce dell’identità dell’Occidente, esaurito il quale si era pronti a consegnarsi alle responsabilità civili e sociali. E l’abate di Saint-Non ebbe come scopo quello di ritrovare la Magna Grecia, ignorando «il colore locale e i monumenti moderni» – ovvero barocchi – bistrattati quanto quelli medievali. Niente vita che pulsa o altro tempo che non fosse il passato remoto, l’unico con il quale l’intellettuale del secolo dei Lumi accettava il confronto.

    Se poi a capovolgere il punto di osservazione e a viaggiare è una donna, l’impresa – dati i tempi – acquista un fascino speciale. La viaggiatrice e scrittrice per eccellenza in questo caso fu Janet Ross, londinese vissuta per diversi anni a Firenze, che visitò al declinare dell’Ottocento «la terra di Manfredi» come si trattasse di una sorta di reportage, viaggiando in quella che ai più appariva ancora una terra di briganti e filtrandola con uno stile giornalistico e vivace grazie al quale le sue impressioni di viaggio sono una lettura che ancor oggi regala immenso piacere. La curiosità le permise di andare oltre l’arte e i monumenti che incontrò strada facendo, e di indagare usi, costumi e tradizioni popolari entrando in contatto diretto con la vita che pulsava nei suoi interlocutori.

    Prima della Ross un altro innamorato della Puglia fu Ferdinand Gregorovius, storico e medievista tedesco che viaggiò in Italia tra 1856 e 1877 da pellegrino laico, ormai lontano dallo spirito del Grand Tour dei rampolli europei – ricchi e talora anche un po’ ignoranti – a caccia del mito classico, anticipando di un secolo Cesare Brandi (che regalerà alla Puglia un vero e proprio atto d’amore, riscattando secoli di indifferenza altrui) e prediligendo soprattutto le tracce lasciate dagli svevi. Le sue passeggiate pugliesi occupano il quinto volume della sua opera, con il titolo Nelle Puglie e, nonostante sia la visione storica di parte di un tedesco anticlericale e innamorato del sogno imperialistico, offrono uno spaccato delle città pugliesi di notevole spessore sia sul piano storico che su quello culturale.

    4. …i fiumi non scorrono in superficie (ma lavorano in profondità)

    Siderum insedit vapor siticulosae Apuliae.

    Orazio, Epodi, iii, 14

    Basta uno sguardo alla carta geografica o, di questi tempi, alle schermate di Google Earth, per ravvisare una caratteristica peculiare della Puglia: niente fiumi (o quasi) se si esclude il mitico Ofanto che corre dritto verso l’Adriatico tracciando il confine naturale tra la Terra di Bari e la Capitanata. E se si escludono il Fortore, altro fiume di confine (questa volta a nord, con il Molise), e una manciata di nervature azzurre appena percettibili sul terreno corrispondenti a torrentelli di portata blanda, perlopiù irriconoscibili tra marzo e ottobre quando la calura li asciuga lasciando appena visibili i loro letti nascosti dalla vegetazione riarsa.

    Tuttavia, c’è da chiedersi, com’è possibile? A parte la fama di sitibonda che questa terra ha guadagnato nei secoli e per tradizione (a partire da Orazio, che la definì Apulia siticulosa), il problema dell’acqua potabile è sempre stato molto serio, tant’è che cent’anni fa fu un evento epocale l’inaugurazione di quell’opera colossale che è l’Acquedotto pugliese grazie a cui l’acqua della vicina Campania raggiunge capillarmente ogni angolo della regione assicurandole il bene più prezioso. Prima di questa meraviglia bisognava industriarsi: migliaia di pozzi, una terra letteralmente crivellata per recuperare tutta l’acqua che da qualche parte doveva pur essere finita, visto che in superficie non ve n’è traccia. Già, perché la Puglia è un enorme guscio cavo, che ingoia le piogge e viene plasmato dal ruscellamento. Sotto i nostri piedi quell’acqua sfuggita al cielo e ai nostri occhi ha scavato allegramente per migliaia e migliaia di anni, da tempi immemorabili, e ancora continua a farlo.

    I fiumi che non ci sono e alcuni spettacoli naturali come le grotte di Castellana o i paesaggi del Tarantino e del Materano che assomigliano ai canyon americani – nonché le tracce ricche e complesse dell’adattamento dell’uomo, quali reticoli di muretti a secco, villaggi rupestri e necropoli, cripte e cappelle rurali, neviere e cisterne, trulli e tratturi, masserie e jazzi (ovvero i recinti utilizzati per le pecore) – sono legati da un filo rosso che passa attraverso la particolare natura del terreno. Carsico, geologicamente affine a quello cantato da Slataper e in cui erano scavate le trincee della Grande Guerra.

