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Istruzioni per l'USA
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E-book143 pagine2 ore

Istruzioni per l'USA

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L'America è una strada che si dipana all'infinito e che cambia continuamente, un bersaglio in costante movimento. A raccontare questa America lo fa Seba Pezzani, traduttore dei maggiori autori americani contemporanei di thriller e noir, da William Ferris a Clive Cussler, da Jeffery Deaver a Joe R. Lansdale. E lo fa on the road, con la sua rock band, gli RAB4, in tournée per tutti gli Stati Uniti. Un'America cominciata a raccontare in Americrazy, il libro nato per gioco nel 2013 all'indomani del primo viaggio americano della band. È un'America, la sua, profonda, per certi versi inedita, l'America dei locali alternativi, dei motel, dei piccoli centri, degli amish e di tante altre particolarità, con una guida d'eccezione in questo viaggio, durante il quale presterà alla RAB4 anche la sua voce di cantante Kasey Lansdale, la figlia del mitico Joe.
LinguaItaliano
Data di uscita9 mag 2016
ISBN9788897264750
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    Anteprima del libro

    Istruzioni per l'USA - Seba Pezzani

    Sandman!

    Un bersaglio in movimento

    L’America è una strada che si dipana all’infinito e che cambia continuamente, un bersaglio in costante movimento. Adegua la velocità, Seba. È quello il trucco. Parola di James Sallis, autore di Drive, fortunato romanzo da cui Nicolas Winding Refn ha tratto l’omonimo film che a Cannes si è aggiudicato il premio per la miglior regia.

    È il miglior consiglio che mi si potesse dare quando ho deciso di concedere un seguito ideale ad Americrazy, un libro nato per gioco nel 2013, all’indomani del primo viaggio americano dei RAB4, la rock band di cui faccio gustosamente parte. Nato come riflessione sulla vita on the road di una band in giro per gli Stati Uniti, Istruzioni per l’USA tenta nuovamente di raccontare l’America attraverso le parole e le sensazioni di chi, come me, si nutre di pane e cultura pop americana dall’infanzia. Non ho la minima presunzione di raccontare la vera America, bensì solo di raccogliere qua e là qualche riflessione che spero non faccia storcere troppe bocche. In fondo, lo stesso James Sallis, nativo dell’Arkansas, profondo Sud, ha deciso di raccontare il suo paese trasferendosi in quello che, a suo dire, è uno dei posti più anonimi, immateriali e a-geografici degli Stati Uniti: un quartiere borghese dell’area metropolitana di Phoenix, Arizona, dove non succede mai nulla. Mi immedesimo quasi perfettamente in Sallis, fine poeta, romanziere, traduttore e pure musicista: quel nulla è un contenitore capiente, un contenitore dal quale Sallis pesca le storie di Lew Griffin, ambientate in Louisiana, e quelle di John Turner, che si svolgono in Tennessee, collocazione più vicina al nativo Arkansas.

    Per introdurre al meglio questa mia nuova avventura letteraria, ho chiesto conforto e aiuto a diversi amici americani che della scrittura hanno fatto, a vario titolo, una ragione di vita. È a loro, oltre che alla mia famiglia, ai miei amici e all’universo culturale americano, che devo tutto ciò che oggi sono.

    Chiedere a un autore americano di santificare in qualche modo ciò che sto tentando di fare mi espone al rischio di omologare ciò che faccio a una sorta di mainstream della narrazione. Per questo, ho chiesto un parere a Dale Furutani, scrittore nippo-americano che, a suo tempo e a suo modo, ha sperimentato quanto possa essere difficile scrivere di un mondo quando si tengono i piedi su due diverse sponde di un oceano. La famiglia di Dale fece rotta su un barcone dal Giappone alle Hawaii, dove si stabilì nel 1896. Dale, rimasto orfano, venne adottato giovanissimo da una coppia americana e, di fatto, è americanissimo. Ma ha i tratti somatici e un retaggio assolutamente giapponesi e hawaiani. I suoi romanzi sono ambientati in Giappone, all’epoca degli Shogun, oppure in California, ai giorni nostri. "Da quando Alexis de Tocqueville osservò l’America dai finestrini di una diligenza, a metà dell’Ottocento, il viaggio è per eccellenza il modo per analizzare gli Stati Uniti. Seba Pezzani è un acuto osservatore della vita americana. La sua sensibilità italiana si combina con la capacità di raccontare i più iconici road trip americani, vagabondando per gli Stati Uniti insieme alla sua band."

