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Milano e i pensieri oscuri: La strana indagine del commissario Ferrazza
Milano e i pensieri oscuri: La strana indagine del commissario Ferrazza
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E-book269 pagine3 ore

Milano e i pensieri oscuri: La strana indagine del commissario Ferrazza

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Info su questo ebook

Rincasando dopo una cena con il commissario Ferrazza, l’ispettore Ceolin si trova di fronte a una scena raccapricciante: sua sorella Teresa è stata uccisa a coltellate e poi impiccata alla ringhiera di una scala a chiocciola. Teresa, che in passato aveva aderito a ideali di sinistra, negli ultimi anni era diventata militante di un movimento di estrema destra, Supremazia Italia. Ed è in questi ambienti che iniziano le indagini per individuare l’autore o l’autrice dell’atroce delitto. Al centro dell’accaduto pare ci sia la scomparsa di un malloppo di cinquecentomila euro, una somma considerevole che fa gola a tante persone, a qualunque schieramento politico appartengano. In una catena di ulteriori omicidi, di fughe e ritrovamenti, di tradimenti e di rimorsi, il coro degli innumerevoli personaggi del romanzo disegna un universo umano e sociale al limite della disgregazione, all’interno del quale i nostri investigatori si muoveranno con estrema difficoltà. Un mondo amorale e autocentrato, permeato di individualismo e di opportunismo, a stretto contatto con un’ondata migratoria che lentamente sta cambiando i connotati della città, provocando violente reazioni contrapposte. Saranno l’amore di Laura e una notizia inaspettata che consentiranno a Daniele Ferrazza di uscire dal caso senza grossi contraccolpi, mentre chi apparirà fortemente abbattuto sarà l’ispettore Ceolin, e non solo per la tragedia che l’ha indirettamente colpito. Con “Milano e i pensieri oscuri” Bastasi si sposta dal noir classico dei suoi precedenti romanzi all’esplorazione di altri territori, dove non esiste un’univoca soluzione del caso: perché qui l’ambito dell’indagine è soprattutto il lato oscuro acquattato nella mente di ciascuno di noi, che ci spinge ad azioni e comportamenti anche in netto contrasto con i nostri convincimenti razionali. Un ulteriore tassello della produzione dell’autore per una sempre maggiore comprensione della realtà che ci circonda.

Alessandro Bastasi è nato a Treviso nel 1949. A 27 anni si è trasferito a Milano, dove attualmente vive. Nel passato è stato attore e autore di numerosi articoli di argomento teatrale per riviste del settore e quotidiani. Dal 1990 al 1995 ha trascorso lunghi periodi all’estero, in particolare a Mosca tra il 1990 e il 1993. Gli avvenimenti di quegli anni - di passaggio dall’URSS alla nuova Russia - gli hanno dato materia per il suo primo romanzo La fossa comune, pubblicato nel 2008 e ambientato nella capitale russa. In seguito ha pubblicato i romanzi La gabbia criminale (2010) e Città contro (2012) con Eclissi Edizioni, La scelta di Lazzaro (2014), ebook con Meme Publishers, Era la Milano da bere (2016), Morte a San Siro (2017), Notturno metropolitano (2018) e Milano rovente (2019) con Fratelli Frilli Editori. Nel 2020 ha pubblicato una nuova versione de La scelta di Lazzaro con Divergenze Editore.
Suoi racconti sono presenti in varie antologie e siti letterari.
LinguaItaliano
Data di uscita17 set 2020
ISBN9788869434709
Milano e i pensieri oscuri: La strana indagine del commissario Ferrazza

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    Milano e i pensieri oscuri - ALESSANDRO BASTASI

    ATTO PRIMO

    Il coltello. È là, sul tavolo della cucina, un coltello da arrosto, forgiato a codolo integrale, lama da ventidue centimetri, appuntita, acciaio inox, rivetti in alluminio.

