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Carcerica
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Carcerica

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CARCERICA 
Una statistica dice: circa 2,3 milioni di detenuti sono al momento presente nelle prigioni degli USA, più che nei 35 maggiori paesi europei messi insieme. Nessuna società, in tutta la storia della civiltà, ha privato della libertà un così enorme numero di propri cittadini. Negli USA si trova il venticinque per cento dei deternuti di tutto il globo terrestre… tenendo conto che la popolazione ammonta a solo il cinque per cento del pianeta.

LinguaItaliano
EditoreBadPress
Data di uscita12 giu 2021
ISBN9781667403915
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    Anteprima del libro

    Carcerica - Sergei Davidoff

    «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei».

    Vangelo secondo Giovanni

    (capitolo 8, versetto 7)

    PREFAZIONE

    Una statistica dice: circa 2,3 milioni di detenuti si trovano al momento presente nelle carceri degli USA, più che nei 35 maggiori paesi europei messi insieme. Nessuna società, in tutta la storia della civiltà, ha privato della libertà una quantità così enorme dei propri cittadini, mentre peraltro questo paese si proclama il più libero del mondo. Negli USA si trova il venticinque per cento dei detenuti di tutto il globo terrestre... tenendo conto che la popolazione del paese assomma in tutto al cinque per cento di quella del pianeta. Nel 1972 in America c'erano trecentomila detenuti, ma nel 2014 ce n'erano già due milioni e trecentomila. Due milioni in più. Vent'anni fa negli USA c'erano cinque carceri privati, adesso ce ne sono centoquaranta.

    Cos'è accaduto in questi vent'anni? Perché c'è così tanta gente dietro le sbarre? I carceri privati sono una delle industrie in più rapido sviluppo. Questa ha proprie mostre, conferenze, siti web, cataloghi Internet, compagnie architettoniche ed edili, fondi di investimenti e propri battaglioni di guardie carcerarie. Questa industria è interessata a mantenere la gente rinchiusa. Le corporazioni ottengono profitti dalla manodopera a basso prezzo e più alte sono le condanne, maggiori sono i profitti. La statistica della criminalità negli USA negli ultimi vent'anni va stabilmente al ribasso, mentre il numero di detenuti cresce. La maggior parte delle violazioni della legge in America consiste in spaccio di droga in quantità microscopiche.

    Le leggi federali prevedono cinque anni di detenzione, senza diritto alla scarcerazione anticipata, per il possesso di cinque grammi di crack (miscela di cocaina a basso prezzo), ma per mezzo chilo di cocaina pura il termine è pure cinque anni. Per il crack è cento volte di più. La cocaina è assunta fondamentalmente dai bianchi e dalla classe media, il crack dai neri e dai latinos[1]. Il livello di criminalità negli USA si è ridotto della metà dall'inizio degli anni '90, non di meno nei carceri ora si trova il cinquanta per cento di persone in più. E nei carceri privati il numero di detenuti è aumentato del 1600 per cento.

    Se la schiavitù è legale solo per quanto riguarda i detenuti, allora ha senso incarcerare sempre più persone e trasformarle legalmente in schiavi. Questo non è un sistema giudiziario, questo è un business.

    IL PURGATORIO

    La sala del tribunale è un'atmosfera di libertà e ufficiosità. E' un vano spazioso e pulito. Il tavolo del giudice è elevato, lo stemma degli USA è autorevole sulla parete. Alla finestra c'è un lago grigio.

    Per venirmi incontro si alzò un uomo alto sui cinquant'anni, il mio avvocato gratuito, Mister Lunell. Mi tese la mano, mi dette una pacca su una spalla e disse con un sorriso:

    — So che non sei colpevole.

    Mi spremetti un triste sorriso in risposta... «Forse in realtà ora chiariranno, mi assolveranno, mi rilasceranno, mi porteranno, mi restituiranno i documenti e i soldi, dice, sei libero, scusa, fratello».

