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Omicidi a Milano: Il commissario Ferrazza e l'ispettore Ceolin sotto attacco
Omicidi a Milano: Il commissario Ferrazza e l'ispettore Ceolin sotto attacco
Omicidi a Milano: Il commissario Ferrazza e l'ispettore Ceolin sotto attacco
E-book262 pagine3 ore

Omicidi a Milano: Il commissario Ferrazza e l'ispettore Ceolin sotto attacco

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Info su questo ebook

Non c’è pace per l’ispettore Ceolin detto ‘Ndemo tosi. A nove mesi dalla vicenda che l’ha segnato personalmente e professionalmente, la morte della sorella Teresa, una nuova bufera si sta per abbattere su di lui, fatto oggetto di accuse gravissime e, di riflesso, sul suo capo, il commissario Daniele Ferrazza, neo papà di una bimba di tre mesi, Alice. Chi ha ucciso Adelaide Rigamonti, la moglie dello stimato imprenditore che controlla il mercato dell’assistenza ai rifugiati e quello del riciclo dei rifiuti? Chi ha ucciso Gianluca De Marco, il presidente della cooperativa Siamo Umani? Un groviglio di delitti, calunnie, rapimenti, conflitti familiari, apparentemente slegati tra di loro, metterà a repentaglio la coscienza e la rispettabilità dei poliziotti del commissariato, dove per la prima volta fa la sua apparizione un personaggio singolare, Amanda Valli, la nuova vice di Ceolin, che grazie alle sue competenze informatiche conquisterà un posto al sole tra i colleghi e di fronte alla stessa Procura. Una donna “tosta”, come la definisce Ferrazza, reduce da un’esperienza traumatica che l’ha toccata nei suoi affetti più cari, un “bulldozer” che non si ferma davanti a nulla pur di portare a termine i compiti, ufficiali e non, che le vengono affidati. Il trio, coadiuvato dall’investigatore ex carabiniere Romano Montanari, si troverà a combattere contro poteri immensi e sconosciuti, il nuovo Leviathan, dirà qualcuno: Nessuno sulla terra è pari a lui/fatto per non aver paura/lo teme ogni essere più altero/egli è il re su tutte le fiere più superbe. Un nemico contro il quale il potere della legge può fare ben poco, perché esso è “oltre la legge”. È un noir, questo di Bastasi, dove è importante non tanto chiedersi “chi è l’assassino?” ma “perché? Come è possibile?”. Un romanzo che, tra le righe, racconta silenzi e solitudini cui è difficile sfuggire se l’unica cosa che sappiamo fare è rifugiarci nell’illusione delle comode mura di casa.

Alessandro Bastasi è nato a Treviso nel 1949. Laureato in fisica, a 27 anni si è trasferito a Milano, dove attualmente vive. Nel passato è stato attore e autore di numerosi articoli di argomento teatrale per riviste del settore e quotidiani. Dal 1990 al 1995 ha trascorso lunghi periodi all’estero, in particolare a Mosca tra il 1990 e il 1993. Gli avvenimenti di quegli anni – di passaggio dall’URSS alla nuova Russia – gli hanno dato materia per il suo primo romanzo La fossa comune, pubblicato nel 2008 e ambientato nella capitale russa. In seguito ha pubblicato i romanzi La gabbia criminale (2010) e Città contro (2012) con Eclissi Edizioni, La scelta di Lazzaro (2014), ebook con Meme Publishers, Era la Milano da bere (2016), Morte a San Siro (2017), Notturno metropolitano (2018), Milano rovente (2019) e Milano e i pensieri oscuri (2020) con Fratelli Frilli Editori. Nel 2020 ha pubblicato una nuova versione de La scelta di Lazzaro con Divergenze Editore. Suoi racconti sono presenti in varie antologie e siti letterari.
LinguaItaliano
Data di uscita28 gen 2022
ISBN9788869435843
Omicidi a Milano: Il commissario Ferrazza e l'ispettore Ceolin sotto attacco

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    Omicidi a Milano - ALESSANDRO BASTASI

    PARTE PRIMA

    FRAMMENTI DI VITA

    EMICRANIE

    Camminare. Da mesi, nei giorni in cui la macchina non era necessaria per ragioni di servizio, andava e tornava a piedi. Poco più di un’ora a passo normale. Camminava assorto, senza però concentrare il pensiero su un oggetto o un tema specifico. Inverno, primavera, estate, autunno. Assisteva all’avvicendarsi delle stagioni guardando gli alberi dei viali. Le braccia sottili dei rami spogli tesi su un cielo scialbo e lontano, e poi i germogli, e il verde timido delle foglie in primavera, e quello enfatico e maturo dell’estate, che diventa poi giallo e marrone per scivolare infine nella terra scura a formare con la pioggia una poltiglia grigia.

