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Quelle signore. Scene di una grande città moderna
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E-book248 pagine3 ore

Quelle signore. Scene di una grande città moderna

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Letteratura - romanzo (201 pagine) - Prepariamoci a saltare sulla poltrona, leggendo un romanzo in cui, con uno stile tutto sommato sobrio e senza particolari effetti pirotecnici, vengono rappresentate le perversioni sessuali e, soprattutto, le sconcezze morali di una Milano di inizio Novecento così inquietantemente simile a quella odierna.

Marchetta, prostituta di un bordello meneghino “di categoria”, ci racconta la sua sciagurata vita di donna perduta che, quando finalmente decide di imboccare la diritta via, viene bastonata dal destino nel peggiore del modi. Un libro crudele, popolato di personaggi disgustosi e perfidi che rappresentano un osceno campionario di vizi e reati. Nessuno riesce a scansare la sferza critica di Notari che rintraccia nefandezze e turpitudini anche tra le pieghe delle esistenze apparentemente immacolate e “per bene”. Viene così descritto un mondo che non si divide in buoni e cattivi, ma in cattivi e più cattivi, nel quale la redenzione è impossibile, come la felicità. Anime buie popolano sia la spietata metropoli tentacolare sia le campagne circostanti in cui il mito del locus amoenus è messo alla berlina, mostrando come l’innocenza agreste non sia altro che dabbenaggine mascherata con qualche orpello campagnolo.

Per cogliere in modo immediato la personalità di Umberto Notari (Bologna, 1878 – Perledo, 1950) è illuminate leggere la voce dedicatagli ne Il dizionario del futurismo: “Giornalista, narratore, editore di giornali e di collane di libri, opinion leader, sperimentatore di formule avanzate di moderna managerialità, patrocinatore di movimenti radicali (nazionalismo, futurismo, interventismo, arditismo, fascismo), è uno dei grandi seduttori dell’Italia del primo Novecento”. A questa fotografia va aggiunto che per promuovere la rivista Verde e azzurro fece lanciare dai palazzi della meneghina piazza Duomo 300.000 copie del periodico sui passanti e si inventò addirittura una “maratona pubblicitaria”, la Milano-Monza, con ben 12.000 partecipanti, che scrisse romanzi di ampissimo successo, come Quelle signore (1904) e Femmina (1907), che ideò e fondò la rivista, ancora oggi sulla cresta dell’onda editoriale nonché tradotta in vari paesi del mondo, “La Cucina Italiana” (1929).
LinguaItaliano
Data di uscita5 ott 2021
ISBN9788825417593
Quelle signore. Scene di una grande città moderna

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    Anteprima del libro

    Quelle signore. Scene di una grande città moderna - Umberto Notari

    Introduzione

    Milena Contini

    Per soddisfare la propria curiositas e, soprattutto, per trovare il bello, fine ultimo di ogni ricerca, è necessario talvolta rimestare nelle sporcizie umane, senza però lasciarsi contaminare da quest’ultime. Quelle signore (1904) è un romanzo davvero interessante, e a tratti sbalorditivo, uscito dalla penna di un uomo dalla vulcanica creatività e dalla sorprendente vis imprenditoriale che macchiò indelebilmente la propria anima firmando il Manifesto degli scienziati razzisti (1938) e dando alle stampe il Panegirico della razza italiana (1939). È necessario quindi indossare la tuta protettiva integrale prima di maneggiare le opere di un individuo del genere, perché il rischio di detestare tutta la sua produzione, a prescindere dai contenuti, è dietro l’angolo. Certo, il romanzo in questione fu scritto trentaquattro anni prima dei deliri xenofobi del periodo fascista, ma, di fronte a certe enormità, l’ombra dell’infamia assume valore retroattivo. D’altro lato, però, non credo che le buone massaie (e non solo loro, visto che ormai, complici gli innumerevoli cookshow della tv, tutti in famiglia possono vantare almeno un aspirante chef) si facciano problemi a sfogliare avidamente le pagine della rivista La Cucina Italiana, prima pubblicazione periodica a essere esclusivamente dedicata all’arte culinaria (oggi tradotta e distribuita anche in Belgio, Germania, Repubblica Ceca, Turchia, Stati Uniti e Canada), fondata nel lontano 1929 proprio dall’ignobile antisemita Umberto Notari, insieme alla moglie Delia Pavoni. Senza rimuovere i misfatti futuri del suo autore, prendiamo quindi il coraggio a due mani e addentriamoci nelle scioccanti pagine di Quelle signore.

