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L'enigma di Einstein
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E-book669 pagine11 ore

L'enigma di Einstein

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Info su questo ebook

Un autore da oltre 1 milione di copie
Tradotto in 20 lingue

Un grande thriller

Un manoscritto perduto, una verità che non deve essere rivelata 
Cosa aveva scoperto Albert Einstein?

Princeton, 1951. 
La CIA sta ascoltando la conversazione privata tra David Ben-Gurion, primo ministro di Israele, e Albert Einstein, lo scienziato ebreo famoso in tutto il mondo. Al centro della discussione ci sono due argomenti delicati: le armi nucleari e l’esistenza di Dio. 
Il Cairo, giorni nostri. 
Tomás Noronha, crittografo di grande esperienza, è in compagnia di una donna affascinante, Ariana Pakravan, che gli affida una missione per conto del governo iraniano: svelare i segreti contenuti in un manoscritto di Einstein mai venuto alla luce.
L’enigma di Einstein è un libro unico che riesce a fondere avventura, thriller, scienza, religione. Un viaggio affascinante alla ricerca dell’essenza dell’universo e dei suoi reconditi significati.

Ai vertici delle classifiche italiane

«In meno di tre mesi, José Rodrigues dos Santos ha trasformato L’enigma di Einstein nel bestseller dell’anno, surclassando autori del calibro di José Saramago, Dan Brown, Isabel Allende e Paulo Coelho.» 
Jornal de Notícias

«Una sorta di big bang letterario. Potrebbe forse essere questo il libro di cui la letteratura ha bisogno? L’autore ci seduce con questo suo viaggio universale sin dal primo capitolo. Umberto Eco ha fatto lo stesso con Il pendolo di Foucault.»
Diário de Notícias

«È possibile trovare la prova scientifica dell’esistenza di Dio? Il romanzo di José Rodrigues dos Santos mescola cosmologia, thriller, sentimenti, spiritualità, indagini investigative… cioè, la formula per attrarre qualsiasi tipo di lettore.»
El Mundo

«Se dovessimo scegliere il vero successo della prossima estate, scommetteremmo senza dubbio su L’enigma di Einstein.»
Le Figaro

«L’enigma di Einstein è un romanzo appassionante. L’autore segue l’esempio di autori quali Umberto Eco e Dan Brown.»
Bookreporter
José Rodrigues dos Santos
È nato in Mozambico nel 1964. I suoi romanzi hanno venduto più di un milione di copie in Portogallo e sono stati tradotti in 20 lingue. Tra questi ricordiamo: Codice 632, Il settimo sigillo e Vaticanum, pubblicato con successo nel 2012 da Newton Compton. Tra i volti più noti della TV nazionale portoghese, conduce il telegiornale della sera sul canale RTP. Giornalista, scrittore e reporter di guerra, ha ricevuto diversi premi e riconoscimenti e insegna giornalismo alla Nuova Università di Lisbona.
LinguaItaliano
Data di uscita8 feb 2017
ISBN9788822705396
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    Anteprima del libro

    L'enigma di Einstein - José Rodrigues dos Santos

    1498

    Titolo originale: A fórmula de Deus

    © José Rodrigues dos Santos/Gradiva Publicações, S. A., 2006

    All rights reserved

    Traduzione dal portoghese di Marta Lanfranco

    Prima edizione ebook: aprile 2017

    © 2017 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-0539-6

    Realizzazione a cura di The Bookmakers Studio editoriale, Roma

    www.newtoncompton.com

    José Rodrigues Dos Santos

    L’enigma di Einstein

    Newton Compton editori

    Indice

    Prologo

    Capitolo i

    Capitolo ii

    Capitolo iii

    Capitolo iv

    Capitolo v

    Capitolo vi

    Capitolo vii

    Capitolo viii

    Capitolo ix

    Capitolo x

    Capitolo xi

    Capitolo xii

    Capitolo xiii

    Capitolo xiv

    Capitolo xv

    Capitolo xvi

    Capitolo xvii

    Capitolo xviii

    Capitolo xix

    Capitolo xx

    Capitolo xxi

    Capitolo xxii

    Capitolo xxiii

    Capitolo xxiv

    Capitolo xxv

    Capitolo xxvi

    Capitolo xxvii

    Capitolo xxviii

    Capitolo xxix

    Capitolo xxx

    Capitolo xxxi

    Capitolo xxxii

    Capitolo xxxiii

    Capitolo xxxiv

    Capitolo xxxv

    Capitolo xxxvi

    Capitolo xxxvii

    Capitolo xxxviii

    Capitolo xxxix

    Capitolo xl

    Capitolo xli

    Capitolo xlii

    Capitolo xliii

    Nota dell’autore

    A Florbela

    "Io sono l’alfa e l’omega, il principio e la fine,

    colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente".

    Apocalisse 1:8

    Tutti i dati scientifici riportati in questo libro sono veri.

    Tutte le teorie scientifiche qui esposte sono avvalorate da fisici e matematici.

    Prologo

    L’uomo dagli occhiali scuri sfregò il fiammifero e avvicinò la fiamma violacea alla punta del sigaro. Aspirò con forza e una nuvola grigiastra si propagò dal suo viso, piano, in modo spettacolare. L’uomo camminò lungo la strada, apprezzando con il suo sguardo azzurro la quiete di quell’angolo piacevole.

    Era una giornata di sole, gli arbusti coloravano di verde i giardini delicati, graziose casette di legno incorniciavano la strada, le foglie vibravano alla brezza mattutina; l’aria amena era colma di fragranze e melodie, profumava di glicine in fiore, carica dello stridio di laboriose cicale nascoste dall’erba alta e del dolce tubare di un colibrì. Una risata spensierata si unì al coro di suoni armoniosi della natura: una bambinetta bionda strillava allegra, mentre correva lungo il marciapiede, trascinandosi dietro un colorato pappagallo legato a una corda.

    Primavera a Princeton.

    Un ronzio lontano attrasse l’attenzione dell’uomo dagli occhiali scuri. Allungò la testa e fissò con lo sguardo il fondo della strada. Tre moto della polizia apparvero da destra, aprendo una lunga colonna di macchine che si avvicinava a gran velocità. Il ronzio crebbe, trasformandosi in un boato assordante. L’uomo si tolse il sigaro dalla bocca e lo spense nel posacenere appoggiato sul parapetto della finestra.

    «Stanno arrivando», disse, girando la testa indietro.

    «Inizio a registrare?», domandò l’altro con il dito appoggiato sopra il bottone di un apparecchio dotato di nastro magnetico.

    «Sì, è meglio».

    La fila di macchine si fermò con precisione davanti alla casa dall’altra parte della strada, una villetta bianca di due piani con una veranda sul davanti, in stile neogreco; poliziotti in uniforme e in borghese si piazzarono lungo il perimetro e un uomo corpulento, evidentemente un guardaspalle, si precipitò ad aprire la porta della Cadillac nera, che aveva appena parcheggiato davanti all’ingresso della casa. Un uomo già di una certa età, con i capelli bianchi sopra le orecchie e calvo sulla corona della testa, uscì dall’automobile e si sistemò il vestito scuro.