    Camminava, soffermava lo sguardo sulle fermate degli autobus e dei tram, donne e uomini accalcati l’uno appresso all’altro, in attesa del mezzo che li avrebbe portati al chiacchiericcio invadente dei figli, al bacio della persona amata, a una bevuta con gli amici, a una serata tranquilla davanti alla tele. La normale routine di chi non si poneva domande inquietanti sui tanti perché dell’esistenza.

    Il cielo si stava tingendo di amaranto quando Alvise Ceolin, detto ‘Ndemo tosi, aprì la porta di casa, posò la chiave sul mobile basso dell’ingresso, andò in soggiorno e accese la TV. Il telegiornale delle sette. Si sedette sul divano, le notizie scorrevano sullo schermo incapaci di attirare la sua attenzione. Scaramucce tra alleati di governo, le solite banalità dell’opposizione.

    Sospirò.

    Erano passati nove mesi eppure ogni sera, di ritorno a casa, in quella casa, l’ansia gli afferrava lo stomaco.

    Si alzò e andò in bagno. Lo specchio nella penombra rimandava l’immagine di un uomo anziano, molto più anziano di un anno prima. Inarcò le sopracciglia. Accese la luce. I capelli si stavano imbiancando e diradando. Si accarezzò i baffi neri e si lavò le mani.

    Qualcosa doveva pur mangiare. Un’ultima occhiata allo specchio, spense la luce e andò in cucina. Aprì il frigorifero: una confezione di prosciutto cotto e due uova. E meno di un terzo di vino bianco in una bottiglia aperta da giorni. Scosse la testa e richiuse il frigorifero.

    Tornò nella semioscurità del soggiorno, la stanza appena rischiarata dal chiarore ondivago del televisore. La pubblicità, il ritmo ossessivo di un jingle. Tolse l’audio e rimase immobile, ritto in piedi, per più di un minuto. Poi riprese la chiave, varcò la soglia d’ingresso e uscì, diretto al Carrefour di fronte, dall’altra parte della strada. Pareva che non ci fosse nulla che gli piacesse. Una scatoletta di tonno, due panini e una vaschetta di gelato. Nelle corsie incrociò solo qualche donna anziana che avanzava silenziosa appoggiandosi al carrello e un paio di ragazzi con in mano buste di affettato e una bottiglia di birra ciascuno. Alla tabaccheria di fianco prese un pacchetto di Marlboro, pagò con un cenno di saluto alla cassiera cinese, camicetta di rayon nera sulla quale spiccava un drago dorato, fissò con rabbia e compassione un vecchio che stava giocandosi la pensione a videopoker, tornò a casa, posò le scatolette e il pane sul tavolo e mise il gelato nel freezer. Rimirò un’immagine sfocata di se stesso riflessa dal metallo lucido del frigo, si guardò le mani, i piedi.

    Chi era? Cosa era? Un poliziotto. Lo era ancora, era il suo lavoro. Altri erano operai, commercianti, professionisti, attori. Lui era un poliziotto.

    Un lavoro. Non una missione, come un tempo.

    Ma lui, lui, l’uomo, cos’era? Era qualcosa di diverso dallo scorrere del tempo, scandito dal giorno e dalla notte, dal mero susseguirsi delle stagioni?

    Era ancora sangue e carne e nervi? Curiosità, impegno, progetti?