    Notari scrisse questo romanzo quando bazzicava per bordelli e localacci milanesi in compagnia di altri scavezzacollo a caccia di emozioni. Suo compagno di scorribande era Filippo Tommaso Marinetti, con il quale alternava cene luculliane da Savini, bagordi d’ogni specie, improbabili sedute spiritiche a casa di perversi ricconi e fugaci soggiorni agresti nel varesotto (durante i quali i due compagni di merende si divertivano a sedurre campagnole e addomesticare scoiattoli…). Umberto condivideva con l’amico il feroce anticlericalismo, il contegno sfacciatamente spregiudicato e l’inestinguibile anelito di violenza e di guerra. Egli, in verità, al contrario del futurista, poté sfogare la propria aggressività solo attraverso la penna, perché la protesi di legno che sostituiva uno dei suoi piedi (amputato in giovane età a causa di una grave malattia) lo rendeva inabile a ogni tipo di lotta fisica e qualcuno, a questo proposito, arrischierebbe l’ipotesi che l’invalidità fisica (e, soprattutto, la mancata partecipazione all’impresa bellica della Grande Guerra) dovuta alla menomazione lo abbia logorato tanto da renderlo un livoroso razzista, ma la sottoscritta non ha conseguito lauree in psicologia da bar e di conseguenza preferisce tacere e concentrarsi sulla storia editoriale di Quelle signore.

    Notari, dopo una serie di successi giornalistici (basti solo ricordare i primati del periodico Verde e azzurro: primo foglio a dare ampissimo spazio ad articoli sportivi, a ospitare fotografie d’autore a tutta pagina e fumetti di una certa lunghezza, ad allegare in omaggio cartoline al limite del licenzioso, a trattare senza pruderie argomenti piccanti, ecc.), nel 1906 decide di dare alle stampe il suo primo romanzo, che in poco tempo diventa quello che oggi definiremmo un caso mediatico: l’opera, infatti, gode di un immediato successo (ottantamila copie vendute in pochi mesi), destinato a perdurare, visto che negli anni verrà tradotto in varie lingue (francese, tedesco, spagnolo, russo, ungherese, ecc.) e nel 1920 raggiungerà la cifra astronomica per quel tempo di trecentomila copie totali. Le vendite da capogiro furono dovute sia alla tematica scabrosa (nel romanzo era fittiziamente riportato il diario della prostituta Anna, ‘in arte’ Marchetta, nel quale veniva descritto il ménage di una rinomata casa di tolleranza meneghina) sia alla scaltra strumentalizzazione pubblicitaria del processo per oltraggio al pudore a mezzo della stampa intentato all’autore (assolto sia in primo grado sia in appello). L’opera di per sé non ha una tematica originale, anzi si colloca nel solco delle opere letterarie dedicate al tema del libertinismo e della prostituzione, ciò che rese Quelle signore un best seller è il modo in cui la materia viene trattata: nelle pagine ritroviamo infatti una spietata fotografia della corruzione morale e della avvelenata ipocrisia dilaganti nella Milano di primo Novecento. Il romanzo, privo di qualsivoglia oscenità o compiacimento pornografico gratuito, riesce magistralmente a restare in equilibrio sul filo dell’allusione, rappresentando le perversioni più sconce senza compromettersi con narrazioni esplicite. Questo sapiente uso della descrizione indiretta restituisce al lettore in modo pregnante, e a tratti quasi inquietante, lo squallore esistenziale e la cecità etica di un’époque che, ancora una volta, di belle sembra avere davvero poco. Le pagine scritte dalla protagonista sono vere e proprie sberle in faccia che da un lato feriscono e dall’altro svegliano la coscienza portandola a varcare il velo delle apparenze: l’affasciante prostituta d’alto bordo ci parla di presidenti di tribunale che, prima di recarsi in aula la mattina, fanno un salto nella casa chiusa per un rapporto orale nel più assoluto silenzio, di generali in pensione che per eccitarsi hanno bisogno che la puttana di turno si travesta da prosopopea dell’Italia e che non sempre riescono a tenere a freno la vescica, imbrattando le preziose stoffe del boudoir della tenutaria madame Adèle, di senatori che grugniscono come maiali ai piedi di una mistress dotata di scudiscio, di abbruttiti brumisti di periferia che si accoppiano come bestie, di missionari che arrivano a paragonare una fellatio all’innocente poppare di un neonato per piegare un’ingenua ragazza ai propri piaceri, di smaniose contessine romane che molestano la cameriera africana costringendola a masturbarle, di mogli che sopportano le torture fisiche e psicologiche di sposi impotenti o pervertiti, di mariti esauriti dalle ripulse delle coniugi frigide, di parassiti che vivono alle spalle delle prostitute e così via.

