Bambini, abbecedari, giocattoli
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Ann K. Boulis
WALTER BENJAMIN (1892–1940) was a German-Jewish Marxist literary critic, essayist, translator, and philosopher. He was at times associated with the Frankfurt School of critical theory and was also greatly inspired by the Marxism of Bertolt Brecht and Jewish mysticism as presented by Gershom Scholem.
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Anteprima del libro
Bambini, abbecedari, giocattoli - Ann K. Boulis
Centopagine
Walter Benjamin
Bambini, abbecedari, giocattoli
a cura di Stefano Calabrese e Antonella De Blasio
ArchetipoLibri
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Introduzione
L’idea dell’infanzia, il mondo della vita dei bambini e i ricordi personali dei primi anni di vita trascorsi a Berlino cominciano a occupare la riflessione di Walter Benjamin a partire dalla metà degli anni Venti – dopo la morte del padre e lo smarrimento definitivo di quello status borghese che gli era fino ad allora appartenuto –, si coagulano con marcata intensità tra il 1928 e il 1932, e infine lo accompagnano sino alla fine dell’esistenza nelle sistematiche, complesse rielaborazioni cui sottopone Infanzia berlinese intorno al millenovecento. In generale, se ampliamo la prospettiva, ciò non può stupire. Proprio allora la comunità scientifica – psicanalisti, antropologi, storici, studiosi di letteratura – iniziava a entrare per la prima volta con intenti analitici scevri da pregiudizi nei meandri cognitivi dell’infanzia. Dopo il grande assalto portato dalla pedagogia positivista a quella tabula rasa che si presumeva costituisse il momento iniziale di ciascun individuo, e spentosi ormai il suono dei diktat razionalistici cui i bambini venivano sottoposti nella certezza che fossero, o dovessero essere, solo dei piccoli adulti, si era socchiusa un’intera galassia di propensioni istintuali, ecosistemi mentali e abitudini percettive. Sia che si credesse, come Freud, in un parallelismo tra filogenesi e ontogenesi, sia che si ritenesse più semplicemente, come il giovane Jean Piaget, che valesse la pena gettare uno sguardo sul modo in cui, al momento della nascita, formattiamo il contesto ambientale, gli interrogativi erano molteplici. L’apprendimento del linguaggio verbale favorisce, trasforma e addirittura attiva la percezione della realtà nei bambini, oppure costituisce un arsenale di strumenti semiotici valido solo per la comunicazione? La fantasia ha delle leggi, e, in caso, si tratta di leggi che confliggono con quelle dell’argomentazione razionale? Qual è la funzione antropologica svolta dal gioco nei primi anni dell’esistenza? La cosiddetta letteratura per l’infanzia – la cui genesi è simultanea al diffondersi dei Lumi e il cui effettivo sviluppo accompagna i processi di definitiva industrializzazione e di costituzione delle moderne metropoli a partire dalla seconda metà dell’Ottocento – è di qualche utilità, se non altro documentaria, per rispondere alle domande precedenti?
Se muoviamo da quest’ultimo punto, la risposta di Benjamin è senz’altro negativa, e difficilmente nella sua multiforme opera si trovano riferimenti alla Kinderliteratur europea, che pure aveva prodotto testi di grande rilievo, oltre ad accogliere nelle proprie fila narrazioni originariamente pensate per gli adulti e poi degradate, o riadattate, al mondo dell’infanzia. Tale disinteresse è tanto macroscopico quanto significativo, al di là del fastidio che gli provocano le fantasticherie regressive di Andersen e del progetto, mai perseguito, di voler interessarsi alle fiabe e leggende popolari tedesche, studiate nella loro essenza linguistica
, che egli formula epistolarmente nel 1925, nei giorni plumbei che seguono alla mancata abilitazione universitaria, e che ribadisce invano nel 1932, quando promette a un editore di Heidelberg un libro dedicato proprio alla Kinderliteratur [Benjamin 1995-2000, IV, 104]. Certo, nel suo programma di valorizzazione dei relitti e delle rovine, degli scarti e di ogni elemento residuale a favore di un discredito per il tipico e il classificabile [Schiavoni 2001, 163], Benjamin si è sin dall’inizio predisposto a un disinteresse totale per i cosiddetti generi e sottogeneri letterari – gli architesti, come li definirà poi Gérard Genette. E nondimeno. Il momento forse più straordinario della letteratura per l’infanzia che adotta da un lato la morfologia della fiaba e dall’altro quella del Bildungsroman è quello che gravita intorno all’infanzia di Benjamin: a semplice titolo esemplificativo, pensiamo a Alice’s Adventures in Wonderland di Lewis Carroll (1865), Little Women (1868) di Louisa May Alcott, Misunderstood (1869, noto in Italia con il titolo Incompreso) di Florence Montgomery, Heidi della svizzera Johanna Spyri (1880), Le avventure di Pinocchio di Collodi (1883), The Wonderful Wizard of Oz dell’americano Lyman F. Baum (1900), Peter Pan in Kensington Gardens di James M. Barrie (1906), Anna of Green Gables (1908, romanzo noto in Italia come Anna dai capelli rossi) della canadese Lucy M. Montgomery, The Secret Garden di Frances H. Burnett (1911).