    Si sentì pesante, i muscoli molli, le braccia abbandonate sui fianchi. Avrebbe dovuto cenare ma non aveva fame. Si decise infine per la vaschetta di gelato, più per gola che per altro, la prese dal freezer e si sedette al tavolo della cucina. Mangiò di malavoglia, poi si accese una sigaretta e si buttò sul divano del soggiorno, attivando l’audio del televisore. Il telegiornale regionale stava riferendo delle cariche della polizia contro gli operai di un’azienda che di lì a poco avrebbe chiuso i battenti per trasferire la produzione in Polonia. Poco prima un presidio istituito dai lavoratori era stato aggredito da un gruppo di guardie private con bastoni e teaser, causando il ferimento grave di un anziano dipendente della ditta. Non contento, il padrone aveva chiesto l’intervento della forza pubblica che era prontamente giunta sul luogo degli scontri.

    L’immagine dello stabilimento, il logo dell’azienda e le dichiarazioni furibonde del proprietario ebbero improvvisamente il potere di scuoterlo.

    Il Cementificio Cazzaniga.

    E quello era il commendator Cazzaniga, titolare di almeno dieci imprese operanti nel settore della cantieristica edile e stradale, il padre di Antonello Cazzaniga detto il Cobra, il neonazista, capo del movimento Supremazia Italia, condannato nel processo di primo grado per aver ucciso un carabiniere e sequestrato un ispettore di polizia: proprio lui, Alvise Ceolin¹. Aveva ottenuto gli arresti domiciliari, l’omicidio era stato derubricato a preterintenzionale, il sequestro attribuito all’opera di un balordo del gruppo, le responsabilità del Cobra ridotte al minimo dall’agguerrito collegio della difesa. Il ricordo di nove mesi prima, di quell’inizio di agosto dell’anno precedente, si manifestò violento nella mente di ’Ndemo tosi. Spense la TV e si stese sul divano, a occhi chiusi, pensando con rabbia al fango che aveva subito sui social da parte di quella gente.

    Se quel nazistello da operetta pensa che gli renderò i soldi, si sbaglia di grosso, capito, figlio di puttana?

    Dopo alcuni minuti riaprì gli occhi e lo sguardo cadde meccanicamente sulla scala a chiocciola che conduceva al piano di sopra. Sembrava che lo chiamasse, volesse sentire il rumore dei suoi passi sui gradini di metallo, uno dopo l’altro, fino ad arrivare all’appartamento che era stato di sua sorella Teresa, adesso vuoto e silenzioso.

    Si sollevò dal divano, l’osso del collo scricchiolò. Poi, di scatto, avanzò verso la scala e salì di sopra, due scalini alla volta. Lo accolse un silenzio denso, fastidioso, che opprimeva i timpani. I muri rimandavano l’odore stantio di chiuso, come quello delle case dei vecchi, un odore di minestrone riscaldato misto a un vago sentore di urina. I mobili parevano fissarlo, le chiazze di sangue scomparse, anche se lui ne avrebbe potuto disegnare i contorni tant’erano chiare e distinte nella mente.

    La conclusione dell’indagine sulla morte di Teresa l’aveva tramortito. Il patto, non detto esplicitamente, con il commissario Ferrazza era stato di non parlarne più, anche se adesso il caso era allo studio di psicologi e psichiatri di mezzo mondo. Ma tutte le volte che vedeva quel sangue, e sua sorella appesa per il collo alla ringhiera di quella maledetta scala, i dubbi che da mesi l’assillavano e l’ansia che gli procuravano irrompevano inarrestabili nei meandri della psiche e nel sangue e nei muscoli, tanto da doversi sedere, ovunque si trovasse, fino a che il tremito che percorreva le mani e le gambe non regredisse a una quasi normale spossatezza accompagnata da un dolore pulsante nella regione frontotemporale della testa. Ed era ciò che stava accadendo anche in quel momento. Riconobbe i sintomi, il senso di nausea, lo sfarfallio luminoso e colorato che gli ruotava intorno. Scese di corsa la scala, i passi rimbombanti sui gradini, arrancò fino al bagno e vomitò.

    Respirando a fondo, tornò in cucina. La testa gli doleva come se fosse trafitta da una miriade di spilli. Si versò un bicchiere d’acqua che tracannò tutto d’un fiato.