    Ancora una volta, mi trovo a scrivere queste righe mentre negli USA è in corso un serrato dibattito sull’esigenza di limitare la libera circolazione delle armi da fuoco nel paese. Si tratta di una questione annosa che, malgrado gli attuali sforzi del presidente Barak Obama, temo non verrà risolta. Anzi, sono convinto che la presa di posizione del candidato democratico – di chiunque si tratti – alle prossime presidenziali sul tema delle armi da fuoco possa pregiudicarne non poco la campagna. Negli Stati Uniti vige un appoggio trasversale, davvero bipartisan, a questo diritto sancito dal secondo emendamento della Costituzione. Una stronzata solenne, se volete sapere come la penso, senza se e senza ma. L’emendamento in questione fu concepito, scritto e approvato agli albori della federazione, in un mondo che oggi non esiste più e in condizioni che oggi sono retaggio di quella che ormai è preistoria. Eppure, schiere di politici e milioni di americani ne rivendicano tuttora l’inviolabilità. Non basterebbe un libro intero – e non sono bastate migliaia di morti – per scalfire solo la superficie della questione.

    Ma è bene partire sempre dai fatti. Nel 2015, negli USA la polizia ha ucciso più di mille persone. Un numero che fa venire i brividi. Ed è ben noto quanto sia attuale il tema della facilità con cui la polizia spara e, ancor più, il fatto che a cadere sotto il fuoco della polizia siano soprattutto esponenti delle minoranze etniche, in particolare di quella afroamericana. Sul finire del 2015, per esempio, a Chicago la polizia è intervenuta per riportare tranquillità in una normale abitazione, finendo per uccidere il giovane squilibrato che stava creando scompiglio e una sua vicina di casa, il cui unico torto è stato aprire la porta nel momento sbagliato. Un fatto di per sé isolato, non fosse che i poliziotti sono costantemente con i nervi a fior di pelle, ben sapendo che in qualsiasi momento potrebbero trovarsi alle prese con persone armate, pronte a far fuoco. Non è per nulla un rischio ipotetico. È la realtà quotidiana e, in effetti, in quelle rare occasioni in cui mi sia capitato di essere fermato dalla polizia stradale, ho avvertito un certo disagio e mi sono imposto di non fare movimenti bruschi. E si provi pure a pensare al numero delle vittime di sparatorie fra gang, omicidi passionali, eccetera. Numeri da far impallidire. Ma la NRA, la National Rifle Association, potente lobby dei produttori d’armi, continua a insistere sulla inviolabilità del secondo emendamento e sulla assoluta necessità del cittadino americano di difendersi. E, quando qualche osservatore dice che quelle stesse armi spesso finiscono nelle mani di psicopatici o persone, comunque, psicolabili, un comunicato stampa dell’NRA ribatte che il problema non sussiste e che bastano dei controlli a monte. Nel frattempo, pazienza se un pazzo decide di farsi giustizia degli sberleffi subiti tra i banchi di scuola o di vendicarsi di un torto subito sul posto di lavoro. Pazienza se una pallottola vagante colpisce un innocente. Perché sono proprio quelle a mietere più vittime. Sono vittime di guerra da mettere in conto? Il conto, naturalmente, andrebbe inviato proprio alla NRA. Qualche giorno fa, ho scoperto che un parroco italiano ha chiesto ai fedeli di portare in chiesa le armi giocattolo dei loro figli e le ha distrutte. La sua iniziativa, a quanto sembra, ha riscosso discreto successo. Dice che è un messaggio che va lontano. I roghi pubblici non mi sono mai piaciuti, ma, per una volta, potrei cambiare parere.

    La popolazione americana teme il proprio governo e si arma per sventare potenziali minacce messe in atto dallo stesso, eppure crede ciecamente ai propri rappresentanti quando le dicono che il paese deve entrare in guerra. Non è un paradosso? Già, non certo l’unico. Su Facebook circola una foto di Ronald Reagan, con una didascalia che grosso modo recita, Malgrado sia stato colpito dalla pallottola di un attentatore, lui non ha fatto nulla per togliere al popolo americano il diritto di difendersi. Il potere della propaganda e la cecità – anzi, mi verrebbe da dire, l’idiozia – della gente sembrano non avere limite alcuno.