    Dopo il trionfo di Quelle signore, Notari si butterà in numerose altre imprese letterarie e giornalistiche senza compromessi, perché, grazie ai proventi del romanzo, poteva permettersi di autoprodurre i propri scritti e di promuoverli coi mezzi che preferiva. Tra le varie opere si segnalano Dio contro Dio (Il maiale nero) del 1908, testo anticlericale in cui il Vaticano è rappresentato come il male assoluto (e non si dimentichi che nel 1910 Notari fonderà l’Associazione italiana di avanguardia volta all’abolizione del papato o, in alternativa, alla sua traslazione in un territorio extra italiano e, nel giugno dello stesso anno, all’indomani della diffusione della circolare di Luzzatti contro la pornografia, pubblicherà il tagliente articolo La coltivazione della foglia di fico sul periodico La Giovane Italia), I tre ladri (Mio zio miliardario). Romanzo di costumi ultra-moderni (1908), dal quale, nonostante la damnatio memoriae dovuta agli scritti antisemiti, venne tratto nel 1954 un film, certo non memorabile, con Totò e Gino Bramieri e La donna tipo tre (1929), libello nel quale si analizza con arguzia l’emergere di una nuova figura femminile, lontana dagli stereotipi della moglie sfornatrice di prole e della fatalona mangiatrice di uomini, una donna caparbia, istruita, emancipata senza essere ‘facile’, pronta a sfidare gli uomini sul loro stesso campo di battaglia. Quelle signore resta comunque il risultato più alto della sua produzione, perché, pur essendo stato scritto 116 anni fa, dopo averlo letto si avverte un invincibile desiderio di andarsi a fare un bagno caldo per purificarsi dalla patina di immondezza che le pagine trasudano. Un sudiciume graveolente che non avvertiamo come lontano e irripetibile, ma che possiamo, purtroppo, ritrovare ancora oggi girato il cantone o sotto il tappeto.

    Quelle signore

    (Scene di una grande città moderna)

    Romanzo sequestrato e processato per oltraggio al pudore. Assolto per inesistenza di reato (sentenza 23 Giugno 1906, R. Tribunale Penale di Parma).

    NUOVA EDIZIONE

    con l’aggiunta del resoconto completo del processo, le deposizioni dei periti: E. A. Butti, G. Antona Traversi, Giovanni Borelli, F. T. Marinetti, e le arringhe dei difensori: On. Berenini, On. Carlo Fabri, Avv. Sarfatti, Avv. Molesini, Avv. Passerini.

    Dedicato a quelle altre signore:

    le oneste.

    Avvertenza ai Lettori

    Coloro che non hanno amato, nè desiderato, nè lottato, nè sofferto; coloro che per studio, per missione o per destino non hanno avuto contatti nè colla morte, nè col vizio, nè col delitto, possono tutti quanti fermarsi a questa avvertenza e risparmiarsi la lettura di un libro che non comprenderebbero.

    Qui non c’è che il crudo documento della corruzione sessuale di uno di quegli immensi verminai umani che si chiamano Grandi città moderne.

    Qui non è in giuoco che la più formidabile molla delta società attuale – il Piacere – con tutti i suoi dolori, le sue febbri, le sue vertigini e le sue mostruosità.

    Ora, pur concedendo che nella massa di coloro che non si trovano nelle condizioni alle quali abbiamo più sopra accennato, vale a dire concedendo che fra i «tranquilli» gli «assennati» e i «virtuosi» vi possano essere dei «comprensivi» costoro non potranno trovare se non della caricatura e della pornografia qui dove non è che verità cinica e amara.

    Gli altri grideranno allo scandalo o al falso e saranno quelli appunto che non avranno capito.

    E noi abbiamo voluto far precedere il nostro lavoro dalla presente avvertenza, perchè chi non vorrà tenerne conto e vorrà leggere per leggere, così come sbadiglia, sappia almeno tacere se non vuole eleggersi da se stesso candidato all’intelligenza per l’eternità.

    I.

    C’è un uomo tra i diciotto e i cinquant’anni residente a Milano o che a Milano sia venuto per affari o per svago, il quale non abbia fatto almeno una visita ad una famosa casa che la burocratica verecondia della Pubblica Sicurezza, che ne ha l’alta sorveglianza e lo spirito pecoresco dei reporters di giornali, han qualificato per «innominabile»?

    Se quest’uomo esiste, egli non ha sicuramente cinque franchi in tasca, od è un cantante della Cappella Sistina o un principe del sangue.