    Sul tavolo. Come la forchetta sporca, il bicchiere e la bottiglia di acqua gasata. Il piatto è invece nel lavello.

    Il tavolo con la tovaglia. La tovaglia ha quadri grandi, strisce grigie perpendicolari su sfondo bianco. Perpendicolari. Angoli retti, nessuna linea curva, cerchio, ellisse. No, curve no, le odia, le curve. Il tavolo è lì, solido, robusto, confortante. Linee rette, angoli retti.

    «Non possiamo più andare avanti così, è chiaro? Dove sono i soldi?»

    «Non so di che soldi parli.»

    Teresa è seduta sulla sedia di legno che era stata di suo padre, a gambe larghe, l’ampia camicia da notte tesa sulle ginocchia. Ha la bocca aperta, gli occhi bassi, stanchi. Muove la testa a destra e a sinistra, più volte, il collo scrocchia. Solleva il mento, guarda davanti a sé, poi in giro nella stanza.

    «Non siamo della stessa pasta, tu e io, vero?»

    «No. Proprio per questo non c’è possibilità di compromesso. Esattamente per questo. E facciamola finita.»

    Teresa si solleva dalla sedia, quasi in trance.

    Molti secondi di silenzio. Solo un ansimare forte che raschia il fondo della gola.

    «Vattene via. Mi rovini la vita. Devi sparire.»

    Silenzio.

    E sibili sempre più acuti. Guarda l’indaco delle pareti spoglie, la grande finestra spalancata sul chiarore opaco del sole al tramonto, che a fatica attraversa l’afa pesante che grava sulla città.

    Un gesto rapido, sicuro, la coglie impreparata. La coltellata la colpisce all’altezza del seno, un taglio profondo. Il sangue sgorga in fiotti abbondanti, la macchia rossa si allarga sulla lunga camicia che le copre il corpo. Ancora. E ancora. E ancora.

    Quello che non avrebbe dovuto vedere

    La testa gli scoppia, nel buio di quello che pare uno sgabuzzino. Si massaggia i polsi, doloranti, si sfiora la nuca con la mano, i capelli impiastrati, si annusa le dita. Hanno il sapore del sangue. Si solleva a sedere su un pavimento ruvido, forse cemento, poi si alza in piedi.

    Dalla fessura sotto la porta una lama sottile di luce consente agli occhi di abituarsi all’oscurità e di orientarsi nello spazio angusto nel quale lo hanno buttato. Le pareti odorano di tinteggiatura recente, le tocca, sono lisce. Si avvicina alla porta, di fianco allo stipite trova un interruttore, lo aziona, la luce fredda di una lampadina led pendente dal soffitto illumina la stanza, circa due metri per tre. Uno stendino, una lavatrice, un lavandino e un wc alla turca, tutto bianco, come i muri. Unica variante il beige di un vecchio stipo in fondo.

    Alvise Ceolin, detto ’Ndemo tosi, ispettore della Polizia Giudiziaria in forza al commissariato Città Studi, torna a toccarsi la nuca, e si guarda le dita. Sì, è sangue. Qualcuno l’ha colpito violentemente, adesso le immagini di quello che è successo, che prima apparivano come macchie grigio scuro su una tela écru, si fanno più nitide. Si avvicina alla porta, al di là si odono delle voci. Guarda l’orologio: è passata mezzanotte. Quanto tempo è rimasto privo di sensi? Meno di un’ora. No, in realtà non era stato sempre incosciente, ora comincia a realizzare come l’abbiano legato con i tiranti elastici del portapacchi, bendato, gli abbiano ficcato un fazzoletto in bocca, raccolto da terra e rinchiuso nel bagagliaio di un Suv nero. L’avevano colpito sulla testa con qualcosa, un corpo contundente durissimo, dopo che lui aveva visto quello che non avrebbe dovuto vedere.