    È dei primi giorni del 2016 un nuovo dibattito nazionale sulla libera circolazione delle armi, un dibattito che a tratti ha assunto le sembianze di un vero e proprio scontro aperto tra il presidente Obama e il Congresso. Mentre Obama cerca di frenare la diffusione sempre più vasta delle armi da fuoco, in Texas viene promulgata una legge statale per il cosiddetto Open Carry, la possibilità di portare un’arma, mostrandola apertamente in pubblico. Non trovo nulla di particolarmente eclatante e scandaloso in questo provvedimento, considerato il contesto in cui si va ad inserire. La riflessione terra terra è la seguente: meglio rischiare un alterco con una persona che potrebbe avere con sé un’arma nascosta oppure evitare qualsiasi problema sapendo che il nostro interlocutore possiede un’arma e ne fa pubblica mostra? Già, questione di ego. Il che, in fondo, è uno dei peccati originali dell’uomo. Non solo dell’uomo, pure della donna.

    Chi cerca risposte a simili interrogativi non ne troverà nella pagine di questo libro. Semmai, si imbatterà in ulteriori domande, in situazioni che complicheranno il quadro. Ma, come recita una splendida canzone di John Hiatt, Train to Birmingham, I never get to Birmingham, but getting there is not the plan (Non raggiungo mai Birmingham, ma l’intenzione non è quella di arrivarci). Quello che conta è il viaggio, la ricerca, la riflessione.

    A proposito di strada e di armi. L’espressione road rage la dice lunga: furia stradale, una situazione talmente deprecabile, frequente e temuta da spingere il popolo americano a coniare un’espressione ad hoc. Non che da noi non si verifichino liti tra automobilisti. Giusto qualche giorno fa, ho assistito a un battibecco molto vivace proprio nella sonnolenta Fidenza, con due automobilisti che, dopo uno scambio di vaffa dalle rispettive auto e gesti inequivocabili che invitavano l’un l’altro ad andare al diavolo, hanno fermato le rispettive vetture praticamente in mezzo alla strada, sono smontati e hanno finito di apostrofarsi, giungendo quasi alle vie di fatto. Quel quasi, forse, potete toglierlo, perché altro non sono riuscito a vedere nello specchietto della mia auto in allontanamento, se non l’inizio degli spintoni rituali. E, dicevo, il rischio che dai vaffa si passi alle armi da fuoco negli USA è un evento niente affatto raro. Un conoscente di miei amici texani, per esempio, alcuni anni fa fu coinvolto in una lite per una banale precedenza e finì in ospedale in gravissime condizioni quando il suo simpatico interlocutore sfilò la pistola dal vano portaoggetti e gli sparò. E fortuna che qui in Italia portarsi appresso una pistola è un po’ più complicato perché, altrimenti, sarebbe una carneficina. Conosco diverse persone che nella propria automobile tengono sempre una mazza da baseball, un bastone o qualche altro pesante oggetto contundente, per maggior sicurezza. E, inutile negarlo, il guaio è proprio questo: quando la persona più pacifica possiede un’arma e se la si porta appresso, più o meno inconsciamente è pronta a farne uso. E non lasciatevi fuorviare dalla raccomandazione che quell’arma sarà l’estrema risorsa, da usare solo in caso di aggressione. Starei molto più tranquillo se quella risorsa fosse appannaggio esclusivo delle forze di polizia: la polizia ne farebbe un uso ben più parco e ragionato.

    La faccenda delle armi è questione di civiltà o, se preferite, di crescente inciviltà e chiedere un giro di vite in materia di concessione delle licenze non è l’ennesima manifestazione di un buonismo politicamente corretto. Prima di tutto, detesto il termine buonismo, che è stato artatamente coniato per ammantare di negatività la propensione a una forma mentis più umana, ridicolizzandone le estremizzazioni. Se mi tacciate di buonismo pensando che io sia umano, allora mi prendo il vostro sfottò. Se, invece, pensate che buonista sia sinonimo di lassista, rispedisco l’epiteto al mittente. Si può essere umani e pretendere il rispetto della legge. Invocare la massima severità e una legge restrittiva sul porto d’armi e la libera circolazione delle armi da fuoco non implica scarsa attenzione alla sicurezza di un popolo. Semmai, indica una chiara presa di coscienza collettiva e la conseguente intenzione di dare al popolo quella sicurezza che pretende, però attraverso le istituzioni preposte a tal compito. La legge c’è: basta applicarla e farla rispettare. Un po’ come l’annosa questione del carcere come punizione o forma di educazione alla legalità. Ho sempre pensato che il carcere debba servire per rieducare e persino americani che non si dichiarano liberal tout court, come l’amico Jeffery Deaver, di fronte

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