    «Vedo Ben Gurion», disse dalla finestra della casa difronte l’uomo dagli occhiali scuri.

    «E il nostro amico? È già arrivato?», domandò il suo compagno all’apparecchio, infastidito dal fatto di dovere restare alla propria postazione.

    Quello dagli occhiali scuri spostò lo sguardo dalla Cadillac alla casa. L’immagine familiare di un uomo già avanti con gli anni, leggermente curvo, con i capelli impomatati pettinati all’indietro e i folti baffi grigi sotto il naso, apparve dietro la porta per poi scendere i pochi gradini all’ingresso con il sorriso sulle labbra.

    «Sì, è appena uscito».

    Le parole che i due uomini si scambiarono ai piedi della scala, davanti al giardino, vennero catturate dalle cimici nascoste.

    «Shalom, signor primo ministro».

    «Shalom, professore».

    «Benvenuto nella mia umile casa. È un piacere potere ricevere il famoso David Ben Gurion».

    Il politico scoppiò a ridere.

    «Dev’essere in vena di scherzi. Il piacere è tutto mio. Non capita tutti i giorni d’incontrare il grande Albert Einstein. Dico bene?».

    L’uomo dagli occhiali scuri guardò il suo compagno.

    «Stai registrando?».

    L’altro verificò che gli indicatori dei suoni stessero oscillando.

    «Sì, non ti preoccupare».

    Dall’altra parte della strada, Einstein e Ben Gurion si misero a posare per i giornalisti, che li illuminavano con i flash delle macchine fotografiche davanti alla parete verde e lilla di glicine, che si arrampicava su per la veranda della casa. Dal momento che era una magnifica giornata di primavera, lo scienziato invitò il politico a rimanere all’aria aperta, indicandogli delle sedie di legno poste in mezzo all’erba umida; i due uomini si accomodarono, sempre sotto gli occhi indiscreti dei fotografi e degli operatori che stavano riprendendo. Dopo qualche minuto, un guardaspalle allargò le braccia per cacciare via la stampa, facendo in modo che i due uomini rimanessero da soli, nel giardino, sotto i dolci raggi del sole.

    Il registratore della casa difronte continuò a captare e registrare ogni parola.

    «Sta procedendo bene il suo viaggio, signor primo ministro?»

    «Sì, sono riuscito a ottenere l’appoggio di alcune persone e molte donazioni, grazie a Dio. La prossima tappa è Filadelfia, dove spero di raccogliere ancora più denaro. Non è mai abbastanza, vero? La nostra giovane nazione è circondata da nemici e necessita di tutto l’aiuto possibile».

    «Israele è nato da appena tre anni, signor primo ministro. È naturale che ci siano delle difficoltà».

    «E c’è bisogno di molto denaro per superarle, professore. Non basta la buona volontà».

    Tre uomini vestiti di nero irruppero dall’ingresso con le pistole ben salde nelle mani, puntate contro i due sospettati che stavano registrando il colloquio.

    «Mani in alto!», gridarono gli uomini armati. «fbi! Non muovetevi! Alzate le mani senza fare movimenti bruschi!».

    L’uomo dagli occhiali scuri e quello al registratore eseguirono gli ordini, senza essere particolarmente sorpresi. Gli agenti dell’fbi avanzarono, tenendoli sempre sotto tiro con fare minaccioso.

    «A terra!».

    «Non è necessario», replicò con calma l’uomo dagli occhiali scuri.

    «A terra, ho detto!», urlò di nuovo quello dell’fbi. «Non fatemelo ripetere!».

    «Calmatevi, ragazzi», insistette l’uomo dagli occhiali scuri. «Siamo della cia».

    L’agente dell’fbi inarcò il sopracciglio.

    «Potete provarlo?»

    «Certamente, se mi lasciate infilare la mano nella tasca».

    «Procedi, ma fa’ piano. Nessun gesto brusco».

    L’uomo dagli occhiali scuri abbassò lentamente il braccio destro, infilò la mano nella tasca della giacca e tirò fuori il distintivo, che mostrò all’fbi. Aveva il marchio circolare della Central Intelligence Agency e lo identificava come Frank Bellamy, agente operativo di primo grado. L’uomo dell’fbi fece segno ai suoi compagni di abbassare le pistole e poi si guardò attorno.

    «Che cosa ci fate qui voi della oss?»

    «Non ci chiamiamo più oss, you prick, ma cia».

    «D’accordo, che cosa ci fate qui voi della cia?»

    «La cosa non vi riguarda».

    L’uomo dell’fbi osservò il registratore.

    «State registrando la conversazione del nostro genio?»

    «La cosa non vi riguarda».

    «E voi, per legge, non potete spiare un cittadino americano. Lo sapete, vero?»

    «Il primo ministro d’Israele non è un cittadino americano».

    L’uomo dell’fbi rifletté prima di rispondere. Dopotutto, l’agente della cia aveva ragione.

    «Sono anni che cerchiamo di captare qualcosa dal nostro amico», disse guardando Einstein attraverso la finestra. «Sappiamo che lui e la segretaria, quella capra della Dukas, stanno passando delle informazioni segrete ai sovietici. Ma Hoover non ci lascia piazzare delle cimici. Teme la reazione del genietto nel caso ci scopra». Si grattò la testa. «A quanto vedo, voi siete riusciti ad aggirare il problema».

    Bellamy incurvò all’insù gli angoli delle labbra fini, abbozzando quello che parve un sorriso.

    «Peccato che voi siate dell’fbi». Indicò con la testa la porta. «Ora sparite. Lasciate che i big boys facciano il loro lavoro».

    L’agente dell’fbi contrasse le labbra in segno di disprezzo.

    «Siete sempre le stesse merde, eh?», grugnì prima di voltarsi verso la porta. «Fucking Nazis». Fece un segno ai suoi due compagni. «Let’s go, guys».

    Non appena l’fbi ebbe tolto il disturbo, Bellamy tornò a incollare il naso alla finestra e a osservare i due ebrei seduti nel giardino della casa difronte.

    «Stai ancora registrando, Bob?»

    «Sì», rispose l’altro. «Sono entrati nel vivo della conversazione. Aumento il volume».

    Bob girò una manopola e il suono delle due voci riempì la stanza.

    «…difesa d’Israele», disse Ben Gurion, concludendo una frase.

    «Non so se lo posso fare», commentò Einstein.

    «Non può o non vuole, professore?».

    Ci fu un attimo di silenzio.

    «Sono pacifista, come ben saprà», riprese a parlare Einstein. «Credo che esistano già troppe disgrazie al mondo e che stiamo giocando col fuoco. Dobbiamo rispettare questo potere, non so se possediamo la maturità sufficiente per usarlo».

    «Eppure è stato lei a convincere Roosevelt a sviluppare la bomba».

    «La situazione era diversa».

    «In cosa?»

    «La bomba serviva a combattere Hitler e, comunque, mi sono già pentito di avere convinto il presidente a fabbricarla».

    «Davvero? E se i nazisti l’avessero sviluppata per primi? Che cosa sarebbe successo?»

    «Be’», convenne Einstein esitando, «sarebbe stata una catastrofe. Probabilmente, per quanto mi costi ammetterlo, la bomba è stata un male necessario».