    Sarà dunque legittimo che l’Autore, per respingere immediatamente queste tre diffamazioni, confessi d’avere egli pure seguito la costumata corrente che a questa celebre casa fa convergere tanta parte dello zoologia italiana.

    Dire in qual modo, in una società squisitamente civile come la nostra, sia possibile l’esistenza di simili aziende, che hanno i più accaniti denigratori in coloro stessi che le fanno prosperare, vale a dire gli uomini, è un problema che nessun sociologo dei secoli scorsi ha mai saputo risolvere. Ci par dunque questa una sufficiente ragione perchè noi, a nostra volta, ne lasciamo la soluzione in eredità ai pensatori del secolo venturo.

    Abbiamo trovato il quadro, così come ci è apparso, altamente interessante e ci siamo accinti a descriverlo. Nell’eventualità che esso debba sparire o trasformarsi, vogliamo che i posteri abbiano un documento esatto dei nostri costumi; se no essi sarebbero capaci di ricostruirli in modo loro per sentenziare che essi – i posteri – sono meno animali di noi, alla stessa guisa che gli storici d’oggi nel ricostruire le epoche passate, dànno ad intendere che noi siamo più inciviliti dei nostri antenati.

    Ciò premesso ci rimarrebbe a risolvere un quesito di seconda importanza, vale a dire come mai proprio nella città che per unanime consentimento fu eletta a capitale morale italiana, sorga la casa di prostituzione più prosperosa e più ammirata che vanti l’Italia. La spiegazione sembrerebbe assai facile.

    Non v’è città italiana, appena appena rispettabile, che non possegga insieme con la prefettura, il corpo dei pompieri e il Monte di Pietà, anche un igienico Istituto di tolleranza, disciplinato dallo Stato come una scuola tecnica pareggiata.

    Vero è che in coteste città l’Istituto ha una pessima fama ed è relegato in qualche budello di ghetto o nei quartieri eccentrici, ove non arriva che il fondiglio miserabile e criminalesco della popolazione e la frotta famelica e intraprendente dei soldati di bassa forza; inoltre, le veneri che colà officiano sono così disfatte e imputridite che l’amplesso non è più che della necrofilia. Ma è anche vero che in coteste città la grande maggioranza delle donne (intendiamoci, parliamo di quelle oneste) sia per il clima, sia per la tradizione, sia per il temperamento, sia per altre ragioni che qui è inutile enumerare, accordano una facile e cordiale ospitalità.

    A Milano, dove naturalmente non mancano queste case di infimo ordine e sono in numero proporzionato alla densità della cittadinanza, sorge invece per soprappiù, il rinomatissimo stabilimento al quale abbiamo accennato; è situato nel più bel centro della città, a lato della più viva arteria e dei quartieri più signorili, ed è frequentato dagli uomini delle classi più agiate e distinte.

    Se dunque per la soddisfazione delle loro esigenze fisiologiche tanti uomini varcano la soglia di una casa di tolleranza, vorrebbe dire che essi trovano inesorabilmente vietato l’ingresso in tutte quelle altre case dove essi potrebbero esercitare le stesse facoltà amatorie con maggior lustro e con non minor decoro.

    In altri termini, sarebbe la rigidità del sesso femminile che spinge l’altro sesso sfornito o sazio dell’abituale domestico bollito a frequentare questa distinta cucina economica del piacere.

    Ora, essendo evidentemente più decente che un uomo prenda un pasto a una comune table d’hôte, anzichè sollecitare la fidanzata a rompere il suo cristiano digiuno o indurre la sposa altrui ad offrire il suo tavolino riservato, ne viene di conseguenza che Milano è una città eminentemente morale appunto perchè possiede il più rigoglioso hôtel della prostituzione.

    Sennonchè, se vi è una città italiana in cui la corruzione femminile sia diffusa come un’epidemia, questa città è proprio Milano.

    Non avremmo osato fare una simile asserzione se non ne fossimo stati autorizzati dalle statistiche delle ambulanze dermosifilopatiche, dei brefotrofi, delle levatrici con «massima segretezza» nonchè di tutti quegli umanitari istituti che sotto i più svariati aspetti si sono prefissi lo scopo di proteggere le giovani.

    Ci affrettiamo inoltre ad aggiungere che questa asserzione non è affatto diffamatoria, poichè la corruzione diviene disonorevole, solo quando manchi di forma e di contegno.

    A Milano invece – lo attestiamo con vivo compiacimento – essa assume gli atteggiamenti più delicati e più dignitosi, tanto che sulle porte di tutti i piccoli ristoranti privati, ove si può mordere ogni sorta di frutti proibiti, noi abbiamo sempre trovate le indicazioni più discrete e più rispettose, come: – «Abiti per signora» – «Fiori e piume» – «Cucitrice in bianco» – «Lezione di mandolino» – «Antiquario» – «Pensione di famiglia», e via dicendo.