Coagulandosi in senso differenziale rispetto alla letteratura per adulti e inserita in un mercato editoriale che a partire dal 1840 ricorre anche ai giornali per meglio rispondere in forma periodica e appendicistica al bisogno di finzioni narrative da parte di un pubblico di massa, sin dall’inizio la Kinderliteratur lega i propri destini a quelli della scolarizzazione di bambini e adolescenti: l’innalzamento degli indici di alfabetizzazione coinvolge infatti anche e soprattutto i bambini, sottoposti a forme sia pure approssimative di scolarizzazione tra i quattro e i sei anni almeno sino ai dodici anni di età, e ciò produce un interesse precipuo per le letture da offrire a questa utenza infantile. Così, mentre si crea un pubblico di lettori adulti per i quali viene brevettata la forma novel – plausibile in quanto deve fungere da simulatore delle traiettorie esistenziali di individui reali, dando ai lettori la possibilità di immaginarsi un destino possibile –, simultaneamente prende forma un’utenza infantile per la quale viene brevettato il genere romance, cioè una narrazione avventurosa e implausibile, in cui anche la magia è di casa e tutto può accadere. Il sistema dei generi letterari acquisisce dunque una natura differenziale: è letteratura per l’infanzia tutto ciò che non è letteratura per gli adulti. Se, in accordo con gli studiosi che negli ultimi anni hanno meglio affrontato questo problema, assumiamo il 1744 come data inaugurale della children’s literature occidentale – l’anno in cui John Newbery pubblica A Little Pretty Pocket Book, di fatto un abbecedario dove l’autore si rivolge a un pubblico di genitori affinché leggano ai propri figli le narrazioni fiabesche e immaginifiche contenute nel testo –, è perché solo una storia della scolarizzazione e dei processi di alfabetizzazione può spiegare la genesi di un mercato della lettura per bambini e adolescenti che, da quel momento, è divenuto sempre più esteso. Prendendo una strada ben diversa da quella che il novel aveva imboccato con Balzac e Flaubert, nell’Ottocento gli autori di letteratura per l’età evolutiva cercano dunque di reimmaginare nostalgicamente i fantasmi della propria infanzia come se fosse un eden perduto, popolato di elfi o – come poi racconterà Lewis Carroll – di conigli bianchi che controllano il tempo sul quadrante di un orologio da taschino. Ma mentre rimpiangono il temps perdu dell’infanzia, aiutano i loro giovani lettori ad avvicinarsi a uno status in cui anch’essi rimpiangeranno ciò che attualmente sono. Un piccolo, straziante paradosso che costituisce la ragione non ultima del fascino della letteratura per l’infanzia [Morgenstern 2009, 18-24], ma anche del rifiuto di essa da parte di Benjamin, che vi scorge un’adulterazione di secondo grado, l’imitazione del declino dell’arte del narrare quale si stava configurando nei suoi ultimi stadi all’altezza della prima guerra mondiale, quando i reduci dal fronte sembravano avere smarrito la possibilità stessa di raccontare quanto era loro accaduto. E non è un caso che Benjamin ricorra alla tradizione fiabesca relativamente di rado (una nota eccezione è il riutilizzo di una fiaba di Wilhelm Hauff, Das kalte Herz) nei numerosi interventi radiofonici con cui egli intrattiene bambini e adolescenti tra il 1929 e il 1932.