    «Quindi lei è d’accordo con me».

    «Dice?»

    «Senz’altro. Quello che le chiedo è un male necessario a garantire la sopravvivenza della nostra giovane nazione. Ciò che voglio dire è che lei ha già tradito le sue convinzioni pacifiste durante la seconda guerra mondiale, pertanto potrebbe rifarlo per permettere a Israele di sbocciare. Pensa di potere?»

    «Non so».

    Ben Gurion sospirò.

    «Professore, la nostra giovane nazione rischia di morire. Lei sa bene quanto me che Israele è circondata da nemici e che necessita di un efficace dissuasore, qualcosa che obblighi i nostri avversari a tornare sui loro passi. In caso contrario, il Paese verrà inghiottito ancora prima di nascere. Per questo le chiedo, anzi no, la prego, la imploro con ardore di venire meno alle sue convinzioni pacifiste per darci una mano in questo momento difficile».

    «Il fulcro del problema non è questo, signor primo ministro».

    «No?»

    «Sono molto occupato. Sto cercando di elaborare una teoria unificata dei campi, che inglobi la gravità e l’elettromagnetismo. È un lavoro molto importante, forse addirittura di più…».

    «Mi faccia il piacere, professore!», lo interruppe Ben Gurion. «Sono sicuro che lei comprende benissimo che la mia richiesta ha la priorità su qualsiasi altra cosa».

    «Indubbiamente», ammise lo scienziato, «ma, non sono sicuro che sia fattibile».

    «Secondo lei lo è?».

    Einstein esitò.

    «Può darsi», rispose infine. «Non saprei, devo approfondire».

    «Lo faccia, professore, lo faccia per noi… per Israele».

    Frank Bellamy scrisse velocemente due appunti sul suo taccuino e, quando ebbe finito, diede un’occhiata agli indicatori del suono. Le asticelle rosse tremavano seguendo il ritmo delle voci, il che voleva dire che quelle parole erano state registrate.

    Bob prestava attenzione al discorso, scuotendo la testa a destra e a sinistra.

    «Credo che abbiamo registrato abbastanza», osservò. «Fermo?»

    «No», rispose Bellamy. «Continua».

    «Ma stanno parlando di altro».

    «Non importa. Potrebbero ritornare sull’argomento. Continua a registrare».

    «…molte volte, non ho un’idea convenzionale di Dio, ma faccio fatica a credere che non esista nulla al di là della materia», disse Ben Gurion. «Non so se riesce a capirmi».

    «Perfettamente».

    «Si è accorto», insistette il politico, «che il cervello è fatto di materia esattamente alla stregua di un tavolo? Però il tavolo non pensa. Il cervello è parte di un organismo vivente, così come le mie unghie, ma nemmeno le mie unghie pensano. Neppure il mio cervello pensa, se separato dal corpo. È l’insieme testa-corpo che fa sì che io pensi. Il che mi fa sorgere il dubbio che l’intero universo, in toto, sia un corpo pensante. Concorda?»

    «È possibile».

    «Mi hanno riferito che lei è ateo, professore, ma non crede che…».

    «No, non sono ateo».

    «Non lo è? È religioso?»

    «Sì, mi definirei tale. Sono religioso».

    «Ma ho letto che lei è convinto che la Bibbia sbagli…».

    Einstein scoppiò a ridere.

    «In effetti è così».

    «Quindi non crede in Dio».

    «No, significa semplicemente che non credo nel Dio della Bibbia».

    «Che differenza c’è?».

    Si udì un sospiro.

    «Sa, quando ero piccolo, ero un bambino molto religioso. A dodici anni, però, ho iniziato a leggere libri scientifici, quelli di carattere divulgativo, non so se ha presente…».

    «Sì».

    «…ebbene, sono giunto alla conclusione che la maggior parte delle storie narrate nella Bibbia non è altro che mito. Ho smesso di credere da un giorno all’altro. Ho riflettuto a lungo sulla questione e mi sono reso conto che l’idea di un Dio a immagine e somiglianza dell’uomo è ingenua, per non dire infantile».

    «Perché?»

    «Perché è un concetto antropomorfo, una fantasia creata dall’uomo per tentare d’influenzare il suo destino e cercare consolazione nei momenti difficili. Siccome noi non possiamo interferire con la natura, abbiamo creato quest’idea che sia gestita da un Dio benevolo e paterno che ci ascolta e ci guida. Ci dà conforto, non crede? Abbiamo creato l’illusione che, se preghiamo molto, faremo in modo che lui controlli la natura e soddisfi i nostri desideri, così per magia. Quando le cose vanno male e non comprendiamo come un Dio così benevolo lo permetta, ci diciamo che dev’essere per via di un qualche disegno misterioso e ci rincuoriamo. Ma non ha alcun senso, non è d’accordo?»

    «Secondo lei Dio non si preoccupa per noi?»

    «Signor primo ministro, noi siamo una tra milioni di specie che occupano il terzo pianeta di una stella alla periferia di una galassia, in cui ci sono miliardi di stelle, e questa galassia è, di per sé, una tra i miliardi di galassie che esistono nell’universo. Come posso credere che un Dio che ha un lavoro, in questa prospettiva, di proporzioni inimmaginabili si possa preoccupare per ciascuno di noi?»

    «Be’, la Bibbia dice che Lui è buono e onnipotente. Se è onnipotente, può fare tutto, anche preoccuparsi al contempo dell’universo e di ciascuno di noi».

    Einstein batté la mano sul ginocchio.

    «Lui è buono e onnipotente, eh? Ma che idea assurda! Se è davvero buono e onnipotente, come sostiene la Bibbia, per quale motivo permette che il male esista? Perché, ad esempio, non ha impedito l’Olocausto? A ben guardare, i due concetti sono contraddittori. Se Dio è buono, non può essere onnipotente, perché non è in grado di debellare il male; se è onnipotente, non può essere buono, perché permette che il male esista. Un concetto esclude l’altro. Quale dei due preferisce?»

    «Emm… forse che Dio sia buono, credo».

    «Ma è un’idea che comporta numerosi problemi, non trova? Se legge la Bibbia con attenzione, si accorgerà che non trasmette affatto l’immagine di un Dio benevolo, al contrario ci racconta che Dio è geloso, che esige fedeltà indiscussa, che causa timore, punisce e sacrifica, che è capace di esigere che Abramo uccida il proprio figlio come prova della sua assoluta fedeltà. Ma se è onnisciente, doveva sapere già che Abramo gli era fedele, no? Come può, essendo buono, avere sottoposto il patriarca a un test così crudele? La conclusione è che non è buono».

    Ben Gurion scoppiò a ridere.

    «Mi ha convinto, professore!», esclamò. «D’accordo, Dio non è in assoluto buono, ma, visto che ha creato l’universo, converrà con me che è onnipotente, no?»

    «Dice? Se fosse davvero così, per quale motivo punisce gli esseri che lui stesso ha creato? Non ci sta forse punendo per cose di cui Lui è, in fin dei conti, l’unico responsabile? Giudicando le sue proprie creature, non giudica forse sé stesso? A mio avviso, in tutta franchezza, può essere scusato soltanto se non esiste». Fece una pausa. «Anzi, a ben vedere, lo stesso concetto d’onnipotenza è impossibile. È un concetto in cui risiedono varie contraddizioni illogiche, che non hanno alcuna soluzione».