    Di pietra aguzza il probabile etimo murex vuole sia fatto l’altopiano calcareo delle Murge, paesaggio suggestivo di questa Puglia ossificata costituito da avvallamenti e ondulazioni dolci ricoperte da un sottilissimo strato di terreno agrario. Una natura pietrosa che tanto ha inciso nei secoli sull’economia e sui modi di aggregazione delle comunità contadine, condizionandone il lavoro e la dura e quotidiana lotta di bonifica del terreno stesso, in cui le acque scorrono (o scorrevano) abbondanti – come si diceva all’inizio – nelle viscere della terra, guadagnandosi la strada verso il mare, scavando letti profondi e tortuosi (le lame e le gravine) nei quali per secoli l’uomo si è insediato e organizzato.

    È un paesaggio, quello pugliese e non soltanto murgiano, segnato da tutta una serie di fenomeni tipicamente carsici – puli, doline, inghiottitoi – mentre la memoria dell’idrografia superficiale è spesso attestata dalla toponomastica locale che utilizza il ricordo di antiche fontane, laghi, torrenti e pantani, così come dai numerosi solchi di erosione (lame) che costituiscono un reticolo abbastanza denso che non di rado arriva fino al mare. Nello speciale vocabolario del carso pugliese, la dolina è uno dei fenomeni forse più spettacolari, trattandosi di una cavità formatasi in seguito alla disgregazione della roccia causata dall’azione delle acque meteoriche. Tra le maggiori della regione è il cosiddetto pulo di Altamura, ancora una volta in area murgiana, anfiteatro naturale di cinquecento metri di diametro per settantacinque di profondità, scenario mozzafiato nonché una delle più grandi doline che si conoscano in Italia. Qui le acque hanno scavato e aperto la terra rendendo interessante il luogo dal punto di vista archeologico e paesaggistico, ma anche naturalistico (l’area è divenuta oasi di protezione nel 1976), giacché vi nidificano rapaci diurni e notturni e vi cresce una vegetazione arbustiva di notevole interesse, nonostante fenomeni di forte e diffuso degrado.

    Dunque un’enorme conca dalle pareti erbose, tavolozza naturale di verdi e di rossi rugginosi frutto del crollo – causato dall’erosione profonda delle acque – di una grande grotta naturale. Con tante grotte sulle pareti a strapiombo, oggi inaccessibili (se non a esperti o speleologi) ma abitate in tempi ormai remoti. Antri e orridi che hanno generato fiabe e leggende popolate di personaggi strani e ibridi spaventosi. Gli uomini del Paleolitico (30.000 anni a.C.) frequentarono le grotte del pulo, quelli del Neolitico e dell’età del Bronzo le abitarono, ma l’uomo fu una costante presenza fino ai tempi degli asceti e degli eremiti, come testimoniano i ritrovamenti archeologici che raccontano di una vita quotidiana ricca e organizzata, solo in un secondo tempo rimpiazzata da vere e proprie forme di organizzazione urbana in parte anche costruite. Ma lì inizia tutta un’altra storia, chiusa nella robusta cerchia delle mura megalitiche peucete, prima ancora che greci e romani si affacciassero in quest’angolo di Puglia.

    5. …le grotte di Castellana sono la prova più suggestiva di quanto detto sopra

    Per sua natura, dunque, la Puglia è un guscio ossificato modellato dalle acque e scavato da fiumi antichissimi ormai scomparsi. A Gravina, Laterza o Ginosa – nella zona a ridosso di Taranto – se ne vede l’aspetto più orrido e spettacolare nelle lame , solchi corrispondenti al reticolo idrografico superficiale esistente fino a 500.000 anni fa, e nelle gravine, veri e propri canyon che sembrano ferite inferte di netto al terreno, gigantesche spaccature che lasciano le città ad affacciarsi pericolosamente su dirupi e precipizi. Ad Altamura o Molfetta i puli sprofondano con dolcezza non meno scenografica, custodendo le tracce di popolamenti antichi e di vegetazione protetta. Altrove, come nei territori di Putignano o Castellana, anch’essi caratterizzati dalla presenza di lame e doline, i fiumi hanno scelto di incunearsi nel sottosuolo, aprendosi un varco erodendo la roccia e regalandoci una fitta rete di camminamenti, cunicoli e grotte che sono testimonianza in fieri del loro passaggio. Un patrimonio che gli speleologi giorno dopo giorno individuano, percorrono e disegnano anche per coloro che a quelle profondità non potrebbero mai scendere.

