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Alzo gli occhi per dire sì: Una storia straordinaria alle origini della Comunicazione Aumentativa
Alzo gli occhi per dire sì: Una storia straordinaria alle origini della Comunicazione Aumentativa
Alzo gli occhi per dire sì: Una storia straordinaria alle origini della Comunicazione Aumentativa
E-book342 pagine5 ore

Alzo gli occhi per dire sì: Una storia straordinaria alle origini della Comunicazione Aumentativa

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Info su questo ebook

Da quando è nata Ruth non ha mai pronunciato una parola. Non ha mai potuto camminare, nutrirsi o pettinarsi da sola. Imprigionata in un corpo inerte, molti intorno a lei la considerano incapace di pensare, perché incapace di parlare. Invece la mente di Ruth funziona perfettamente, ma pochi intorno a lei se ne accorgono.
È grazie a persone illuminate come Steven Kaplan, che tutti realizzano come la donna comprenda ogni cosa ma non abbia strumenti per comunicare: attraverso una tabella di comunicazione fedelmente riportata in frasi da Kaplan, Ruth è ora in grado di raccontare personalmente gli anni della sua reclusione virtuale.
Finalmente sarà libera di vivere una vita piena di senso e successi personali. La sua esperienza contribuirà infatti ai primordi della Comunicazione Aumentativa Alternativa (CAA), l’approccio comunicativo destinato a rivoluzionare nei decenni successivi le possibilità espressive di quanti soffrono deficit della comunicazione.
Alzo gli occhi per dire sì cambierà per sempre lo sguardo del lettore sulle persone con gravi disabilità, aiutando a comprendere che la relazione e la comunicazione sanno andare oltre le barriere fisiche e il semplice uso della parola.
LinguaItaliano
Data di uscita15 ott 2022
ISBN9788832762891
Alzo gli occhi per dire sì: Una storia straordinaria alle origini della Comunicazione Aumentativa

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    Anteprima del libro

    Alzo gli occhi per dire sì - Steven B. Kaplan

    PRESENTAZIONE

    di Aurelia Rivarola 

    Neuropsichiatra, Presidente del Centro Benedetta D’Intino Onlus

    Come iniziare? Come iniziare a parlare di un libro che convoglia tante emozioni, sollecita tante riflessioni e domande e impartisce tante lezioni? Alzo gli occhi per dire sì è un’autobiografia scritta con il supporto di Steven Kaplan, da Ruth Sienkiewicz Mercer, giovane donna con gravissima disabilità motoria e della comunicazione. Ha richiesto dodici anni di lavoro e circa duemila ore. È stata pubblicata per la prima volta nel 1989, ed è stata tradotta in diverse lingue. 

    È un gran dono quello che la casa editrice Homeless Book fa al campo della Comunicazione Aumentativa e Alternativa (CAA) facendola ora conoscere in lingua italiana.

    Ruth ha trasmesso a Steven Kaplan i pensieri, ricordi e considerazioni sulla sua vita utilizzando espressioni del viso e suoni codificati nel loro significato, integrati con tabelle di parole e frasi. Ruth con lo sguardo localizzava la zona delle tabelle in cui si trovava il significato che voleva trasmettere; il suo interlocutore scandiva una ad una le parole presenti in quella zona e Ruth alzava gli occhi quando veniva pronunciata quella che aveva in mente. In questo modo, Kaplan riceveva gli indizi che gli permettevano di ipotizzare frasi o concetti che di nuovo restituiva a Ruth aspettando che alzasse gli occhi per confermare Sì, è proprio quello che intendevo!.

    Nella introduzione al libro Steven Kaplan spiega e porta esempi di questo complesso e lunghissimo procedimento, che ha però permesso a Ruth di narrare la sua vita. Una vita sconvolgente afflitta da dolori fisici e morali inenarrabili a cui Ruth ha saputo reagire senza chiudersi nel suo mondo interiore, ma continuando a vivere cogliendo quel poco di positivo che le succedeva.

    Credo che questo libro cambierà nei suoi lettori il modo di considerare le persone come Ruth e che li solleciterà a cercare un modo per interagire con loro. Dice Ruth: La gente crede che chi non può parlare sia incapace di pensare e si allontana da noi senza cercare di scoprire chi siamo e come comunichiamo.