    «In che senso?»

    «Esiste un paradosso che spiega l’impossibilità dell’onnipotenza e può essere formulato nel seguente modo: se Dio è onnipotente, allora è in grado di creare una pietra così pesante che nemmeno lui riesce a sollevare». Einstein inarcò il sopracciglio. «Mi segue? È proprio qui che vi è una contraddizione intrinseca. Se Dio non riesce a sollevare la pietra, allora non è onnipotente. E se ci riesce, non lo è comunque, perché significa che non è stato capace di creare una pietra così pesante da non riuscire a sollevarla». Sorrise. «Conclusione: non esiste un Dio onnipotente. È una fantasia dell’uomo in cerca di conforto e di una spiegazione per ciò che non capisce».

    «Quindi lei non crede in Dio».

    «Non credo nel Dio antropomorfo della Bibbia, no».

    «È convinto che non ci sia nulla oltre la materia, dico bene?»

    «No, ovvio che esiste qualcosa oltre l’energia e la materia».

    «Allora, professore, lei crede o no?»

    «Le ripeto che non credo nel Dio antropomorfo della Bibbia».

    «E allora in cosa?»

    «Credo nel Dio di Spinoza, che si rivela nell’ordine armonioso delle cose esistenti. Ammiro la bellezza e la logica semplice dell’universo, credo in un Dio che si rivela nell’universo, in un Dio che…».

    Frank Bellamy alzò lo sguardo al cielo annoiato, scuotendo la testa.

    «Jesus Christ!», esclamò. «Non credo alle mie orecchie!».

    Bob si mosse sulla sedia, seguendo gli indicatori del registratore.

    «Guarda il lato positivo della cosa», disse. «Ti sei reso conto, Frank, che stiamo spiando il più grande genio di tutta la storia dell’umanità? Ora sappiamo che cosa pensa di Dio. Quante persone possono dire la stessa cosa?»

    «Noi non facciamo show business, Bob. Ci occupiamo di sicurezza nazionale e a noi interessa sapere qualcosina in più sulla richiesta che Ben Gurion gli ha fatto poco fa. Se Israele entra in possesso della bomba atomica, Bob, quanto tempo ci vorrà prima che anche il resto del mondo se la fabbrichi, eh?»

    «Hai ragione. Scusami».

    «In questa faccenda è di vitale importanza conoscere ogni dettaglio».

    «D’accordo. Torniamo ad ascoltare».

    «…di Spinoza».

    Ci fu un lungo silenzio.

    Fu Ben Gurion a riprendere a parlare per primo.

    «Professore, crede che un giorno sarà possibile provare l’esistenza di Dio?»

    «No, signor primo ministro. Non è possibile provare l’esistenza di Dio, così come non è possibile provare la sua non-esistenza. Noi abbiamo soltanto la capacità di percepire il mistero, di sperimentare la sensazione di stupore per il meraviglioso schema con il quale si esprime l’universo».

    Ci fu di nuovo una pausa.

    «E perché non prova lei a dimostrare l’esistenza o l’inesistenza di Dio?»

    «Non credo che sia possibile, come le ho già detto».

    «Ma se lo fosse, da che parte comincerebbe?».

    Silenzio.

    Questa volta fu Einstein a prendersi un po’ di tempo per riflettere. Il vecchio scienziato voltò la testa per contemplare la verzura di Mercer Street; osservò con gli occhi del saggio, con gli occhi del bambino, con gli occhi di chi ha tutto il tempo di questo mondo e non ha perso il dono di meravigliarsi dinanzi a tanta esuberanza della natura al suo risveglio in primavera.

    Respirò profondamente.

    «Raffiniert ist der Herrgott, aber boshaft ist er nicht», disse infine.

    Ben Gurion lo guardò incuriosito.

    «Was wollen Sie damit sagen?»

    «Die Natur verbirgt ihr Geheimnis durch die Erhabenheit ihres Wesens, aber nicht durch List».

    Frank Bellamy sferrò un pugno contro il parapetto della finestra.

    «Damn!», esclamò. «Si sono messi a parlare in tedesco!».

    «Che cosa stanno dicendo?», domandò Bob.

    «E che ne so io? Ti pare che io sia un kraut?».

    Bob pareva confuso.

    «Che faccio? Continuo a registrare?»

    «Ovvio. Quando consegneremo il nastro all’agenzia, qualche fucking genietto si premurerà di tradurlo». Fece una smorfia di disprezzo. «Con tutti i nazisti che bazzicano da quelle parti non sarà certo un’impresa».

    L’agente premette il naso contro la finestra e rimase così, con il vapore del respiro che creava baffi umidi sui vetri e gli occhi fissi su due vecchi seduti dall’altra parte della strada a chiacchierare. Parevano due fratelli, lì di fianco l’uno all’altro, al numero 112 di Mercer Street.

    Capitolo i

    Il caos per strada era decisamente sgradevole. Le automobili con le targhe ammaccate, i camion rumorosi e gli autobus fumosi si affollavano sull’asfalto sporco e oleoso, dimenandosi in strombazzate impazienti e grugniti rauchi d’indisposizione; l’odore acido della benzina bruciata riempiva l’aria calda della tarda mattinata, una nebbiolina unta dovuta all’inquinamento avvolgeva gli edifici degradati. C’era qualcosa di decadente in quello spettacolo, in cui una città vecchia cercava di entrare nel futuro sfoggiando il peggio della modernità.

    Indeciso su quale direzione prendere, l’uomo dai capelli castani e gli occhi verdi cristallini, si fermò ai piedi della scalinata del museo per studiare le diverse opzioni. Davanti a lui si estendeva la grande rotonda di Midan Tahrir, oltre alla quale vi erano numerosi caffè. Il problema era che la piazza costituiva l’epicentro di quel caos stradale, era il più grande palcoscenico in cui si ammucchiava la spazzatura ambulante. Per lui non era un’opzione viabile. Quindi rivolse il suo sguardo verso sinistra. L’alternativa consisteva nel prendere Qasr El-Nil in direzione di Groopi’s, dove avrebbe potuto ristorarsi con dell’ottimo tè accompagnato da dei dolcetti; ma aveva fame e i piccoli pasticcini non l’avrebbero saziato. C’era un’altra possibilità: poteva svoltare a destra e dirigersi verso la Corniche El-Nil, dove si ergeva il suo splendido hotel con ottimi ristoranti e una magnifica vista sul fiume e sulle piramidi.

    «È la tua prima volta qui al Cairo?».

    L’uomo dagli occhi verdi si voltò all’indietro, cercando d’individuare la voce femminile che si era rivolta a lui.

    «Come?»

    «È la tua prima volta qui al Cairo?».

    Una donna alta e dai lunghi capelli corvini si avvicinò a lui; era appena uscita dal museo e ostentava un sorriso accattivante. I suoi occhi erano di un’intrigante gradazione di marrone paglierino, aveva le labbra carnose e sensuali colorate di rosso scarlatto, indossava degli orecchini discreti di rubini e un tailleur grigio attillato, gli alti tacchi neri slanciavano le sue curve perfette e le lunghe gambe da modella.