    Il Suv ha viaggiato per circa tre quarti d’ora, l’ultimo tratto era uno sterrato, lo capiva dagli sbalzi e dal rumore di sassi che schizzavano ai lati del percorso. Il Suv alla fine si è fermato, uno spiazzo senza asperità, forse un lastricato. Braccia robuste l’hanno trascinato via e sbattuto in quel locale angusto. Ha picchiato la testa sul pavimento, per questo è svenuto. Privo di conoscenza probabilmente solo per qualche minuto.

    Appoggia l’orecchio alla porta, le parole gli arrivano ancora confuse. Tranne quelle stentoree di un uomo che pare essere il capo. Ceolin trattiene il respiro per capire cosa dicano. Intende un «… portato qui, come avevi detto tu», detto con titubanza, la bestemmia del capo e poi rumori incomprensibili e quasi un grido: «Abbiamo solo fatto fuori un negro, che sarà mai? Quello ci ha visto e l‘abbiamo steso. Cosa dovevamo fare, farci arrestare?»

    «Certo che no», ruggisce il capo. «Comunque adesso è un casino ancora più grosso, se qualcuno vi ha seguiti e se mi beccano sono cazzi. Per me ma anche per voi, state sicuri, branco di idioti. A proposito, dov’è il cellulare di ’sto tizio? Spero che qualcuno non l’abbia portato qui, ché gli stacco le orecchie a morsi.»

    «Abbiamo controllato, non ce l’aveva.»

    «Io dico che dobbiamo farlo sparire, quello, o ci porta dritti al gabbio, non c’è alternativa», interviene una voce stridula, da ragazzo.

    Silenzio per qualche secondo. Ceolin stringe i denti, le mascelle contratte. È l’inizio di agosto, le sere calano più fresche di quelle roventi di luglio di appena una settimana prima, i pori della pelle filtrano rivoli di sudore gelido lungo la schiena. O il gabbio o farlo fuori.

    «Dio cristo! È un ispettore di polizia. Alvise Ceolin…»

    Istintivamente ’Ndemo tosi porta le mani alla tasca interna della giacca. Gli hanno preso tutto, i documenti, il distintivo…

    «Ceolin… Aspetta… Quel Ceolin? Il fratello di Terry! Ecco perché era lì, è anche casa sua, quella.»

    «Minchia!»

    Voci che Ceolin non riesce a cogliere. Recepisce solo frasi isolate, «Un comunista di merda», «Facciamogliela pagare». D’improvviso il brusio si placa. Probabilmente deve pensare, il grande capo.

    «Magari sa qualcosa sulla sorella…», dice dopo un po’. «Magari sa che fine ha fatto quel famoso mezzo milione.»

    Mezzo milione? L’immagine di una tale quantità di soldi attraversa la mente di Ceolin come una ruga che scava sulla fronte. Mezzo milione….

    Dei passi si avvicinano alla porta. ’Ndemo tosi ha appena il tempo di tornare a sdraiarsi e fingere di essere ancora svenuto, che la silhouette di un uomo alto e massiccio si staglia contro la luce proveniente dalla stanza accanto. Il capo, di sicuro. Entra, ha un passamontagna che gli copre il volto.

    «Alzati, non mi fai fesso.»

    A Ceolin viene quasi da ridere. Sì, fesso è la parola giusta, pensa. «Buonasera… boss!», dice, «perché sei tu che comandi questa banda di assassini, vero?»

    Un calcio lo raggiunge alla bocca dello stomaco. «Tirati su e sentimi bene. Adesso è tardi, domani noi due faremo una bella chiacchierata, ok?»

    «Ecco, sì, il calcio sarebbe un buon argomento di conversazione, c’è la partita dell’Inter, tu per che squadra tieni?»