    Ritengo che leggere e riflettere su questo libro sia fondamentale per tutti coloro che sono coinvolti nella vita di persone con disabilità comunicativa: genitori, fratelli, parenti, compagni, amici, medici, psicologi, terapisti, educatori, assistenti.

    Alzo gli occhi per dire sì porta a riconoscere la persona prima della disabilità. Ci fa vivere dal di dentro cosa veramente possa cambiare e migliorare la vita delle persone come Ruth. Ruth ricorda in particolare l’assistente Wessie che ha usato con lei quello che definisce un approccio umano scoprendo così i suoi segnali per rispondere o no o altro. E ricorda Howard Shane, uno dei maggiori professionisti nel campo della CAA che ha creduto in lei, l’ha trattata da subito con rispetto e pazienza, ha difeso i suoi diritti, riconosciuto le sue esigenze di interazione e partecipazione, ha dato significato alla sua mimica e ai suoi suoni e le ha proposto le prime tabelle di comunicazione e i primi ausili tecnologici.

    In Alzo gli occhi per dire sì si legge di episodi che sconvolgono ed emozionano perché descrivono anni di isolamento relazionale, descrivono cosa prova chi soffre di mali fisici senza poterli dire e ricevere aiuto, cosa prova chi non può condividere sofferenze e denunciare violenze psicologiche, ma riesce sempre a mantenere uno sguardo in avanti valorizzando i momenti e le persone migliori. Ruth descrive il sollievo provato quando, appresa la morte della nonna che molto amava, ha potuto dire mi sento male e sentirsi compresa nel suo dolore; descrive la gioia quando finalmente ha potuto decidere cosa mangiare e fare gli auguri durante un Natale in famiglia con uno dei primi ausili di comunicazione con uscita in voce e per di più con un timbro femminile.

    Ho avuto l’opportunità di assistere a due relazioni a Boston e a Philadelphia, nel 1984 e nel 1992, tenute da Ruth con il supporto di John Costello quando, abbandonata la terribile scuola di Belchertown, è riuscita a vivere in un appartamento indipendente e a sposarsi. Ruth ha voluto dedicare molte delle sue energie a difendere il diritto ad una vita indipendente e non istituzionalizzata per le persone disabili come lei e ad insegnare ai professionisti che seguono persone con disabilità comunicativa come comunicare riconoscendo tutte le loro modalità naturali, utilizzando gli strumenti di CAA e le strategie quali la scansione assistita dal partner e la co-costruzione dei messaggi. 

    Ricordo i suoi occhi vivacissimi e come scrutava le persone che la circondavano e la sua risata che spesso risuonava ricca, profonda e così prolungata da far temere in alcuni momenti che non riuscisse più a riprendere fiato.

    Prefazione all’edizione italiana

    di Steven B. Kaplan

    Farmington, Connecticut, USA

    Settembre 2021

    La mia grande e straordinaria amica, Ruth Sienkiewicz Mercer, è venuta a mancare nel 1998, all’età di 48 anni. Questa morte prematura è stata causata principalmente dalla fragilità fisica di Ruth e dal suo stato di salute precario, senza dubbio aggravato dalla negligenza e dal pessimo trattamento subito negli anni dell’adolescenza alla Belchertown State School¹.

    Poco dopo la prima pubblicazione nel 1989 di Alzo gli occhi per dire sì, il libro è stato tradotto in diverse lingue: olandese, francese e tedesco. Una diversa edizione, sempre in lingua inglese, è stata pubblicata in Gran Bretagna. Nel 1996, quando abbiamo riottenuto i diritti dalla Houghton Mifflin, abbiamo pubblicato un’edizione economica per la Whole Health Books, che ho mantenuto in ristampa negli Stati Uniti da allora. L’interesse verso la storia di Ruth è rimasto sorprendentemente costante nel corso degli anni, e sono felice e orgoglioso del fatto che molti college e strutture sanitarie abbiano utilizzato e continuino ad adottare il libro per la formazione del proprio personale, nonché per corsi di pedagogia sia generale che speciale o riguardanti i disturbi del linguaggio. Dopotutto, uno dei principali obiettivi per cui Ruth desiderava condividere la sua storia era quello di insegnare agli insegnanti come interagire con studenti o pazienti con disabilità.