    Una bellezza esotica.

    «Emm… no», balbettò l’uomo. «Sono già venuto diverse volte».

    La donna allungò la mano.

    «Molto piacere», sorrise. «Mi chiamo Ariana. Ariana Pakravan».

    «Piacere mio».

    Si strinsero la mano e Ariana ridacchiò.

    «Non hai intenzione di dirmi il tuo nome?»

    «Ah, scusami. Mi chiamo Tomás. Tomás Noronha».

    «Piacere, Tòmas».

    «Tomás», la corresse lui. «L’accento è sulla a. Tomáaas».

    «Tomás», ripeté lei, sforzandosi d’imitare l’accento dell’uomo.

    «Esatto. Gli arabi fanno sempre molta fatica a pronunciare correttamente il mio nome».

    «Mmm, chi ti dice che sono araba?»

    «Non è così?»

    «No, affatto. Sono iraniana».

    «Ah!», scoppiò a ridere. «Non sapevo che le donne iraniane fossero così belle».

    Il viso di Ariana s’illuminò in modo meraviglioso.

    «Ho già capito che sei un donnaiolo».

    Tomás arrossì.

    «Scusami. Mi è scappata».

    «Ah, non ti preoccupare. Anche Marco Polo sosteneva che le iraniane fossero le donne più belle del mondo». Sbatté le palpebre in modo seducente. «E comunque non esiste donna che non ami ricevere un complimento galante».

    L’uomo osservò il tailleur incollato al suo corpo curvilineo.

    «Sei vestita in modo così moderno! Visto che vieni dall’Iran, la terra degli ayatollah, la cosa mi sorprende molto».

    «Io… be’… sono un caso speciale». Ariana guardò il caos di Midan Tahrir. «Hai fame?»

    «Se ho fame? Mi mangerei un bue intero!».

    «Allora seguimi. Ti faccio assaggiare delle specialità locali».

    Il taxi si diresse verso il quartiere mussulmano della città, a est. Man mano che l’auto si faceva strada negli ingorghi della capitale egiziana, i grandi viali vennero sostituiti da un labirinto di stradine strette, colme di movimento e vita; vi erano carretti trainati da muli, passanti vestiti con la galabiyya, venditori ambulanti, biciclette, uomini carichi di papiri, banchetti di taamiyya, negozi d’ottone, rame, di tappeti, cuoio, tessuti, di finte antichità appena forgiate, spiazzi pullulanti di uomini intenti a fumare le loro sheeshas, il cui odore si mescolava al forte aroma di cibo fritto, zafferano, curcuma e peperoncino.

    Il taxi li lasciò davanti alla porta di un ristorante di Midan Hussein, una piazzetta verde all’ombra di un minareto.

    L’Abu Hussein aveva un aspetto molto occidentale rispetto alla media dei ristoranti egiziani. Tutti i tavoli erano stati apparecchiati con tovaglie immacolate e, soprattutto, cosa essenziale in quella città, l’aria condizionata funzionava alla perfezione, offrendo ai commensali una piacevole frescura.

    Non appena si accomodarono vicino alla finestra, con la moschea di Sayyidna al-Hussein ben visibile dall’altra parte della piazza, il cameriere vestito di bianco si avvicinò con due menu in mano, che consegnò subito ai nuovi arrivati. Tomás lo lesse, scuotendo la testa.

    «Non conosco questi piatti».

    Ariana lo guardò da sopra il suo menu.

    «Che cosa vuoi mangiare?»

    «Scegli tu per me. Mi metto nelle tue mani».

    «Sicuro?»

    «Assolutamente sì».

    L’iraniana diede un’altra occhiata al menu e poi ordinò.

    Una voce pungente, con una punta di malinconia, irruppe nell’aria; il muezzin dall’alto del minareto lanciava l’adhan, incitando i fedeli a pregare. L’intonazione melodica e oscillante di Allah u akbar si propagò per l’intera città, mentre Ariana osservava attraverso la finestra la folla che convergeva nella moschea.

    «Che buffo», commentò lui. «Stiamo per pranzare insieme e non sappiamo nulla l’uno dell’altra. Conosciamo solo i nostri nomi».

    Lei inarcò le sopracciglia e adottò un’espressione maliziosa.

    «Ti sbagli».

    «Com’è possibile?», si sorprese Tomás. «Non ti ho ancora detto nulla di me».

    «Non ce n’è bisogno. Mi sono informata».

    «Ah sì?»

    «Già».

    «Non ti credo».

    «Vuoi che te lo provi? D’accordo. Sei portoghese e sei considerato uno dei maggiori esperti mondiali in criptoanalisi e in lingue antiche. Tieni lezioni all’università di Lisbona e parallelamente lavori come consulente per la Fondazione Gulbenkian, per la quale stai rivedendo la traduzione di alcuni geroglifici dell’Antico Egitto e di una scritta in cuneiforme di un bassorilievo assiro, che appartiene al museo della fondazione». Aveva pronunciato quelle parole come se stesse rispondendo a un esame. «Sei venuto al Cairo per partecipare a una conferenza sul tempio di Karnak e hai approfittato di quest’occasione per valutare se acquistare, a nome del Museo Calouste Gulbenkian, una stele del re Narmer, che è custodita nei sotterranei del Museo Egizio».

    «Mi arrendo. È evidente che tu sai molte cose su di me. Sono impressionato…».

    «So anche che sei anni fa ti è capitata una tragedia e che hai divorziato recentemente».

    Tomás inarcò le sopracciglia, valutando la situazione. La sua interlocutrice possedeva delle informazioni che riguardavano la sua sfera privata e la cosa lo metteva a disagio.

    «Come sai certe cose?»

    «Mio caro professore, credi che io sia una delle tue facili conquiste?». Ariana sorrise senza ironia, scuotendo la testa. «No. Io sto lavorando e questo è un pranzo d’affari, nel caso non te ne sia accorto».

    Il portoghese era sconcertato.

    «Non l’avevo capito».

    «Rifletti, professore. Sono una donna mussulmana, anzi, come hai detto tu stesso poc’anzi, vengo dal Paese degli ayatollah, dove la morale è, diciamo, molto rigida. Quante donne iraniane credi che abborderebbero un europeo per strada per trascinarlo fuori a pranzo, così su due piedi?»

    «Be’, non so… non ne ho idea».

    «Nessuna donna iraniana farebbe mai una cosa del genere, caro professore. Nessuna. Se ora siamo seduti qui è perché dobbiamo discutere di una certa faccenda».

    «Davvero?».

    Ariana appoggiò i gomiti sul tavolo e guardò Tomás dritto negli occhi.

    «Come ti ho già detto, so che sei venuto al Cairo per una conferenza e che hai intenzione di acquistare un’antichità egizia per conto del Museo Gulbenkian. Ti ho trascinato fin qui perché voglio proporti un altro affare». Piegò il busto per prendere la ventiquattrore appoggiata a terra e depositarla sul tavolo. «Qui, in questa valigetta, c’è una copia di un manoscritto che potrebbe rivelarsi la scoperta del secolo». Accarezzò la ventiquattrore con la mano. «Il mio governo mi ha ordinato di contattarti perché vorrebbe che lavorassi alla traduzione di questo prezioso documento».