    L’altro non risponde, si volta e si fa strada fra tre scagnozzi, tutti incappucciati. Dalla maglietta nera e la sigla HH tatuata sul braccio, Ceolin riconosce il ragazzo che con un coltello a serramanico ha ammazzato il nero. «Coglione di uno sbirro!», mormora il capo. Gli altri gli fanno eco, mentre escono chiudendo la luce e sbattendo la porta. Rumore delle chiavi che ruotano nelle serrature, prima in una poi in quella più in basso. Una porta blindata.

    Il cerchio alla testa non accenna a diminuire. Non ce la fa a pensare, a quello che è successo questa sera, ai modi per uscirne. Ci penserà domani. In che film l’ha sentita, questa battuta? Aspira aria fino a farsi scoppiare i polmoni, in lunghi profondi respiri. Nel buio, l’immagine di Teresa impiccata alla scala a chiocciola di casa sua è lì, davanti a lui. È passato poco più di una settimana da quella sera quando, tornato dalla cena nel loft di Daniele Ferrazza, si è trovato immerso in una sceneggiatura nella quale non avrebbe mai voluto recitare.

    Come un animale appeso in macelleria

    Era l’una di notte quando Daniele Ferrazza imboccava via delle Forze Armate e, superata via Cancano, parcheggiava sulla destra della carreggiata all’altezza del Parco delle Cave.

    I lampeggianti accesi di tre auto della polizia, il buio della notte e le finestre illuminate degli appartamenti adiacenti conferivano alle quattro villette a schiera, tinteggiate di verde militare, un aspetto spettrale. Un gruppo di persone era sceso in strada, incuriosito dalla presenza nera e silenziosa dei due poliziotti che impedivano l’accesso all’abitazione dell’ispettore Ceolin e di sua sorella Teresa.

    Ferrazza scese dalla Croma, si avviò spedito verso i due agenti, mostrò il tesserino ed entrò. Trovò il suo ispettore in soggiorno al piano terra. Camminava a scatti da una parete all’altra, si fermava e sollevava la testa verso la scala a chiocciola che conduceva al piano di sopra, all’appartamento di Teresa. Il pensiero del commissario riandò alla telefonata di mezz’ora prima. Una voce soffocata che per tutto il tragitto aveva continuato a rimbombargli nel cervello.

    «Ciao, ’NdemoTosi, cos’è che rompi le balle, che è quasi mezzanotte?»

    «Commissario… Mia sorella Teresa…»

    «Cosa è successo? S’è fidanzata con il capo di Casa Pound?»

    «È morta… Impiccata. E c’è sangue dappertutto.»

    «Cazzo… Aspettami lì, non muoverti, arrivo. In via delle Forze Armate, giusto?»

    Aveva subito chiamato il commissariato di zona, si era infilato in macchina e adesso era lì, in quel soggiorno, dove tanto tempo prima lui e il suo ispettore avevano pattuito di darsi del tu e si erano aperti l’uno con l’altro, e Ferrazza aveva conosciuto per la prima volta, in quell’uomo dall’aspetto gioviale e un po’ grossolano, uno spessore umano e culturale che mai si sarebbe aspettato. Ricordava ancora una sua frase che l’aveva colpito e sulla quale aveva riflettuto a lungo: Oggi si afferra la vita come un susseguirsi di singoli istanti, ciascuno dei quali è un presente a sé, senza legami né relazioni. Non esiste il passato, non esiste il futuro, non esiste l’altro. Esisto io, qui e adesso, con la mia fragile importanza personale. Una perdita di senso che provoca le azioni e i comportamenti dissennati dei quali tu e io siamo ogni giorno testimoni.

    «Ceolin…» sussurrò.

    L’altro si bloccò, si voltò e lo guardò senza proferire parola. Il volto terreo, gli occhi infossati, vitrei, la bocca aperta, le mani dietro la schiena per bloccare il tremito che le percorreva.

    «Cosa è successo?» continuò Ferrazza. «Siediti, dai, dimmi.»

    L’ispettore alzò nuovamente lo sguardo verso la sommità della scala a chiocciola. La voce lontana, flebile, come se l’uomo fosse invecchiato all’istante di dieci anni.