    Fino alla fine, Ruth ha continuato a battersi attivamente e con grande zelo per i diritti delle persone portatrici di disabilità, e il suo libro contribuisce a mantenere in vita l’intelligenza, il pungente umorismo e lo spirito eccezionale di Ruth. La sua storia ed il suo punto di vista sono una straordinaria fonte di ispirazione su come ognuno di noi possa superare qualsiasi ostacolo alla comunicazione e all’interazione umana, sia che esso derivi da un disturbo del linguaggio o da una disabilità fisica, sia che provenga dai meschini pregiudizi di una mentalità ristretta e ottusa. Questi sono temi universali che non conoscono confini di paese o lingua. E in questo nostro tempo, caratterizzato dal rifiuto innaturale da parte di vaste fasce della società globale di condividere idee ed impegnarsi in un dialogo onesto, gli insegnamenti di Ruth sono più che mai preziosi.

    Complimenti alla Homeless Book per aver deciso di tradurre e pubblicare la storia di Ruth in italiano, la lingua più bella del mondo; questa è una sorta di giustizia poetica, nella sua migliore accezione. Grazie mille!

    Alzo gli occhi

    per dire sì

    A Marian Sienkiewicz e Ruth Case
    In Memoriam
    RUTH SIENKIEWICZ-MERCER
    1950-1998
    NORMAN MERCER
    1931-2010

    1 Ruth è morta per soffocamento da cibo; aveva sempre avuto difficoltà a deglutire, e doveva essere alimentata con estrema cautela. Purtroppo, non è stata nutrita correttamente a causa dell’incompetenza dell’assistente personale assegnatole dalla sua nuova agenzia di servizi sanitari domiciliari, che da poco aveva sostituito la Shelton’s, Inc. Paul Shelton, caro amico di Ruth e Norman, li aveva liberati dalla State School nel 1978 e per quasi vent’anni aveva poi provveduto, tramite la sua organizzazione, alla loro assistenza personale. La nuova agenzia era stata scelta da Ruth per sostituire la Shelton’s Inc., poiché il marito di sua cugina ne era il proprietario e l’amministratore. Che tragica ironia…

    Introduzione

    Ruth Sienkiewicz-Mercer è nata nel 1950.

    Non ha mai pronunciato una parola, non ha mai scritto o battuto a macchina una sola frase. Non ha ricevuto una vera e propria educazione, e legge, al suo meglio, ad un livello elementare; è in grado di riconoscere solo le parole semplici che le vengono poste di fronte in un contesto familiare.

    Ruth è stata costretta su una sedia a rotelle o a letto per ogni minuto della sua vita; non ha mai camminato, non si è mai nutrita, pettinata i capelli o vestita da sola.

    È tetraplegica, vittima di paralisi cerebrale. Ad eccezione degli occhi, delle orecchie, del naso, del sistema digerente e delle corde vocali (che sono in grado di produrre circa dieci suoni distinti), il corpo di Ruth è funzionalmente inutile. Le sue mani non possono indicare né gesticolare, i piedi e le gambe non sono in grado di calciare né di sostenere i 35 chilogrammi del suo corpo.

    Ruth ha vissuto praticamente in ogni situazione possibile per una persona con gravi disabilità. Ha trascorso i primi anni della sua vita a casa, con le cure amorevoli dei suoi genitori e con le due sorelle minori e il fratellino, prima ad Amherst, poi a Springfield, in Massachusetts. Ha passato tre anni e mezzo presso una meravigliosa struttura privata, il centro di riabilitazione Crotched Mountain a Greenfield, nel New Hampshire. Poi, nel 1962, è stata affidata ad un’istituzione statale, la Belchertown State School nel Massachusetts.

    Due anni dopo il suo arrivo a Belchertown, una commissione legislativa arrivò alla conclusione che l’istituto sembrava ancora ai tempi del Medioevo per quanto riguardava il trattamento dei suoi residenti. Nove anni dopo, un’altra commissione definì le condizioni di vita a Belchertown scioccanti e vergognose. A seguito di una causa legale avviata da amici e parenti dei residenti, il tribunale distrettuale federale assunse il controllo diretto dell’istituzione verso la fine del 1973, attuando riforme drastiche.

    Ruth è rimasta alla State School fino al giugno del 1978 quando, come altri quattro amici e residenti disabili, se n’è andata per vivere in un appartamento tutto suo a Springfield. Oggi abita a Northampton, Massachusetts, con suo marito.