    Era un'udienza (bond hearing[2]) sulla possibilità di uscire su cauzione mentre erano in corso le indagini. Il Pubblico Ministero alto e magro con i lividi sotto gli occhi dimostrava diligentemente al giudice perché fosse pericoloso rilasciarmi. Aveva un quadernino e per punti, rabbiosamente, elencava: «Trentamila cash! Beh, in America chi porta trentamila con sé? Solo gli spacciatori di droga, Vostro Onore... In più ha due passaporti e niente lo trattiene negli USA. Fuggirà, al cento per cento fuggirà, se lo rilasceremo». E aveva ragione, sarei andato a New York a piedi se solo mi avessero restituito il passaporto e di là in aereo anche a casa. O in Messico attraverso la palizzata, in Sudamerica, nei boschi dell'Amazzonia, a confondermi tra gli aborigeni e dimenticare la Carcerica[3].

    L'udienza durò circa venti minuti, tremavo, ma tacqui, all'imputato si raccomanda di non dire cose e poi sarebbe inutile. Poi di nuovo in manette, un saluto istantaneo all'avvocato. — Verrò a farti visita, non stare in pena, domani verrò. — Mi dette una pacca su una spalla. — Non ti agitare, andrà tutto bene.

    «Davvero?»[4]

    Mi portarono via gli stessi due federali, mi passarono agli sbirri[5] e questi mi portarono in carcere attraverso la strada. Là di nuovo la procedura di espletamento delle formalità: foto, impronte digitali, stracci arancioni e — in Purgatorio con un mucchio di neri appena capitati.

    Alle pareti là erano appesi due telefoni. Gli arrestati stavano vicino ad essi, attendendo il turno per parlare. Era l'uscita per il mondo, la prima dichiarazione sull'accaduto, la richiesta ai familiari e alle persone vicine di pagare la cauzione e permettergli di uscire di prigione. Si svolgevano dei drammi presso questi apparecchi: risse, grida, regolamenti di conti. A quelli che parlavano troppo a lungo cominciavano a urlare, poi a tirarli via, quelli respingevano gli assalti, «bisogna trovare urgentemente i soldi per uscire di qui!» Talvolta scoppiavano brevi risse, allora accorrevano le guardie, afferravano i violatori e li trascinavano in cella di rigore.

    I drammi nella cellula telefonica durarono circa quattro ora. Non avevo nessuno da chiamare, sedeva sulla panca di ferro fredda intorpidito, senza pensieri... «Sarà quel che sarà — non c'è via di uscita da qui».

    Alla fine, insieme a qualche altro prigioniero, mi portarono al nono piano e mi piazzarono in una sala quadrata piena di gente vestita di cenci arancioni. Andavano in cerchio per la sala, si sedevano su sedie e cuccette di ferro, alcuni sul pavimento. Era super-rumoroso: circa diciotto sfortunati in questa prigione. Il vano era venti per trenta, c'erano minuscole finestrelle alle pareti. Guardavi il mondo libero e vedevi la città, l'edificio del tribunale di fronte e un pezzetto di lago.

    Mi dettero la cuccetta numero uno, proprio presso l'uscita, di fronte alla toilette. Bisogna dire che con il tempo ho preso a chiamare il cesso in carcere «aeroporto». Il rumore dell'acqua scaricata mi ricordava il suono di un aereo a reazione su una pista di decollo. Un piccolo tifone, non una toilette. E per tutta la notte la gente viaggiava qua e là in questo aeroporto, il suono della pista di decollo muggiva non-stop e gli zėki[6] non tacevano. A momenti mi astraevo e sonnecchiavo in mezzo a un incubo surreale.

    In questo purgatorio passai il weekend pasquale. Il lunedì mi tradussero all'undicesimo piano. Un vano a due livelli, circa quindici detenuti. Prevalentemente neri più cinque tossicodipendenti bianchi.

    Mi impiantarono in una cella al primo piano, accanto alle cabine delle docce. Il mio posto era sul pavimento. Un duro materasso di plastica. L'unico giaciglio era occupato dal veterano della cella, il mio nuovo compagno di cella — Jeff. Un nero di trentotto anni, tarchiato, calvo e pio. Era detenuto per la quarta volta per violenza domestica.