    «Era lì… Un filo elettrico attorno al collo, impiccata alla ringhiera della scala. Grondante di sangue… E al piano di sopra… Un macello. Mai vista una cosa simile…»

    Ferrazza si rivolse all’agente che stazionava in disparte e domandò chi si stesse occupando del caso.

    «Di sopra c’è il commissario Briganti.»

    Salì la scala a chiocciola e si arrestò sull’ultimo gradino, le narici colpite da un odore acre come di ferro arrugginito bagnato dalla pioggia. La stanza sulla quale si affacciava non era in disordine come si sarebbe aspettato, ma colpiva come un cazzotto il brunito del sangue rappreso sul parquet, sulle pareti chiare, sul tavolo basso di vetro, sul tessuto color acquamarina del divano; e poi in cucina, sull’impiantito di gres, sui fianchi smaltati degli elettrodomestici. I tecnici della Polizia erano già al lavoro, Ferrazza dalla sommità della scala chiamò Briganti, che accorse subito, levandosi la mascherina dalla bocca.

    «Ciao Daniele… Hai visto che roba?»

    «Sì, spaventoso… Dov’è il corpo?»

    «L’hanno appena portato via.»

    «Ti sei già fatto un’idea?»

    «No, non ancora, so solo che prima è stata seviziata con un coltello da cucina, poi impiccata. Pare però che non ci sia stata alcuna effrazione, né giù di sotto né alla porta che dà sulla scala esterna, e che l’assassino avesse le ali.»

    «Perché?»

    «Non ci sono segni di lotta, come se la vittima non fosse nemmeno riuscita a difendersi, e poi… Possibile che con tutto questo sangue l’assassino non abbia lasciato alcuna impronta? Immagino che avrà calpestato il pavimento, e i gradini della scala! E invece no, nessuna traccia di suole di scarpe, nessuna impronta, nulla di nulla. Solo quelle della vittima e di suo fratello, il tuo ispettore. È assurdo!»

    Ferrazza annuì, spingendo in fuori le labbra serrate.

    «Quando è salito, preso dall’angoscia, non ci avrà pensato» disse.

    «Capisco, certo, ma mi meraviglio che il tuo uomo, un professionista con la sua esperienza, non abbia posto l’attenzione del caso.»

    L’altro si strinse nelle spalle.

    «A che ora è successo?» domandò.

    «Stando a quello che dice il medico legale, tra le sette e le otto di questa sera.»

    «Nessuno ha visto niente?»

    «È troppo presto per saperlo, dobbiamo interrogare i vicini, abbiamo chiesto al gruppetto di curiosi che staziona là fuori, ma da quelli nessuna indicazione. D’altronde siamo al trentuno di luglio, questo è un quartiere periferico, la gente o è in ferie o con questo dannato caldo se ne sta chiusa in casa con la tele e i condizionatori accesi.»

    Ferrazza abbassò il capo e annuì.

    «Dobbiamo avvertire la Procura, ci pensi tu?» disse poi, dopo un profondo respiro.

    «Sì, certo.»

    «Buona notte, allora. Ti chiedo solo di tenermi informato.»

    «Tranquillo, capisco bene. Buona notte a te.»

    Daniele scese al piano terreno, dove l’ispettore Ceolin lo stava aspettando. Un reticolo di rughe circondava gli occhi e la bocca. Andò incontro al commissario afferrandogli le braccia.

    «Si sa qualcosa?», ansimò.

    Poi lo lasciò, si voltò verso la parete, a fissare una riproduzione de L’urlo di Munch.

    «Mi hanno costretto a starmene giù, qui, come un coglione» mormorò. «Mi hanno addirittura cazziato perché ho calpestato delle tracce, te l’avranno detto, ma cristo…». Si girò di scatto verso il commissario. «Quando ho visto Teresa ridotta in quello stato, coperta di sangue, impiccata come un animale in macelleria, io ho… io… ho perso la testa, commissario, non ho vergogna a dirlo… Ho perso la testa.»