    Questo libro racconta la storia di Ruth Sienkiewicz-Mercer, come lei l’ha raccontata; è la sua autobiografia, scritta con il mio supporto. Ha cominciato a lavorare su questo progetto nel 1976, quando era ancora ospite della Belchertown State School. Il suo racconto, e questo libro, sono stati completati nel 1988.

    Sono stato presentato a Ruth nel gennaio del 1979, dopo essere stato assunto come insegnante per il programma FREE - Fundamental Right to Equal Education. Questo programma offriva un progetto educativo e di socializzazione individualizzato per Ruth e i quattro compagni con grave disabilità che come lei erano stati ospiti a Belchertown. Anche se solitamente le iniziative avevano luogo presso il campus dell’Università del Massachusetts ad Amherst, FREE non era patrocinato dall’università, ma era - ed è tuttora - gestito dalla Shelton’s, una società senza scopo di lucro che fornisce servizi di supporto alle persone con disabilità.

    Nel 1979 avevo appena conseguito un master in inglese presso l’Università del Massachusetts e avevo intenzione di iscrivermi alla facoltà di legge in autunno. Uno dei miei compiti principali come insegnante del programma FREE era quello di aiutare Ruth a scrivere la sua autobiografia. Nonostante avesse incominciato a lavorarci quasi tre anni prima, di completo c’era solamente una breve bozza generale e parecchie pagine di aneddoti impostati in modo approssimativo. Da gennaio ad agosto abbiamo lavorato al libro di Ruth diverse volte alla settimana; durante i nostri colloqui, che di solito duravano due ore, Ruth mi ha raccontato aneddoti relativi a diversi momenti della sua vita, aneddoti che venivano completati dai dettagli che mi forniva in risposta alle mie numerose domande.

    Ruth sa indicare , no e altro tramite le espressioni del viso. Un broncio con le labbra arricciate significa no, di solito rimarcato da un leggero sollevamento degli avambracci. Più le labbra sono arricciate, più enfatica è la valenza negativa. Ruth esprime il alzando gli occhi, e spesso accompagna questo movimento con un sorriso. Più volte Ruth emette borbottii, sussurri, sospiri, strilli, risatine o perfino batte i denti per dare più tono alle sue risposte. Per indicare altro utilizza una versione più blanda delle modalità base per il sì e il no.

    Utilizzando solo questo repertorio fisico limitato, Ruth è in grado di comunicare verbalmente grazie alle sue tabelle comunicative. Si tratta di tabelle plastificate di cartoncino bianco, della grandezza di circa 40x50 cm, su cui sono disposti in righe e colonne diverse parole, frasi e numeri. Su ogni tabella, le varie voci sono raggruppate logicamente in sezioni delimitate da bordi di diversi colori. Queste sezioni diverse comprendono pronomi, i nomi delle persone importanti nella vita di Ruth, verbi, avverbi, aggettivi, preposizioni, interrogativi, espressioni comuni d’uso quotidiano, luoghi familiari, cose da mangiare, colori, capi d’abbigliamento, e diverse imprecazioni. C’è anche una sezione per l’alfabeto e i numeri da 1 a 10.

    Nel corso dell’ultimo decennio, Ruth ha utilizzato due o tre di queste tabelle, con parole scritte da entrambi i lati; la prima volta che ci siamo incontrati, nel 1979, le sue tabelle comprendevano circa 400 parole. Diversi mesi dopo, Ruth, Laura Lee Jones (la prima direttrice del programma FREE) ed io abbiamo sviluppato nuove tabelle che includevano circa 800 parole. Le tabelle che utilizza ora ne contano oltre 1800.

    Ruth non è in grado né di tenere in mano le tabelle né di indicare le parole o le frasi che vuole esprimere. L’interlocutore deve posizionarle di fronte le tabelle e lei, tramite le espressioni del viso, sceglie la tabella appropriata. Poi guida il suo interlocutore alla sezione desiderata fissandola con gli occhi o rispondendo con il volto a domande sì-no riguardanti la posizione della parola cercata. Sempre con questa modalità Ruth indica poi la parola o la frase precisa che ha in mente.