C’è di peggio. Nei romanzi simil-fiabeschi, convergenti verso un’idea prescrittiva dello status adulto, a opinione di Benjamin gli autori cercavano sempre di indossare, di nuovo adulterandole, le movenze cognitive di una supposta infanzia: contrariamente agli altri generi letterari, che si definiscono sulla base di caratteristiche formali ricorrenti e descrivibili, la letteratura per l’infanzia è infatti tutto ciò che viene prodotto nella prospettiva di una utenza inequivocabilmente identificata dagli scrittori prima ancora che abbia luogo l’atto creativo della scrittura, producendo testi in qualche modo reader-oriented, pensati nella prospettiva di un lettore che ne costituirebbe l’autentico protagonista. La situazione è dunque complessa. Lo scrittore adulto deve e vuole provare a immaginare l’ecosistema cognitivo dei bambini, e per fare questo ricorre ai propri ricordi d’infanzia (necessariamente inquinati dalle abitudini percettive dello status adulto) e alle rappresentazioni che sono già state fornite dell’infanzia, in certi casi abbandonandosi alla tentazione di mettere in parallelo filogenesi e ontogenesi, cioè di vedere il puer come un primitivo immerso nel mondo della natura. Congiuntamente, lo scrittore adulto deve anche rivolgersi a quei lettori di primo grado che sono gli adulti, in relazione genitoriale o professionale (insegnanti, istruttori, librai, pedagogisti ecc.) con i lettori di secondo grado, i bambini stessi, cercando di immaginare o meglio di negoziare con essi un’immagine condivisa di infanzia: un’immagine che, a partire almeno dalla cultura romantica, si presenta di volta in volta come la raffigurazione di un eden destinato a dissolversi, o come un disordinato brodo primordiale che necessiti di rettifiche e riassestamenti allo scopo di valorizzare ciò che in fondo già esiste, ma in uno stato larvale [Richter 1992, 214 ss.; Nodelman 2008, 242-243]. A fronte di questi compiti molteplici e di queste ambigue immagini dell’infanzia, in cui è difficile distinguere l’adulto che desidera uno sviluppo equo e sostenibile del bambino verso la maturità dall’adulto desideroso di tuffarsi regressivamente in un mondo ormai perduto e di cui prova nostalgia, stanno loro, i Kinder, sopra o sotto la soglia della pubertà.
Diciamo meglio: dovrebbero stare, poiché in realtà agli occhi di Benjamin essi sono del tutto scomparsi. «I romanzi per la gioventù scritti di recente, testi che assomigliano a un’escrescenza senza radici e dalla dubbia linfa, sono stati ispirati da un pregiudizio assolutamente moderno, in base al quale i bambini sono creature così singolari e incommensurabili che per riuscire a trovare il modo per intrattenerli occorre un particolare ingegno. È folle la costante preoccupazione di produrre oggetti che si suppone siano adatti ai bambini: sussidi visivi, giocattoli o libri» [vedi infra, 7]. D’altronde Benjamin ha affrontato più volte il duplice problema dell’identificazione tra produttore e consumatore e tra lettore e testo – problema, va detto, che si lega intimamente alle riflessioni estetiche che in area comunista si andavano facendo, e di cui egli viene definitivamente a conoscenza durante il soggiorno a Mosca tra il dicembre 1926 e il febbraio 1927. Posto che l’obiettivo, come chiarirà Benjamin nell’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, è di capovolgere l’estetizzazione della politica verso cui si orientavano i fascismi europei e che di fatto risultava consolidata dalle poetiche dell’art pour l’art, nella certezza che «la riproduzione in massa corrisponda... a una riproduzione delle masse», in una politicizzazione dell’estetica, cioè in un ingresso dell’arte nella sfera dell’agire pratico e in un potenziamento della sua prensilità mondana, il primo terreno su cui agire è quello dello statuto dell’autore. Come si legge in un contributo del 1934 dedicato all’Autore come produttore, se si rapporta criticamente alla realtà l’emittente deve poter abolire il confine che lo separa dal destinatario, ed è proprio la partecipazione attiva di quest’ultimo che non solo protegge dagli effetti di ipnosi empatica dell’estetica nazional-socialista, ma garantisce quel processo di educazione cui mirava l’opera teatrale di Brecht, verso cui lo aveva orientato sin dal periodo del suo soggiorno a Napoli nel 1924 Asja Lacis, con la collaborazione della quale nascerà poi un testo invero mediocre di Benjamin, il Programma per un teatro proletario dei bambini. Accusata da Scholem di aver allontanato Benjamin dal progetto di emigrare in Palestina e di averlo comunistizzato, detestata anche da Adorno, che eliminò nell’edizione del 1955 di Strada a senso unico persino la dedica a lei rivolta da Benjamin, la Lacis era una bolscevica di origine lettone che aveva reso il saggista tedesco partecipe dei suoi esperimenti di pedagogia teatrale, nell’atelier russo di Orel, dove cercava di occuparsi