    Doveva prendere una decisione prima che, con i mezzi e le conoscenze sulle quali quel bastardo poteva contare, i soldi finissero nelle grinfie di quel gruppo di estremisti nazi. E l’idea dell’avvocato Gemelli per utilizzare quella somma di denaro alla luce del sole stava finalmente arrivando a compimento.

    Dette un’occhiata all’orologio. Probabilmente Daniele Ferrazza, il suo commissario, stava cenando in famiglia. L’avrebbe chiamato più tardi. Sperando che il mal di testa passasse alla svelta.

    UNA QUESTIONE DI SOLDI

    A quella stessa ora Daniele Ferrazza era alle prese con la cena da preparare e la tavola da apparecchiare. Michele, dalla sua stanza, stava protestando perché aveva fame. Normale per un bambino di otto anni appena tornato dagli allenamenti della squadra under dieci di calcio.

    «Hai finito i compiti?», gli domandò la mamma dalla camera dove stava allattando Alice.

    «Cosa?», gridò il bambino.

    Laura ripeté la domanda ad alta voce.

    «Sì, li ho finiti, quando si mangia?»

    «Chiedi a Daniele.»

    Daniele proruppe in un’imprecazione, lei si affacciò sulla soglia, con la bambina in braccio.

    «Che c’è? Ti ha solo chiesto quando si mangia.»

    «Ma no, è che mi sono scottato.»

    Lei corrugò la fronte, un sorriso ironico le allargò il viso.

    «Hai fatto?»

    «Cosa… Ho dovuto apparecchiare, l’acqua comunque è sul fuoco.»

    «E le braciole? Cos’è, le fai dopo? Dai, prendi la bambina, faccio io. Marò, ’sti uomini!»

    Daniele la fissò, corrucciato. Lei sospirò e gli mise Alice tra le braccia. Lui andò a sedersi sul divano e accese la TV. Alice lo fissava incuriosita, o almeno così sembrava.

    «Ma guarda, quel figlio di puttana!» esclamò d’un tratto lui. La bimba cominciò a strillare. Michele uscì dalla sua stanza. «Hai detto puttana, hai detto puttana!». Rideva, indicando il compagno di sua madre.

    «Non davanti al bambino!», gridò Laura dalla cucina.

    «Ma hai visto chi c’è? Il padre di quel nazista, quel bullo che rompe le scatole a Ceolin per i famosi cinquecentomila euro, ti ricordi?»

    «Certo che mi ricordo.»

    Cinquecentomila euro. Quelli trovati in contanti nella cassetta di sicurezza del Banco dell’Alta Brianza intestata a Teresa, la sorella morta dell’ispettore. Denaro reclamato dal movimento di estrema destra Supremazia Italia, fondato da Antonello Cazzaniga, figlio dell’industriale che adesso delocalizzava la produzione in Polonia. Il frutto di erogazioni occulte da parte di industriali e finanzieri poco entusiasti delle pastoie della cosiddetta democrazia. Gente che non vedeva l’ora di poter contare su un governo forte e autoritario che mettesse fine al quotidiano teatrino della politica e prendesse in mano saldamente le redini del potere.

    Quel denaro ufficialmente non esisteva. Supremazia Italia però non demordeva: erano soldi versati dai finanziatori del movimento, pecunia che Cazzaniga aveva affidato a Teresa Ceolin, la tesoriera del gruppo². Adesso, dopo la morte della donna, erano nella disponibilità di suo fratello Alvise, il quale, notoriamente, non aveva alcuna simpatia per la destra parlamentare, e figurarsi per un movimento neonazista! Con Ferrazza, l’ispettore ne aveva discusso a lungo: la sua decisione era ferrea, mai e poi mai avrebbe ceduto, non avrebbe mai consentito che quel denaro tornasse nelle mani di un gruppo di scalmanati dalla testa rasata come Supremazia Italia. Il quale, d’altro canto, forse all’insaputa dello stesso Cobra, era passato all’attacco attraverso un suo scagnozzo, un tizio che imperversava su Facebook, su Instagram e su Twitter, uno dei cosiddetti influencer, Federico Bonafede, un ometto smilzo e senza scrupoli, che guadagnava un sacco di soldi come Social Media Strategist di un noto esponente politico di estrema destra.