    Tomás rimase un istante in silenzio a fissare l’iraniana.

    «Quindi tu vorresti assumermi? Ho capito bene?»

    «Sì».

    «Non avete dei traduttori?».

    Ariana sorrise.

    «Diciamo che in questo caso è richiesta una certa specializzazione».

    «In lingue antiche?»

    «Non esattamente».

    «In criptoanalisi?»

    «Proprio così».

    Tomás si sfregò il mento.

    «Mmm», mormorò, «di che manoscritto si tratta?».

    L’iraniana raddrizzò la schiena, assumendo un’aria seria, professionale.

    «Prima di procedere oltre, ho una condizione da sottoporti».

    «Dimmi».

    «Ciò di cui parleremo è strettamente confidenziale. Non puoi rivelare il contenuto di questa conversazione a nessuno. Hai capito? A nessuno. Se non raggiungeremo un accordo, sarai comunque costretto a mantenere il segreto». Lo fissò negli occhi. «Sono stata abbastanza chiara?»

    «Sì».

    «Sicuro?»

    «Sì, tranquilla».

    Ariana aprì la valigetta e tirò fuori un badge e un foglio, che porse al suo interlocutore.

    «Questo è il mio badge, che prova che sono una funzionaria del Ministero della Scienza».

    Tomás lo prese in mano. Vi era una scritta in farsi sopra e una fotografia di Ariana con il velo.

    «Stai bene anche così».

    L’iraniana sorrise.

    «E tu continui a comportarti da perfetto donnaiolo».

    Lo storico esaminò di nuovo il badge.

    «Non capisco cosa ci sia scritto». Glielo restituì con aria indifferente. «Per quanto ne so, potrebbe essere un documento falso stampato alla tipografia qui all’angolo».

    Ariana sorrise di nuovo.

    «Presto ti renderai conto che non ti sto ingannando». Gli mostrò il foglio. «Questo è il documento del Ministero della Scienza che attesta che il manoscritto è autentico».

    Il portoghese analizzò il foglio, leggendolo parola per parola. Il documento ufficiale, con in testa il timbro iraniano, era stato redatto in inglese. Il documento stabiliva che Ariana Pakravan era il capo di un gruppo di lavoro incaricato dal Ministero della Scienza, della Ricerca e della Tecnologia della Repubblica Islamica dell’Iran di decifrare e autenticare il manoscritto intitolato Die Gottesformel. Al fondo vi era uno scarabocchio azzurro, una firma illeggibile, che dalla scritta posta sotto risultava essere di Bozorgmehr Shafaq, ministro della Scienza, della Ricerca e della Tecnologia.

    Tomás indicò il titolo del manoscritto.

    «Die Gottecosa?»

    «Die Gottesformel. È tedesco».

    «Lo so che è tedesco», rise. «Ma che significa?».

    Ariana tirò fuori dalla valigetta un foglio piegato in quattro; lo spiegò completamente e lo passò a Tomás. Il titolo del documento era stato battuto a macchina con caratteri maiuscoli e recitava die gottesformel. Sotto vi era un poema dattilografato e una firma.

    «Questa è la fotocopia della prima pagina del manoscritto», gli spiegò Ariana. «Come vedi, il titolo è lo stesso menzionato nel documento ufficiale siglato dal ministro Shafaq».

    «Sì, Die Gottesformel», ripeté Tomás. «Che cosa significa?»

    «È un documento redatto da uno dei maggiori personaggi dell’umanità».

    «Chi?», rise Tomás. «Gesù Cristo?»

    «È evidente che ti piace scherzare».

    «Forza, dimmi di chi si tratta».

    Ariana spezzò del pane, lo spalmò di hummus e lo inghiottì con gesti deliberatamente lenti, come se volesse accentuare il momento della rivelazione con un po’ di dramma.

    «Albert Einstein».

    Tomás analizzò di nuovo la fotocopia, questa volta con maggiore curiosità.

    «Einstein, eh? Mmm… interessante». Squadrò Ariana. «Questa è la sua firma?»

    «Sì».

    «Ne siete certi?»

    «Ovvio. Abbiamo già fatto tutti i test di calligrafia e lo possiamo affermare con assoluta certezza».

    «Quando è stato pubblicato questo testo?»

    «Mai».

    «Come? Mi stai dicendo che si tratta di un inedito?»

    «Sì».

    Lo storico emise un fischio d’approvazione; ora era più curioso che mai. Studiò ancora una volta la fotocopia, le lettere del titolo, il poema e la firma di Einstein in basso. Il suo sguardo passò dal foglio alla valigetta di Ariana, ancora posata sul tavolo.

    «Dov’è il resto del manoscritto?»

    «A Teheran».

    «Puoi farmi avere delle copie da studiare?».

    L’iraniana sorrise ancora una volta.

    «No. Si tratta di un documento altamente confidenziale. Se lo vuoi studiare, devi venire a Teheran». Inclinò la testa. «Potremmo rientrare insieme. Che ne dici?».

    Tomás scoppiò a ridere di gusto, alzando il palmo della mano come fanno i vigili quando vogliono fermare il traffico.

    «Calma, rallenta. Primo, non sono sicuro di potere accettare il lavoro. In fondo sono a servizio della Fondazione Gulbenkian. Oltretutto ho degli impegni da onorare a Lisbona. Le lezioni…».

    «Centomila euro», lo interruppe Ariana in modo brusco. «Siamo disposti a pagarti centomila euro».

    Lo storico esitò.

    «Centomila euro?»

    «Sì, oltre alle spese, naturalmente».

    «Per quanto dovrei impegnarmi?»

    «Il tempo necessario».

    «Vale a dire? Una settimana?»

    «Un paio di mesi».

    «Un paio di mesi?». Si fece pensieroso. «Mmm… non so se posso».

    «Perché? La Fondazione Gulbenkian e l’università ti pagano di più?»

    «No, non è quello. Il problema è che ho preso degli impegni… insomma, non posso mollare tutto così su due piedi. Mi capisci, vero?».

    Ariana si sporse in avanti, fissandolo con i suoi occhi color del miele.

    «Professore, centomila euro sono tanti soldi. E noi abbiamo intenzione di pagarti centomila euro al mese più le spese».

    «Al mese?»

    «Al mese», confermò lei. «Se lavorerai per noi due mesi, ti pagheremo duecentomila euro e così via».

    Tomás considerò l’offerta. Centomila euro al mese significava più di tremila euro al giorno, cioè avrebbe guadagnato in un giorno più di quanto guadagnava in un mese, lavorando all’università. Come mai stava esitando? Lo storico sorrise, allungando il braccio sopra il tavolo.

    «Affare fatto».

    Si strinsero le mani per sigillare l’accordo.

    «Perfetto, andremo direttamente a Teheran», concluse lei.

    «Be’, questo non è possibile», dichiarò lo storico. «Devo rientrare a Lisbona per sistemare delle cose».