    Ecco una tipica conversazione con Ruth che avviene attraverso le sue tabelle comunicative: io tengo le tabelle di fronte a lei, e Ruth seleziona con lo sguardo la Tabella 1 alzando gli occhi in risposta alla mia domanda Questa tabella?. Poi fissa con lo sguardo la parte superiore della tabella per indirizzarmi alla sezione che comprende i nomi delle persone. Allora io scorro lentamente il dito sulla sezione e Ruth mi ferma alla colonna giusta alzando gli occhi. Scorro il dito sulla colonna e lei di nuovo alza lo sguardo per fermarmi sul nome Shari. Una delle sorelle di Ruth si chiama Shari, ma so che Shari era anche il nome di una delle sue inservienti, perciò chiedo: Intendi tua sorella Shari?. Il responso positivo che mi comunica con gli occhi identifica il soggetto della nostra discussione.

    Se stiamo facendo una semplice chiacchierata le potrei domandare Shari ti ha chiamata ultimamente? o L’hai vista?. Quando lavoravamo a questo libro, le avrei chiesto: Vuoi raccontarmi un episodio che riguarda Shari?. A seconda della sua risposta, le avrei poi fatto numerose altre domande chiarificatrici, o avrei richiesto altre informazioni servendomi delle sue tabelle.

    Nella prima parte del racconto di Ruth c’è un aneddoto riguardante Shari; durante una delle nostre prime sessioni di lavoro su questo libro, Ruth ha indicato la parola Shari sulla tabella. Io le ho rivolto varie domande sì-no, arrivando a capire che desiderava raccontarmi una storia capitata quando aveva dieci anni e viveva a casa con la sua famiglia (per ovvie ragioni, più si conoscono le abitudini, la storia personale, gli amici e la famiglia di Ruth, più è facile agevolarne la comunicazione).

    Poi Ruth mi ha indirizzato alla griglia alfabetica su un’altra tabella; per farlo ha guardato l’angolo superiore della tabella in uso arricciando il labbro in senso negativo: era il suo segnale per indicare che voleva cambiare tabella (adesso le tabelle di Ruth sono numerate nell’angolo superiore come Tabella 1, Tabella 2 e così via, in modo che possa passare velocemente da una all’altra).

    Ogni volta che, nei nostri viaggi tra le tabelle comunicative, finiamo per atterrare su quella ortografica, sospiro e penso tra me e me, Ci risiamo: un’altra avventura tra le lettere dell’alfabeto. A causa della sua istruzione limitata, della sua inesistente capacità di scrittura e non essendo in grado di pronunciare le parole, le conoscenze ortografiche di Ruth sono rimaste molto elementari.

    In questa particolare circostanza, tuttavia, è andata abbastanza bene: Ruth ha prima compitato .B.A.M.B.O.L., intendendo bambola; ulteriori domande hanno precisato che la bambola in questione era di Ruth. Poi ha compitato .G.R.E.T.L.

    Il nome della sua bambola era Gretel.

    L’indizio seguente, nonché quello finale di questa sequenza, è stato sapone.

    Creando la sequenza .SHARI.BAMBOL.GRETL.SAPONE. e rispondendo a qualche dozzina di domande sì-no, puntualizzando le sue risposte con diverse espressioni del viso e suoni, Ruth mi ha raccontato di quando chiese alla sorellina Shari di lavare i capelli della sua bambola, Gretel, nel cuore della notte. Le mie domande successive riguardavano la risposta di Shari, come si fosse concluso l’episodio ed il significato emotivo e personale della vicenda.

    Questa conversazione è durata circa un’ora. Ad una persona in grado di parlare, sarebbero bastati meno di cinque minuti per raccontare la storia con parole sue.

    Dopo questa conversazione, rifacendomi ai miei appunti, ho scritto il racconto di questo episodio dal punto di vista di Ruth; poi ho revisionato la stesura insieme a Ruth, ponendo particolare attenzione alle sue reazioni nei confronti della mia versione scritta, assicurandomi che le descrizioni e le osservazioni che avevo inserito le andassero bene. La storia di Shari e Gretel è stata relativamente facile da scrivere, perché gli elementi soggettivi della vicenda sono emersi durante la nostra discussione iniziale; eppure, anche in questo caso come per tutti gli altri aneddoti di questo libro, ho rivolto successivamente a Ruth ulteriori domande.