    Ferrazza lo guardò, tentando di sorridergli, ma senza riuscirci. Si schiarì la gola.

    «Ti capisco», disse, «probabilmente in una situazione simile a me sarebbe successo lo stesso. Non farti il sangue amaro.»

    Si pentì subito di quest’ultima frase.

    «Non preoccuparti», si corresse. «Anzi, se vuoi… Se vuoi dormire da me, questa notte… il divano letto non è comodissimo, ma…»

    «Dormire… E chi dorme?»

    «Be’, perlomeno non saresti solo.»

    L’altro scosse il capo.

    «No», disse, «sta’ tranquillo. Grazie, preferisco stare qui. Chissà, magari qualcosa nell’aria mi suggerisce che cosa possa essere successo, stasera, qua dentro. E non avrò pace finché non avremo trovato l’infame bastardo che ha potuto fare una barbarie simile. Guai a te se mi tieni fuori.»

    «Ok, ne riparliamo. La cosa importante, adesso, è che tu non faccia cazzate, tipo andare di sopra, camminare, toccare. Mi posso fidare?»

    La rete, il negro, la gogna e le Maldive

    La rete si scatenò. Fin dal giorno successivo. Già alle sette di mattina era comparso il primo post sul gruppo facebook del movimento Supremazia Italia.

    Un grave lutto ha colpito tutti coloro che credono e lottano per l’Italia. Terry Ceolin, la nostra militante, è stata barbaramente uccisa. Dapprima è stata accoltellata, poi, non contenti, gli assassini l’hanno impiccata facendo scempio del suo cadavere. Eccoli i buonisti, quelli che accusano Noi di istigare all’odio le masse popolari! Individui che alla fine si sono rivelati per quello che sono: degli schifosi macellai. Ma stiano certi, lor signori, che Noi non staremo con le mani in mano, per ciascuno dei Nostri Martiri la vendetta del Popolo Italiano colpirà dieci di loro. Non potrete più dormire sonni tranquilli, dovrete guardarvi alle spalle anche quando entrerete in ascensore, o nelle vostre tane rosse del sangue dei Patrioti, perché la mano del Tribunale del Popolo vi raggiungerà ovunque voi siate.

    L’utente che aveva dato il via al thread era Benito Gonzaga, un consigliere della destra di un comune della Brianza, appartenente a una delle famiglie più altolocate della zona. Uno che aveva tuonato contro Liliana Segre, uno che: Gesù non è ebreo ma figlio di Dio, uno che: Noi siamo soldati di Cristo, uno che: Un eccesso di forza è lecito se serve a difendere la Patria contro l’invasione islamica e contro i maiali che vogliono sovvertire l’Ordine Naturale delle cose, in primis la Famiglia, basata sull’unione di un uomo e di una donna.

    Nel giro di pochi minuti il post ricevette cinquecentosettanta mi piace e sessantasei commenti, tutti del medesimo tenore: Bastardi figli di puttana, meritano solo di essere impalati, Merde schifose, e via di questo passo. Un altro rincarò la dose ricordando come anni prima il marito di Terry fosse stato ammazzato da un negro con un’accetta mentre l’uomo camminava tranquillo per la strada. Spero che i negri che questi stronzi continuano a difendere se li inculino a sangue, ‘sti comunisti del cazzo, seguito da uno smile. Nessun commento di cordoglio per la vittima, se non per magnificarne le idee e la determinazione nel portarle avanti. Alla domanda di un utente che obiettava sul termine Tribunale del Popolo ricordando che anche le Brigate Rosse usavano lo stesso concetto, Benito Gonzaga replicò: "L’unico vero Tribunale del Popolo è stato istituito nella Grande Germania tra il 1934 e il 1945, ogni altro sedicente tribunale non è altro che uno squallido,

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