    Dice: ci fu un lieve litigio con la dama del suo cuore, ella lo insultò. Ma queste sono minuzie, le afro-americane sono così, temperamentali e vocione — è la legge della giungla, chi grida più forte dell'altro... ma quando gli scagliò addosso una padella di ghisa, lo mancò di poco... ruppe lo scaffale e le porcellane (eredità della nonna), allora Jeff, esclusivamente a scopo di autodifesa, spintonò leggermente l'amichetta. Quella fa due rampe di scale giù a ruzzoloni e si rompe tre costole. Beh, e la zucca sullo stipite. Sangue, grida, urla, «911», sbirri... Jeff con il muso sul pavimento, uno stivale sulla testa, le manette. Costruiscono una storia criminale, ma egli, caruccio, è stato detenuto per tre volte per abusi domestici. E che andasse regolarmente in chiesa, che là tenesse prediche di sabato e che cantasse nel coro, non serve a niente — in gattabuia! Gli promettono otto anni. E forse di più.

    Per questo prega, sospira: «Grazie, Gesù... Aiutami, Gesù!»

    La colazione qui è alle quattro di mattina, il pranzo alle dieci, la cena quattro ore dopo il pranzo. Ed è tutto. Non c'è un frigorifero per andarci di notte, darci un'occhiata e perdersi nelle riflessioni: cos'è dannoso di notte e cosa no. Da quattro ore dopo il pranzo alle quattro di mattina c'è il digiuno.

    Chiamano a colazione così: «CHO-OOW[7]»! Un sonoro scatto di serrature, le celle si aprono, la gente striscia via e si mette in fila per la pappa.

    La sala è piccola — dieci per quindici. Nel mezzo quattro tavolini metallici con sedie montate nel pavimento. Su di esse siedono degli zėki, duellano a domino e a scacchi, i restanti girano in tondo.

    Incontrai un conterraneo — si chiamava Dan, era un ebreo di Odessa. Era capitato negli USA quando era un bambino di tre anni. All'inizio ricordava a fatica le parole russe, ma presto prese a parlare, in verità con un certo accento. Per Dan è possibile molto, sui vent'anni: per spaccio di droga, possesso illegale di armi, rapina... ventitré articoli in tutto. E' detenuto da un anno e mezzo, aspetta il giudizio. Sta in pena anticipatamente per quello che farà quando sarà uscito. Infatti non ha la cittadinanza, solo la Green Card[8]. E i criminali (non cittadini) dopo la galera, vengono espulsi.

    — Do-ove? Beh, dove andrò? Là non ho ne-essuno, — piagnucola Dan. — Nessu-uno! Tutti i parenti erano qui, ma sono morti. La mia ragazza si è trovata un altro... Il giorno dopo quando mi hanno messo in prigione, letteralmente il giorno dopo. Eppure è per colpa sua che sono stato in prigione. Amici... Amici? No, proprio nessun amico, cavolo. C'erano, quando giravano coca e soldi, ma come mi hanno messo in prigione, allora hanno dimenticato tutto, alcuni hanno perfino testimoniato contro di me  — quei topi, perché gli scontassero le pene.

    Vado in giro con lui, ascolto, annuisco... io stesso non so cosa mi aspetta. L'avvocato sabato mi ha fatto visita come aveva promesso, pensavo che avrebbe cominciato ad aiutarmi, ma quello giù a interrogarmi.

    — Raccontami tutto... Cos'hai fatto? Da dove ti vengono i soldi? I passaporti sono falsi? Quattro cellulari... Nove SIM... Perché?

    — Io viaggiavo così... e ogni paese ha le sue SIM, io le cambiavo. I passaporti sono legali. Davvero non possono controllare? I soldi li ho guadagnati onestamente... Le tasse, a dire il vero, non le ho pagate. Ma intendevo farlo... — Tento di spiegare, ma mi immergo in una triste fossa scura e le speranze di liberazione evaporano.

    — Lo sai... ti aspettano circa dieci anni. Bisogna che mi racconti tutto onestamente.

    — Dieci?! Per cosa?!

    — Sì. Forse anche quindici. Ritengono di aver bloccato un grande hacker e drag diler[9] russo. Ti accusano di falsificazione di passaporti e spaccio di droga.

    — Ma quale hacker! Non so usare neanche Photoshop. Droga?! Da dove? Che hanno fatto, hanno trovato droga?!

    — E i soldi da dove vengono?

    — Sono i miei soldi, guadagnati onestamente... Li tenevo in banca... ma possono controllare i miei conti bancari.