    Durante l’intera narrazione, ho cercato di presentare gli eventi dal punto di vista della mia fonte; in ogni caso, io e Ruth abbiamo riesaminato scrupolosamente il racconto scritto, a volte attraverso quattro o cinque stesure. Ogni volta, Ruth ha approvato, modificato, variato o aggiunto qualcosa al suo racconto originale e alla mia interpretazione.

    Sebbene le parole e le frasi di Ruth vengano riportate ogniqualvolta possibile, come titoli di aneddoti specifici (ad esempio, .SHARI.BAMBOL.GRETL.SAPONE.) o all’interno del testo stesso, questa sua autobiografia non può certo essere definita come il suo racconto parola per parola. Lei mi ha descritto gli eventi, le persone, i luoghi e gli avvenimenti principali della sua vita, e io ho messo per iscritto il suo racconto. Tuttavia, la maggior parte delle parole scritte non è frutto della mente di Ruth; non le ha mai pronunciate né trasmesse direttamente dalla sua immaginazione alla pagina scritta. Ma i pensieri, le emozioni, le impressioni e le osservazioni espresse da queste parole sono di Ruth e di Ruth soltanto.

    Come scrivere per Ruth…

    Le espressioni e il lessico, il tono, le sfumature linguistiche che Ruth utilizzerebbe se fosse in grado di esprimersi per iscritto… Sono tutte incognite che non verranno mai svelate. Ruth comunica attraverso gli occhi, le espressioni del viso, i borbottii, i sospiri ed altri suoni, e sceglie messaggi, frammenti, indizi composti da due o tre parole nelle sue tabelle comunicative per iniziare una conversazione.

    Ma come parla la voce nella sua testa? Che parole sceglie? Ho posto a Ruth queste domande e la sua risposta è stata che sì, lei pensa come tutti e che la sua voce interiore formula parole e frasi, persino interi paragrafi.

    Ma Ruth pensa solo attraverso parole e frasi? Le espressioni nella sua mente sono come i discorsi che sente pronunciare dagli altri, o sono più simili ai discorsi stenografici delle sue tabelle comunicative? Nei suoi dialoghi interni sono presenti più immagini visive o più parole? E come suona la sua voce interiore? Poiché non ha mai parlato, percepisce questa voce interiore come un’estensione del suo stesso spirito, o come una sorta di intelligenza incorporea che spesso la visita per fare due chiacchiere?

    Quella voce, la voce interiore di Ruth, parla una lingua fluente fatta di parole, frasi e affermazioni? O è affiancata da suoni interiori e suggestive immagini non verbali?

    Questa è una donna che non ha mai camminato o corso, non ha mai spiccato un salto o battuto le mani e nemmeno si è mai toccata il viso. Una donna il cui spostamento autonomo più prodigioso è stato rotolarsi sul tappeto del soggiorno durante l’infanzia. Da allora, il movimento più intenso che è riuscita a compiere da sola è stato rimanere semi eretta sulla sedia a rotelle per pochi secondi. Per questa donna pensare è il più attivo dei verbi.

    Non so come funzioni il pensiero degli altri, ma mi domando se Ruth pensi come fanno tutti gli altri. Come potrebbe? Come non potrebbe?

    Per chiunque conosca bene Ruth, arrivare a conoscere i suoi pensieri non è un problema che non si possa risolvere con un po’ di tempo e pazienza. Solitamente Ruth si esprime in maniera chiara e diretta. Deve scegliere le parole con più attenzione di chiunque altro abbia mai conosciuto. I limiti posti alla sua capacità comunicativa dal suo handicap fisico l’hanno costretta ad un’economia di linguaggio che la porta ad eliminare tanta, se non tutta, la futile prolissità di cui è costituita una normale conversazione. Per lei, la comunicazione è un lusso troppo prezioso per sprecare l’attenzione del suo interlocutore con affermazioni inutili o ingannevoli. È capace di espressioni innovative e intelligenti, ma sempre schiette: si serve della conversazione per rivelare i suoi pensieri, non per mascherarli.

    La comunicazione di Ruth è, nel senso più profondo del termine, pura poesia. Per necessità, lei parla in maniera simbolica. Ogni sua espressione di tipo verbale coinvolge un livello di linguaggio complesso, essenziale, eppure suggestivo.