    Nel ventre di Castellana, in Terra di Bari, si snodano tre chilometri di percorso, a poco più di settanta metri di profondità, con una temperatura oscillante tra gli undici e i quindici gradi e un tasso di umidità mediamente elevato con punte che in alcuni tratti vanno dal novanta per cento a saturazione. Sono i numeri delle più grandi grotte carsiche d’Italia, scoperte dallo speleologo lodigiano Franco Anelli nel 1938, inviato in Puglia da Postumia, ed esplorate in più riprese fino a renderle praticabili. Anelli si concentrò in prima battuta su una grotta di modeste dimensioni, e non – come ci si sarebbe aspettati – sulla Grave, la colossale campana di roccia aperta sulla volta come un Pantheon e profonda sessanta metri che costituisce l’imbocco del complesso sotterraneo, della quale ebbe poi ad annotare con stupore che «presentava tutte le caratteristiche delle più importanti foibe del Carso di Trieste e dell’Istria».

    La genesi di tale spettacolare complesso di grotte, cavità e cunicoli – come si è detto altrove – è dovuta alle caratteristiche del terreno carsico pugliese, che raccoglie e inghiotte le acque meteoriche (perciò del tutto assenti in superficie) convogliandole in fiumi sotterranei che continuano (ancor oggi, a circa duecento metri sotto i piedi dei visitatori) a scavarsi un accesso verso il mare. Lo stesso Anelli, che non era un novellino e di cavità sotterranee ne aveva viste, ricorda che la sua impressione «fu molto grande di fronte a questa grande voragine sulla quale si raccontavano molte leggende; comunque sia ero curioso di vedere cosa ci fosse nella profondità: era sempre la curiosità dello speleologo di vedere cosa nascondesse il fondo della voragine, la Grave di Castellana».

    Per lungo tempo – complice l’ampiezza della Grave – le grotte sono state credute luoghi sulfurei e dannati, dai quali si diceva esalassero sotto forma di sinistri vapori le anime dei suicidi. Oggi al massimo ci si emoziona per lo spettacolo naturale da infanzia del mondo, abitato da ben cinque specie di pipistrelli di piccola taglia – assolutamente innocui per i visitatori che si trovassero a vederli volteggiare sulle loro teste. Ma anche per quello artistico fatto di voci, danza, luci e suoni – chiamato Hell in the Cave – che mette in scena l’inferno dantesco senza bisogno di artifici. Quella voragine, però, nota ben prima della discesa di Anelli, incuteva fascino, curiosità e soprattutto paura. Le nebbie mosse dal vento alla sua imboccatura disegnavano figure trasparenti e lamentose, il tempo di una visione prima di essere inghiottite dalla terra, e ai castellanesi timorosi e timorati non restava che ammettere quanto il fardello delle umane colpe dovesse pesare sull’anelito delle anime ad aspirare al cielo. Quanto allo sprofondamento della Grave, una delle tante storie improbabili lo attribuiva alla punizione divina inflitta a un uomo che aveva voluto imbrogliare il fratello cieco, mentre nel frattempo si andavano sviluppando un approccio e una conoscenza diretti che diradassero definitivamente timori e superstizioni e avviassero a spiegazioni più scientifiche. I primi tentativi in forma di limitata esplorazione, stando a quanto riferiscono scritti locali seppure posteriori ed echi tramandati di voce in voce, risalgono alla fine del Settecento e assomigliano alle descrizioni di Verne nel Viaggio al centro della terra.

    Non si fa un grande sforzo a crederci, anche perché lo spettacolo è immutato, persino ai nostri occhi di disincantati figli del xxi secolo che, di fronte alla lama di luce che taglia la Grave in alcune ore del giorno penetrando dall’alto o alla potenza della cascata d’acqua che vi si riversa durante una forte pioggia, non riusciamo a contenere la meraviglia e lo stupore. La potenza – vera – della natura e le nostre minuscole dimensioni al suo cospetto, il regno dell’oscurità illuminato ad arte perché le superfici ricamate da milioni e milioni di gocce stillanti si consegnino a noi insieme a ogni anfratto, ogni rugosità, ogni trasparenza; le rocce che paiono essudare dichiarando in tempo reale i lavori in corso, perché questa non è la forma definitiva dello spettacolo, ma solo il farsi del sentiero nel corso del cammino. Nelle grotte di Castellana, che offrono un’atmosfera quasi lunare sospesa tra magia e potenza evocativa, tra luci e riflessi di stalattiti e stalagmiti cresciute con ritmi ancestrali, è racchiusa l’immagine più autentica della Puglia. Lentamente, ma con perseveranza, l’acqua sottratta alla sete degli uomini ha impiegato migliaia di anni per costruire scenari di emozionante bellezza: dovrebbero tenerlo bene a mente gli improvvisati vandali che ogni tanto – con la scusa di portare via un souvenir – spezzano stalattiti e incantesimo. Pochi centimetri di trofeo per violare secoli di paziente opera della natura. Chi le ama le ha invece voluto attribuire nomi suggestivi, spesso mutuati dalle forme e dai colori evocati, costruendo una spettacolare geografia alimentata costantemente dalla fantasia di ognuno.

    Ad esempio la grotta Nera, battezzata dalla presenza di un fungo endemico che ha reso scure le sue pareti, con le sue

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