    Non solo: possiamo anche assicurare che nella grande fluttuazione delle domande maschili e delle offerte femminili, rimangono sempre esclusi l’amore, la sensualità, il temperamento e tutti quegli altri motivi ordinari che potrebbero imprimere un carattere passionale od orgiastico a questo compostissimo tattersall di sessi.

    La grande maggioranza delle donne (intendiamoci, parliamo sempre di donne oneste) di qualunque età funzionabile o di qualunque classe circolabile, si offre unicamente per denaro, salvo qualche eccezione in cui il compenso viene stipulato in derrate alimentari o in effetti di vestiario.

    La qual cosa, in conclusione, non torna che ad onore e vantaggio di questa industre popolazione.

    In ogni modo resta stabilito che a Milano, se gli uomini sacrificano con sì confortante abbondanza in un tempio di Venere «a prezzo fisso» non è per mancanza di altri altari, nè per carestia di altre sacerdotesse.

    Con questa constatazione siamo lieti di aver lasciato insoluto anche il secondo quesito; nè certo intendiamo risolverlo per far cosa men che riguardosa verso tante volonterose persone che in Italia non fanno altro che risolvere tutti i problemi della nostra vita sociale come si fa con le sciarade.

    Il nostro compito è quello di penetrare in tutti gli ambienti ove l’umanità riveli gli atteggiamenti suoi più insoliti, siano vili od eroici, comici o truci.

    Senz’altre degressioni dunque, poichè il lettore sarà impaziente di entrare in un luogo che quantunque «innominabile» è forse il più nominato d’Italia, noi ci accompagneremo con tre giovani personaggi proprio nel momento in cui essi premono il bottone elettrico della misteriosa porticina ferrata del Venere Moderne-hôtel.

    II.

    Non appena la portinaia ebbe messo l’occhio al piccolo finestrino per osservare, prima d’aprire, chi fossero i visitatori, scoppiò una girondola d’improperi.

    – Ah! siete voialtri teppisti!

    – I complimenti ce li farai dopo: su, apri…

    – Non posso: completo!

    – Su; avrai una mancia generosa!

    – Puah! Due soldi in quattro!

    – Non essere venale!

    – Andate a raccattar lumache!

    – Andiamo, madre nobile!…

    – Lanterne spente!

    – Non fare il Grand’Oriente!

    – Avanzi di cucine economiche!

    – Comincia a commuoversi…

    – Lasciaci entrare…

    – Ti offro la mia mano!

    – Ed io mezzo sigaro toscano!

    – Cavadenti!

    – Vecchia bonza!

    In quella la voce direttoriale di madame Adèle, attirata dal baccano, domandò dall’alto:

    Qu’est ce qu’il y a?

    Madame Adèle aveva interpellato in francese: così si conviene ad una direttrice di un gran collegio internazionale come quello ch’ella amministrava.

    – I «flanellisti» madame – gratificò la portinaia.

    Furono intavolati altri parlamentari e l’ingresso venne finalmente accordato.

    Da questo scorcio di dialogo, che noi abbiamo convenientemente purificato, i lettori avranno potuto comprendere che i tre personaggi non godevano presso la direzione della casa una grande riputazione.

    Dobbiamo aggiunger però che tutti avevano fatto il possibile per meritarsi ogni disistima, in primo luogo imprimendo al carattere delle loro visite tutto che di più idealistico e di più platonico si può portare in un mercato femminile.

    A questo contegno, che del resto è gravemente offensivo per ogni genere di donne, si aggiungano le invenzioni giocose, i trattenimenti di famiglia, i giuochi di società ai quali i tre giovani si abbandonavano fra i più fantastici clamori, disturbando i clienti seri, distraendo le tavoleggianti, intralciando insomma il traffico regolare, e si comprenderà quale atmosfera si fosse venuta formando intorno ai tre individui coi quali sarà meglio fare un po’ di conoscenza.

    Ellera, un poeta decadente, ricco di ingegno, di ambizione e di cinismo che per farsi ad ogni costo una rapida riputazione aveva iniziato una serie di letture di versi in tutti quei circoli che disponevano di una sala disponibile, approfittava del salone di ricevimento di madame Adèle per farvi le prove generali delle sue declamazioni, accolte del resto colla massima deferenza dal «femminile armento» che ci teneva a mostrarsi intellettuale e che testimoniava il proprio

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