    «Abbiamo urgentemente bisogno che ti metta al lavoro, professore. Ti pagheremo molto, non dovresti preoccuparti delle quisquilie».

    «Senti, devo presentare una relazione alla Gulbenkian in merito alla riunione con il Museo Egizio e, inoltre, devo sistemare un paio di questioni all’università. Mancano solo quattro lezioni alla fine del semestre e devo trovare qualcuno che mi sostituisca. A quel punto sarò pronto a raggiungerti a Teheran».

    L’iraniana sospirò spazientita.

    «Quanto ci vorrà?»

    «Una settimana».

    Ariana scosse la testa, valutando la situazione.

    «Mmm, d’accordo. Penso che riusciremo a fare a meno di te per sette giorni».

    Tomás tornò a fissare la fotocopia, analizzando il titolo.

    «Come siete entrati in possesso di questo manoscritto?»

    «Non sono autorizzata a rivelartelo. È una cosa che non ti riguarda».

    «Ah, d’accordo. Immagino, però, che tu possa dirmi di che tratta questo inedito di Einstein».

    Ariana scosse la testa, emettendo un sospiro.

    «Sfortunatamente, non posso rivelarti nemmeno questo».

    «Non mi dire che è confidenziale».

    «Ovvio che lo è. Ogni cosa che riguarda questo progetto è confidenziale, chiaro? A ogni modo si dà il caso, per incredibile che sia, che non siamo riusciti a capire cosa ci sia scritto».

    «In che senso?». Tomás parve sorpreso. «Qual è il problema? Non avete nessuno che conosca il tedesco?»

    «Il problema è che, in parte, il documento non è stato scritto in tedesco».

    «Ah no?»

    «No».

    «Quindi?»

    «Senti, quello che sto per dirti è strettamente confidenziale, chiaro?»

    «Sì, l’ho capito. Sei particolarmente insistente su questo punto».

    Ariana respirò a fondo.

    «Quasi tutto il manoscritto è stato redatto da Einstein stesso in tedesco, tranne una piccola parte che, per motivi che ancora non ci sono chiari, è stata cifrata. I nostri esperti in criptoanalisi hanno lavorato a lungo, ma alla fine si sono arresi senza riuscire a decifrare il brano, che pare scritto in una lingua che non è né tedesco né inglese».

    «Magari si tratta di ebraico?».

    L’iraniana scosse la testa.

    «No, Einstein lo parlava male. Ne conosceva i rudimenti, ma non lo dominava. Per questo ha evitato il Bar-Mitzwa».

    «Quindi di che lingua si tratta?»

    «Abbiamo motivo di credere che si tratti di un idioma ben preciso».

    «Quale?»

    «Il portoghese».

    Tomás spalancò la bocca, il viso si contrasse in una smorfia di assoluta incredulità e perplessità.

    «Portoghese?»

    «Sì».

    «Ma… ma Einstein parlava portoghese?»

    «Naturalmente no», sorrise Ariana. «Pensiamo che sia stato un suo collaboratore a redigere e cifrare quel breve estratto».

    «Come mai? A che pro?»

    «I motivi non ci sono chiari. Può darsi che abbia a che vedere con l’importanza del testo».

    Tomás si sfregò gli occhi come se avesse bisogno di una pausa, di prendersi del tempo per riorganizzare i pensieri e dare un senso alle parole della sua interlocutrice.

    «Aspetta un attimo, fermati», la pregò. «C’è una cosa che non capisco. Stiamo parlando, sì o no, di un inedito di Einstein?»

    «Sì, ovvio».

    «Cioè è stato redatto da Einstein?»

    «È stato quasi interamente scritto da Einstein in persona, sì, ma per qualche ignota ragione la parte essenziale del testo è stata compilata in un’altra lingua e cifrata». Ariana parlò lentamente come se in quel modo potesse farsi comprendere meglio. «Dopo avere analizzato il brano cifrato ed essendo a conoscenza della storia del manoscritto, i nostri criptoanalisti hanno concluso che la lingua dell’estratto in questione è, con ogni probabilità, portoghese».

    Tomás fece di sì con il capo, lo sguardo perso nel vuoto.

    «Ah», mormorò, «quindi è per questo che avete bisogno di me».

    «Sì». Ariana aprì le braccia in segno di resa. «Se la lingua del testo cifrato è davvero il portoghese, è ovvio che abbiamo bisogno di un criptoanalista portoghese, no?».

    Lo storico prese di nuovo in mano la fotocopia con la prima pagina del manoscritto per esaminarla ancora una volta. Osservò il titolo scritto in stampatello, die gottesformel, e sotto il poema dattilografato. Puntò con il dito quei versi, guardando Ariana.

    «Che cos’è questo?»

    «Un poema qualsiasi». L’iraniana inarcò il sopracciglio. «È l’unica cosa che sia stata scritta in inglese, al di là di una strana riga posta prima del brano cifrato. Il resto del documento è in tedesco. Lo parli?».

    Tomás rise.

    «Mia cara, parlo portoghese, spagnolo, inglese, francese e conosco il latino, il greco e il copto. Sto imparando l’ebraico e l’aramaico ma, sfortunatamente no, non parlo il tedesco in modo soddisfacente. Ho solo una spolverata di base».

    «Be’», disse lei, «è esattamente ciò che ho scoperto quando ho indagato su di te».

    «Ti sei data da fare, eh?»

    «Diciamo che mi sono informata sulla persona da contattare».

    Il portoghese posò per l’ennesima volta lo sguardo sulla fotocopia, focalizzandosi sul titolo.

    «Die Gottesformel», lesse. «Che cos’è?»

    «È il titolo del manoscritto».

    Tomás scoppiò a ridere.

    «Ti ringrazio!», esclamò con un’espressione sarcastica negli occhi. «Fino a lì c’ero arrivato anch’io. Non so che cosa voglia dire in tedesco».

    «Die Gottesformel

    «Sì».

    Ariana prese il suo bicchiere e sorseggiò la bevanda a base di karkadè, lasciando che il gusto delle foglie d’ibisco le addolcisse il palato. Posò l’infusione scura sul tavolo e fissò Tomás.

    «La formula di Dio».

    Capitolo ii

    La suoneria polifonica proveniente dalla tasca dei pantaloni annunciò a Tomás che qualcuno lo stava cercando al telefono. Infilò la mano e tirò fuori un piccolo apparecchio argentato. Sullo schermo apparve la scritta genitori.

    «Pronto?».

    Una voce familiare rispose all’altro capo del telefono, come se si trovasse soltanto a qualche metro di distanza.

    «Pronto? Tomás?»

    «Ciao, mamma».

    «Dove ti trovi? Sei già arrivato?»

    «Sì, oggi pomeriggio».

    «È andato bene il viaggio?»

    «Sì».

    «Ah, grazie al cielo! Lo sai che sono in ansia ogni volta che prendi l’aereo».

    «Dai, mamma, non esagerare! Al giorno d’oggi volare è una cosa perfettamente normale. Guarda che è come prendere l’autobus o il treno, solo che è più veloce e più comodo».