    — Controlleranno, controlleranno tutto... Dicono anche che hai evaso le tasse.

    — Non ho evaso... Infatti lavoravo in Canada, non in America... Cosa... dovevo comunque pagare le tasse in America?

    — Certo. Puoi lavorare anche a Timbuctù, ma se sei un cittadino USA, sei obbligato a pagare allo Zio Sam.

    Così fu all'incirca la conversazione durante il primo incontro con l'avvocato.

    Io gli raccontai dettagliatamente la mia biografia, egli promise di passare lunedì. Ma finora giro in tondo nel blocco grigio, ascoltando le lamentele di Dan per distrarmi dai miei pensieri. Sono contento che ci sia ancora un poveraccio dell'ex URSS e sono contento che ci sia con chi parlare.

    — Non vedrò la luce del giorno, — afferma Dan. — Non la vedrò. In libertà ho tradito tutti. La mia ragazza se n'è andata. Eppure ci stavamo preparando al matrimonio. Se n'è andata con il mio migliore amico. Ma era il migliore? Nessuno mi manda soldi... Ma a che servono là i soldi... nessuno risponde alle mie telefonate.

    — Io stesso non ho idea di cosa sarà, — sostengo il non allegro colloquio. — Sono in carcere per la prima volta, non ho mai provato neanche le manette... Ah-ah... no, c'è stata una volta. — E gli ho raccontato la storia:

    «Andavo in qualche modo per una highway, c'era un tramonto bellissimo, un sole arancione, grande, beh, davanti a me un globo di fuoco tramonta dietro i monti... Mi fermo, metto la macchina fotografica sul cavalletto, mi arrampico su un ponte e fotografo gli autocarri che sfrecciano sullo sfondo del disco solare rosso. Stetti a lungo sul ponte, circa trenta minuti. Già scuriva. All'improvviso sento qualcosa dietro... Ma la highway rumoreggia, non si capisce. Mi volto e vedo: uno sbirro sta in piedi a gambe larghe, punta su di me il cannone e grida qualcosa! Non si capisce „cosa" — c'è molto rumore. Ma quello urla che getti a terra ciò che tengo in mano. Per strada è praticamente buio, c'è rumore. Ma in qualche modo indovinai di gettare il cavalletto. Mi mettono le mani dietro la schiena e le manette. Si avvicinò ancora qualche altra macchina, lampeggiatori, sirene, avevano catturato Rambo. Perquisirono, osservarono il cavalletto e la macchina fotografica e chiesero che facevo sul ponte. Fotografo il tramonto, — dico, — per un documentario. Mi tolsero le catene e dissero che gli avevano telefonato e riferito: un tiratore scelto spara dal ponte con armi a lunga gittata».

    Venerdì giunse di nuovo l'avvocato. Mi chiamarono, sto nel corridoio, aspetto. Arrivò ancora qualche nero. In fila indiana per il corridoio, in ascensore, al primo piano, nella cella sporca ci sono circa dodici persone. Sediamo. Attraverso le sbarre sono visibili persone libere dietro vetri spessi. Dialogano al telefono con gli arrestati. Gli avvocati con le cartelle aspettano i loro clienti.

    Ed ecco che anche mister Lunell comparve: il mio salvatore e benefattore. Sono contento di vederlo quasi come se fosse Gesù Cristo, ho speranza solo in lui.

    Mi chiamarono nello stanzino, mi tolsero le catene. Mi sfrego i polsi, mi guardo intorno. Mister Lunell dispone le carte.

    — Non ti preoccupare, non ci sono telecamere. Qui ci sono stanze confidenziali per gli avvocati. Puoi raccontarmi tutto... «tutto come sta».

    Ma gli altri zeki consigliano: «non raccontare niente a nessuno in nessun caso, neanche all'avvocato, infatti è designato dallo Stato, lavora per loro. Più dici — più alta è la pena... Tutto ciò che dirai — tutto è usato contro di te». Ma io ho voglia di condividere, di dimostrare che non sono quello per cui mi prendono... Com'è possibile che sia così? Vado per una highway, per il paese più libero e all'improvviso — fermata, perquisizione, arresto, in prigione. Mi hanno tolto tutto, mi promettono quindici anni.