    Succede che un movimento politico di recente costituzione sia riuscito a raccogliere, tra i simpatizzanti benestanti, una ragguardevole cifra. Succede che l’intero ammontare sia stato affidato a un’aderente del movimento che, giustamente, lo mette al sicuro in una cassetta di sicurezza. Succede che questa signora muoia in circostanze non del tutto chiarite, e che l’unico erede, suo fratello, un poliziotto di fede politica sinistrorsa, non intenda restituire il denaro ai legittimi proprietari. Ora, qualunque cosa si pensi delle idee di quel movimento politico, ci sembra surreale l’atteggiamento di tal signore, un comportamento al di sotto di qualunque valutazione etica e legale. E i suoi superiori un pensierino nei confronti del personaggio in questione forse dovrebbero farlo senza perdere troppo tempo.

    Il Cobra, raggiunto telefonicamente dai giornalisti sulle affermazioni di Bonafede, smentì la notizia. Il motivo era semplice: i finanziatori del movimento non avevano la minima intenzione di uscire dall’anonimato e, se si fosse istruito un processo, quei nomi sarebbero comparsi sui giornali. In realtà pure Supremazia Italia non aveva interesse a portare Ceolin in tribunale, in quanto sarebbero potuti emergere flussi di denaro che preferiva – come dire – tenere riservati.

    Laura tornò in soggiorno. Aveva finito di cenare ed era andata a mettere a nanna la bambina, lasciando a Daniele il compito di sparecchiare. Michele era in camera sua, doveva studiare un capitolo di storia, il giorno successivo avrebbe avuto l’interrogazione sugli egiziani. La mamma l’aveva rimproverato perché se n’era dimenticato. Sempre all’ultimo momento ti ricordi che ti devi preparare, eh?, gli aveva detto. Il bambino aveva otto anni, e lei sperava che, soprattutto adesso, con una bambina di tre mesi da accudire, sarebbe diventato più autonomo. Ma forse era proprio la presenza di Alice a suscitare in lui un bisogno di maggiore attenzione. All’inizio pareva che avesse preso bene la nascita di quella che lui continuava a chiamare la mia sorellina, ma una sorta di gelosia inconscia stava evidentemente crescendo dentro di lui.

    In soggiorno Laura trovò Daniele che stava sfogliando un quotidiano sul tablet.

    «Dorme?», domandò.

    «Sì, per fortuna.»

    Lui posò il tablet. Laura gli si sedette accanto sul divano. «Come sta Ceolin?»

    Tutte le sere glielo chiedeva. Lui sollevò le spalle.

    «Apparentemente bene. Lavora con il solito impegno, però non è più lo stesso di prima. Sono passati nove mesi, ma lo vedo sempre ombroso. Non sorride più, proprio lui che…»

    «Non dovrebbe più vivere in quella casa», lo interruppe Laura. «Così solo, dopo tutto quello che è successo. Me lo immagino, la sera, al buio…»

    Lo smartphone del commissario si accese. Un messaggio proprio di Ceolin: Daniele, posso disturbarti?.

    Certo, rispose lui.

    Dopo un po’ la soneria prese a trillare.

    «Ciao Alvise, stavamo parlando proprio di te. Tutto bene?»

    «Sì, a parte la solita emicrania. Ma ormai ci ho fatto l’abitudine. Voi, tutto bene? La bimba?»

    «Dorme tranquilla. Dimmi tutto, che succede?»

    «Succede che sto sempre pensando a quei maledetti soldi. Soprattutto quando vedo alla tele il nostro caro commendator Cazzaniga, degno padre di tale figlio, e le schifezze che combina.»

    «Sì, ho visto anch’io. Una vera merda.»

    «Ecco, appunto. E, prima che un gruppo di nazisti ci metta le mani sopra, voglio disfarmi in fretta, subito, di quel denaro.»

    Daniele corrugò la fronte, guardando Laura.

    «Ti spiace se metto in viva voce? C’è qui anche Laura.»

    «Nessun problema, anzi. Vorrei consigliarmi con qualcuno, magari a lei vengono delle idee. Pensavo a qualcosa tipo Emergency, o Medici Senza Frontiere.»