    «Lo so, ma è più forte di me. E poi, come se non bastasse, eri in un Paese arabo. Quelli sono tutti pazzi, passano la vita a far esplodere le cose e a uccidere la gente. È orribile. Non li vedi i notiziari?»

    «Ti prego, mamma!», rise l’uomo. «Non sono poi così cattivi. A dire il vero è gente simpatica e educata».

    «Come no! Fino alla prossima bomba».

    Tomás sospirò spazientito.

    «D’accordo, d’accordo», disse desideroso di cambiare argomento. «Il viaggio è andato bene e sono tornato a casa».

    «Per fortuna».

    «Papà come sta?».

    La madre esitò all’altro capo del telefono.

    «Tuo padre… mmm… diciamo che va».

    «Bene», replicò Tomás senza badare troppo all’esitazione. «E tu, mamma? Ti diverti ancora a navigare in internet?»

    «Più o meno».

    «Non mi dire che sei finita sui siti pornografici», la prese in giro il figlio.

    «Oh, sei sempre il solito!», protestò la madre. Si schiarì la gola. «Senti, Tomás, io e tuo padre veniamo domani a Lisbona».

    «Venite qua domani?»

    «Sì».

    «Allora pranziamo insieme».

    «Senz’altro. Partiamo alla mattina presto e, sai che andiamo piano, perciò dovremmo arrivare intorno alle undici, massimo a mezzogiorno».

    «Perfetto. Venite alla Gulbenkian all’una».

    «Alla Gulbenkian all’una? D’accordo».

    «Perché questa gita a Lisbona?».

    La madre esitò di nuovo all’altro capo del telefono.

    «Ne parliamo domani», disse infine. «Ne parliamo domani».

    L’edificio geometrico di calcestruzzo, con avvolgenti linee astratte orizzontali, pareva un non-luogo, una costruzione megalitica che emergeva dal verde, un enorme dolmen di linee rette posto sulla sommità di una collinetta erbosa. Percorrendo il vialetto di sanpietrini, Tomás osservò l’edificio con lo stesso stupore della prima volta. Gli pareva un’acropoli dei tempi moderni, un monumento geometrico, una composizione metafisica, una gigantesca roccia integrata in un bosco, a cui sembrava appartenere da sempre.

    La Fondazione Gulbenkian.

    Entrò nell’atrio con la valigetta in braccio e si diresse su per l’ampia scalinata. Le grandi vetrate, al posto delle pareti solide, permettevano all’edificio di fondersi col giardino, alla struttura artificiale di essere un tutt’uno con il paesaggio naturale, al calcestruzzo di mescolarsi con le piante. Attraversò il foyer del grande auditorio e, dopo avere bussato con delicatezza alla porta, entrò in un ufficio.

    «Buongiorno, Albertina, come sta?».

    La segretaria stava sistemando dei documenti in un armadio. Si voltò a guardarlo con un sorriso.

    «Buongiorno, professore. Già di ritorno?»

    «Come vede…».

    «È andato bene il viaggio?»

    «A meraviglia. L’ingegnere Vital c’è?»

    «È impegnato in una riunione con il personale del museo. Torna più tardi».

    Tomás rimase indeciso sul da farsi.

    «Be’, ho qui con me la relazione sul mio viaggio al Cairo. Non so bene cosa fare. Probabilmente è meglio che io torni più tardi, vero?».

    Albertina si sedette alla scrivania.

    «La lasci pure a me», suggerì lei. «Gliela do io all’ingegnere quando torna in ufficio. Se ha dei dubbi gli dico di chiamarla, va bene?».

    Lo storico aprì la valigetta e tirò fuori dei fogli pinzati con una graffetta.

    «D’accordo», rispose consegnando il plico alla segretaria. «Ecco la relazione. Mi faccia chiamare, se necessario».

    Tomás si voltò verso l’uscita, ma Albertina lo bloccò.

    «Ah, professore».

    «Sì?»

    «L’ha cercata Greg Sullivan dell’ambasciata americana. Mi ha pregato di dirle di richiamarlo quanto prima».

    Lo storico ripercorse i suoi passi fino all’ufficio, una saletta al piano terra a disposizione dei consulenti della Fondazione. Si accomodò alla scrivania e si mise a lavorare alle lezioni universitarie che gli restavano prima della fine del semestre.

    La finestra dell’ufficio si affacciava sul giardino, dove le foglie e l’erba luccicavano alla luce del sole mattutino. Chiamò un assistente al telefono e sistemò gli ultimi dettagli, assicurandogli che gli avrebbe lasciato i suoi appunti all’università. Poi, cercò nella rubrica del suo telefono il numero dell’addetto culturale dell’ambasciata americana e lo chiamò.

    «Sullivan here».

    «Ciao, Greg. Sono Tomás Noronha del Gulbenkian».

    «Hi, Tomás. Come stai?»

    «Bene, grazie. E tu?»

    «Great. Com’è andata al Cairo?»

    «Direi bene. Credo che compreremo la stele che sono andato a ispezionare. Certo, la decisione ora spetta all’amministrazione, ma ho espresso un parere positivo e le condizioni sono ottimali».

    «Non capisco che cosa ci vediate in quel vecchiume egiziano», rise l’americano. «Sono convinto che al mondo si possano comprare cose ben più interessanti».

    «Parli così perché non sei uno storico».

    «Può darsi». Cambiò tono. «Tomás, ti ho cercato perché avrei bisogno che facessi un salto all’ambasciata».

    «Ah sì? Che c’è?»

    «Si tratta di una questione… insomma, non ne posso parlare al telefono».

    «Non dirmi che ti hanno già risposto dal Getty Center. Da Los Angeles hanno approvato…».

    «No, non si tratta di questo», lo interruppe Sullivan. «È un’altra… cosa».

    «Mmm», mormorò Tomás, cercando d’indovinare il motivo di tanta segretezza. Magari il suo amico voleva parlargli del Museo Ebraico, s’immaginò. Da quando aveva iniziato a studiare l’ebraico e l’aramaico, l’addetto culturale americano lo invitava in continuazione a recarsi a New York a visitare il museo. «D’accordo. Quando sei libero?»

    «Questo pomeriggio».

    «Questo pomeriggio? Scusa, ma non so se posso. I miei genitori vengono a Lisbona e devo fare un salto all’università».

    «Tomás, dobbiamo vederci questo pomeriggio».

    «Come mai?»

    «C’è una persona venuta dagli Stati Uniti apposta per vederti».

    «Per vedermi? Di chi si tratta?»

    «Non te lo posso dire al telefono».

    «Ma dai!».

    «Non posso».

    «È Angelina Jolie?».

    Sullivan rise.

    «Gosh, sei davvero ossessionato da Angelina Jolie, vero? È già la seconda volta che me la citi…».

    «È una ragazza che possiede delle qualità… emm, apprezzabili», commentò Tomás con un sorriso. «Ma se non si tratta di Angelina Jolie, chi è che vuole incontrarmi?»

    «Lo vedrai».

    «Greg, non ho tempo da perdere. Dimmi chi è, altrimenti non mi presento all’appuntamento».

    L’addetto culturale esitò all’altro capo del telefono.

    «Okay, ti darò un indizio, ma devi promettermi che sarai

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