    UNA RAPINA IN PIENO GIORNO

    Il ventotto marzo del duemilaquattordici ogni abitante del nostro pianeta aveva i suoi problemi e io mi svegliai alle quattro del mattino e andai alla caffetteria Starbucks, apriva alle quattro e trenta. Presi un cappuccino, sedetti in poltrona, aprii il notebook e il tempo volò, non produttivamente, ma senza tristezza, mi persi nella lettura delle notizie e delle barzellette. Era venerdì, mi trovavo nella città di Columbus, nello stato dell'Ohio. Il piano era comprare una casa a basso prezzo a Cleveland, trasformarla in studio e là girare il mio film, che pianificavo già da qualche anno. A Los Angeles l'affitto di una casa per le riprese mi sarebbe venuto a costare mille dollari al giorno, ma in Ohio mi sarei comprato una casetta per cinquemila, l'avrei trasformata in studio e avrei girato il mio film anche per un anno intero. Nella mia borsa c'erano, messi da parte per tutta questa impresa, ventottomila dollari. Alle dodici era fissato un incontro con un agente immobiliare.

    I soldi li avevo guadagnati girando una pubblicità di materiali chimici in Canada. E ventottomila era tutto ciò che restava dopo un anno e mezzo di peregrinazioni per il mondo. La somma era cash. Tre bei pacchetti di dollari nuovi nuovi e fruscianti. Li avevo presi dalla mia banca a Los Angeles. L'agenzia prometteva il dieci per cento di sconto, se avessi pagato in contanti. Anch'essi volevano pagare meno tasse. E io non avevo pagato le mie proprie tasse per sette anni interi. Rimandavo tutto. L'anno prossimo, il prossimo... poi pagherò.

    Alle dieci uscii dal caffè. Cleveland è a due ore di macchina da Columbus. Esco sulla 71, pioviggina, è un tempaccio, ci sono nuvolette poco accoglienti. Vado. Lungo la highway osservo all'improvviso un'insolita quantità di macchine di pattuglia, ne contai quattro. Poi ancora e ancora. Otto jeep nere, tra ciascuna due-tre chilometri.

    «Che succede, sono andato per quattro giorni per tutto il paese, non ho visto uno sbirro e qui ce ne sono tanti».

    In lontananza noto l'ennesima macchina da sbirri[10], sta sinistra a lato. Vado nella corsia sinistra, mi riordino in quella centrale, proseguo, guardo nello specchietto: sì, è così, il Cruiser vira lentamente fuori dalla trappola e mi segue. Come se non avessi infranto nulla, guardo il tachimetro. In ogni caso vado a sessanta miglia all'ora, lo sbirro si mantiene dietro, nella corsia sinistra.

    Dopo un minuto accende comunque il lampeggiatore. Indico una svolta, faccio passare un camion che mi sfreccia accanto e mi fermo di lato. La jeep è dietro di me, i lampeggiatori sono accesi. Lo sbirro esce, prendo i documenti e apro il vetro sinistro. Questi si avvicina da destra, bussa e io abbasso il finestrino. L'anglosassone bianco sui quarantacinque anni, con un ampio cappello, ficca la zucca sospettosamente ed esamina l'abitacolo. Io tendo i documenti.

    — Dove andiamo? — e spara con gli occhi.

    — A Cleveland.

    — Cosa, cosa?!

    — A Cleveland! — faccio segno in avanti.

    Mi fa segno di uscire, non prende neanche i documenti. Esco... c'è vento, pioviggina.

    — Dove andiamo? — grida, stavolta più forte, la highway rumoreggia.

    — A Cleveland, — ripeto e io stesso comincio a innervosirmi.

    — Perché a Cleveland? — e si guarda intorno.

    — A comprare una casa, — rispondo.

    — Cosa, cosa?!

    — A comprare una casa! — ripeto, più forte.

    — Passa di qua, — indica nel suo Cruiser, — mani dietro la testa... non temere, bisogna perquisirti, «per la tua stessa sicurezza».

    Alzo le mani, egli batte sulle tasche e apre lo sportello posteriore della jeep.

    — Passa.

    Mi arrampico. Ho una leggera fifa. Dietro la griglia, nella cabina più avanti vedo: un notebook sul cruscotto, delle radio, dei gadget, due mitra neri ficcati accanto ai sedili. Si

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