    Mi sono bastate poche conversazioni con Ruth per apprezzare quanto, al di là della sua disabilità, sia riflessiva, sensibile e straordinariamente vivace. Non si tratta di una tenera piccola invalida che, come una foca ammaestrata, sa dire sì e no. Ruth ha trascorso i primi vent’anni della sua vita parlando attraverso gli occhi e il viso, supportati soltanto da una ridottissima gamma di suoni. Poi ha iniziato ad utilizzare le tabelle comunicative per esprimersi in una forma sempre più crescente di comunicazione verbale abbreviata; eppure, i suoi occhi rimangono la sua vera voce, ed il suo viso non mente mai.

    I magici occhi color cioccolato di Ruth hanno pianto il dolore di uno spirito vivace intrappolato all’interno di un corpo inutilizzabile, segregato per così tanti anni in un ripostiglio a causa della irreprensibile ripugnanza della nostra società. Eppure, quegli stessi occhi, testimoni di tanta sofferenza, sono sorridenti di natura e brillano di una gioia birichina per il più semplice e piccolo dei piaceri.

    Da principio non ero certo della portata del suo genio; sospettavo che Ruth fosse sì intelligente, ma che si accontentasse troppo in fretta della risposta più semplice durante le nostre conversazioni. Sembrava che, quando le piaceva la mia interpretazione dei suoi indizi e dei suoi segnali, si appropriasse impazientemente del mio suggerimento, come se fosse davvero il suo pensiero originale:

    Quindi ti sentivi depressa. Perché? Ok, questa tabella? Questa? Sì? Questa sezione; stai guardando qui in alto? Questa colonna? Mamma? Papà? Sorella, quale sorella, Shari? Sì? Shari c’entra qualcosa con il fatto che eri triste? Sì? Eri triste a causa di Shari quando sei andata via da casa quella volta? Era cattiva con te? No, proprio il contrario? Era buona, tanto buona? Sì, è così? Era così buona, e dopo che te ne sei andata, ti mancava? Perché eravate così unite, e poi tu sei stata lontana per così tanto e hai perso il legame con lei e poi lei è cresciuta, e tu sei cresciuta e non eravate più così vicine, ed era come se non foste nemmeno più sorelle? È per questo? Precisamente? C’è qualcos’altro che vuoi dire su questo argomento? Ok, ora lo scrivo.

    Abbastanza lungo, considerando che Ruth mi aveva fornito .DEPRESSA. e .SORELLA. come indizi. Ma i continui umph delle sue risposte continuavano a dirmi che ero sulla strada giusta.

    Durante i primi due mesi di lavoro insieme non ero certo se fossi io ad essere diventato bravo ad indovinare o se Ruth fosse semplicemente stanca e quindi disposta ad accettare le mezze verità che le proponevo con tanto impegno. Dopotutto, sarebbe stato molto più facile che spaccare il capello in quattro e rischiare di confondere il messaggio senza concludere niente, solo per la mia testardaggine nel volere cercare di comprendere esattamente i suoi pensieri.

    Ma i suoi occhi mi dicevano il contrario, e ripetutamente.

    Gli occhi di Ruth mi hanno sempre fatto capire se mi trovassi sulla strada giusta o, al contrario, se mi stessi sbagliando. Ed il fatto che riuscissi a cogliere il contesto più ampio di quello che cercava di dirmi non è stato merito solo della mia capacità di intuizione: qualsiasi talento o capacità possedessi di mio, ero sempre e comunque il soggetto recettivo. Gli occhi e la mente di Ruth si servivano di me - della mia mente, dei miei occhi, della mia voce, delle mie continue domande e della mia capacità di scrittura - come se fossi stato un programma di scrittura.

    Ogni volta che ho cercato di trascrivere in parole i pensieri di Ruth, mi sono domandato se la produzione scritta rappresentasse accuratamente il suo lessico, o se senza volere stessi incorporando troppo le mie proiezioni. Sebbene questa sia rimasta una preoccupazione di primaria importanza, la mia diffidenza è scemata quando ho avuto modo di conoscerla meglio. In particolare, ci sono stati molti episodi in quei primi mesi in cui ci trovavamo incagliati su qualche dettaglio oscuro di una storia, ma Ruth insisteva perché lo esprimessimo correttamente. Questo mi ha fatto comprendere come, una volta che

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