    «Mi sembra un’ottima idea. Ma sei sicuro di poterlo fare? Quei soldi… La Finanza vorrà saperne di più sul come e sul perché, non credo che… Insomma, dovresti sentire un giudice.»

    «Erano nella cassetta di sicurezza di mia sorella…»

    «Già, ma lei come li ha avuti? Ufficialmente, dico.»

    «Be’ con l’avvocato Gemelli abbiamo risolto la situazione!»

    «Se non ricordo male proprio lui ti aveva consigliato di non muoverti, giusto? Cosa avete fatto?»

    «Un mese fa il governo ha approvato un condono. Loro lo chiamano in un altro modo, ma un condono è un condono. E su suggerimento di Gemelli ho fatto domanda anch’io. Ho comunicato al Fisco che non conoscevo l’origine di quei soldi, che probabilmente erano risparmi di mia sorella, o un’eredità del marito che lei non aveva dichiarato, e insomma, pagando il dovuto, adesso quei soldi escono all’aperto. D’altronde non sarei il primo… E se l’han fatto fior di politici penso di poterlo fare anch’io, no?»

    «Ah… Non mi avevi informato.»

    «Scusami… So che non apprezzi tanto questa storia dei condoni, e figurati io, ma non c’era altro modo.»

    Laura fece un cenno, aveva qualcosa da dire.

    «Alvise, perché non parli con mio padre? Magari può darti qualche suggerimento, noi non è che siamo molto addentro in queste cose. So che sta scrivendo un articolo proprio sul tema delle cooperative sociali.»

    «A me sta bene. Ditemi voi quando.»

    «Dai, lo sento e ti richiamo.»

    «Grazie. A più tardi, allora.»

    «Sì, tranquillo.»

    Daniele chiuse la comunicazione e scosse la testa.

    «Non vorrei che si mettesse nei guai.»

    «Perché?»

    «Ti ricordi dell’aggressione che ha subito qualche mese fa?»

    «Sì che mi ricordo. Finita con l’uccisione di due sudamericani.»

    «E chi c’era dietro secondo te?»

    Laura strinse le labbra e sospirò.

    «Il Cobra, dici? Ma se è ai domiciliari come ha fatto a…»

    «Con i soldi e le conoscenze di suo padre tutto può accadere. E, sai, finché il denaro è chiuso nel caveau di una banca, quell’animale non ha interesse a far sparire Ceolin, ma se, come dire, si volatilizzassero, non è difficile immaginare quale sarebbe la sua reazione. Anche dai domiciliari.»

    Lei assentì muovendo lentamente il capo. Poi disse:

    «Vabbè, comunque sentiamo mio padre. Qualcosa ci dirà anche lui.»

    I TOTALI, IN FONDO A DESTRA

    Gianluca De Marco si svegliò all’alba, perché stava arrivando un pullmino con undici persone, provenienti dal CARA (Centro di Accoglienza dei Richiedenti Asilo) di Castelnuovo di Porto. Il gommone era arrivato avventurosamente sulle coste della Sicilia con quarantadue migranti originari del Sudan e della Nigeria, fuggiti da feroci guerre civili: in Sudan, nel Darfur, da due decenni era in corso un violento conflitto tra gruppi armati e milizie filo-governative, mentre la Nigeria era teatro delle scorrerie del gruppo terroristico Boko Haram che nell’ultimo anno aveva causato più di cinquemila vittime.

    Gianluca, con la sua Cooperativa sociale Siamo Umani, gestiva un Centro SPRAR per i richiedenti asilo in collaborazione con il Comune di Milano in zona Rubattino, nello spazio che un tempo era occupato dagli stabilimenti dell’Innocenti. Altre undici persone! Dove le avrebbe messe? Le stanze erano già tutte occupate al di là della capienza, e qualcuno degli ospiti cominciava a mugugnare. D’altronde mai avrebbe voluto lasciarli in balia di se stessi e della criminalità, quindi doveva darsi da fare. Si levò dal letto facendo attenzione a non svegliare Martina, che si era girata verso di lui con gli occhi chiusi e un vago sorriso sulle labbra. Le posò un bacio lieve sulla guancia, ripensando alla discussione della sera precedente. Le aveva fatto ascoltare la registrazione di un colloquio avuto giorni prima con un paio di scagnozzi

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