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La libertà dell'arbitrio: Da Platone, a Dante fino a Evola attraverso la scienza dello yoga
La libertà dell'arbitrio: Da Platone, a Dante fino a Evola attraverso la scienza dello yoga
La libertà dell'arbitrio: Da Platone, a Dante fino a Evola attraverso la scienza dello yoga
E-book329 pagine4 ore

La libertà dell'arbitrio: Da Platone, a Dante fino a Evola attraverso la scienza dello yoga

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Info su questo ebook

Ogni singolo istante di ogni giorno compiamo delle scelte, facili o difficili, importanti o banali, ponderate o istintive. Possiamo dire con certezza che siano scelte libere? Almeno per la maggior parte di quelle scelte, la risposta che ci sorge immediatamente sarà sicuramente affermativa. Tuttavia, se ci fermassimo per un momento, se ci sedessimo in una posizione comoda cercando di mantenere un respiro lento e controllato, ecco che, forse, ripercorrendo le nostre scelte quotidiane, comincerebbe a sorgere in noi il dubbio che ci sia sempre stato un qualcosa di indefinito e sconosciuto che, inconsapevolmente, ci ha spinto verso quella scelta. A volte questo qualcosa riusciremo a identificarlo come un pregiudizio, un gusto, un istinto, una passione, un desiderio, altre volte non riusciremo a identificare questo qualcosa con chiarezza, tuttavia, continueremo ad avere la persistente sensazione di una causa che è in noi ma che, al contempo, è esterna a noi. Ecco che un interrogativo ancora più grande, forse quasi terrifico, potrebbe emergere: siamo veramente liberi? Siamo veramente noi la causa prima del nostro agire o siamo vittime di una causazione che ci usa come tramiti? Da qui parte la nostra riflessione, insieme teoretica e pratica, che sarà un viaggio nelle profondità della nostra incoscienza. In questo viaggio ci accompagneranno i grandi filosofi occidentali e gli illuminati saggi indiani, in un dialogo, fra oriente e occidente, fra yoga e filosofia, che si scopriranno più simili di quanto mai si sarebbe sospettato. Perché la Filosofia è yoga.
LinguaItaliano
Data di uscita20 lug 2021
ISBN9791220500265
La libertà dell'arbitrio: Da Platone, a Dante fino a Evola attraverso la scienza dello yoga

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    Anteprima del libro

    La libertà dell'arbitrio - Giovanni Fulci

    GIOVANNI FULCI

    LA LIBERTà

    DELL’ARBITRIO

    Da Platone, a Dante fino a Evola

    attraverso la scienza dello yoga

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    Proprietà letteraria riservata

    © by Pellegrini Editore-Cosenza-Italy

    Stampato in Italia nel mese di giugno 2021 per conto di Pellegrini Editore

    Via Camposano 41 (ex via De Rada) - 87100 Cosenza

    Tel. (0984) 795065-Fax (0984) 792672

    Sito internet: www.pellegrinieditore.it - www.pellegrinieditore.com

    E-mail: info@pellegrinieditore.it

    I diritti di traduzione memorizzazione elettronica riproduzione e adattamento totale o parziale con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

    A Sua Grazia Shriman Matsyavatara Prabhu

    Prefazione

    La riflessione di Giovanni Fulci sul tema, così arduo e anche ambizioso, a cui sono dedicate le pagine di questo libro ha come stella polare la filosofia indovedica alla quale si è accostato attraverso la tradizione vaishnava e gli insegnamenti di Marco Ferrini, collegato, attraverso una linea ininterrotta alla Madhva-Gaudiya sampradaya e fondatore del Centro Studi Bhaktivedanta.

    Da un punto di vista teoretico si tratta della scuola che accetta l’interpretazione vedantina del commentario di Baladeva Vidyabhusana, detta acintya bheda abheda tattva, in cui si afferma al contempo l’esistenza di differenze (bheda) e non-differenze (abheda) fra il creato, le creature e il Creatore che sono, e al contempo non-sono, uguali. Secondo Baladeva, questa contemporanea identità e diversità è un’inconcepibile (acintya) contraddizione che può essere afferrata e sciolta solo sul piano intuitivo-trascendente.

    Sul piano pratico questa dottrina si traduce nel bhakti yoga, un cammino spirituale incentrato sul servizio devozionale e quindi sull’azione che, libera da interessi di natura egoica, deve diventare un costante atto sacro.

    Da questa postazione orientale, sicuramente nutrita anche dallo yoga tantrico, quello sciamanico e, soprattutto, dallo yoga darshana di Patanjali, Fulci approccia la filosofia d’occidente con rinnovato sguardo.

    Se sul versante orientale gli Yoga-Sutra di Patanjali e la Bhagavad-Gita sono da considerarsi, anche quando non citati espressamente, il substrato culturale che accompagna tutta l’opera, diversi sono anche i testi di tradizione occidentale che hanno ispirato la sua ricerca, e in particolare le Meditazioni metafisiche di Cartesio e la Divina Commedia di Dante, attraverso la lettura che ne ha dato Marco Ferrini nel suo commento.

    Secondo Fulci sul tema del libero arbitrio non sussiste, in occidente, una riflessione così organica e completa quale emerge anche dalla sola lettura degli Yoga-Sutra. Nella sapienza orientale, infatti, c’è una soluzione più organica al problema.

    In occidente ci sono moltissimi passaggi assolutamente illuminanti, ma sparsi qua e là fra Platone, Kant, Gentile, Evola e tanti altri. È come se la filosofia occidentale avesse numerose vette altissime che si ergono splendenti sopra una nebbia che non lascia intravedere le valli che le collegano. Fulci mira a riunire quelle vette secondo la mappa tracciata dalla filosofia indovedica.

    La sintesi dell’opera sta nell’immagine che si trova in copertina. Due cavalli in posa antropomorfa guardano oziosamente la TV bevendo e fumando. Nello schermo seguono un film in cui compare un cavallo alato che a loro deve apparire sicuramente un supereroe, così come può essere Superman per noi. Distratti dai vizi e assorti in quella fantasticheria, i cavalli non si accorgono che basterebbe alzare la testa per trovare un cavallo alato in carne e ossa in grado, forse, di insegnare loro a volare, né si rendono conto che anch’essi sono dotati di ali. O forse sanno di averle ma le hanno giudicate troppo piccole e inadatte al volo.

    Quei cavalli, come tutti noi, non arrivano a comprendere che le loro ali sono solo atrofizzate e anestetizzate dalla vita ordinaria ma che, con l’esercizio e l’impegno, con l’abbandono di distrazioni mentali e materiali, potrebbero riacquisire la capacità di farli alzare in volo, liberi e felici.

    Ecco che il problema del libero arbitrio si risolve, forse, solo se è posto in termini di potenziale: non una qualità che c’è o non c’è, ma piuttosto una potenzialità che può emergere. Un’emersione progressiva che poi non è altro che il percorso dell’anima nel ritrovare se stessa, un percorso che, nella visione indovedica, non si risolve nella sola condizione umana ma attraversa tutte le forme di incarnazione.

    Ancora oggi molti autori scrivono storia della filosofia escludendo a piè pari l’oriente come se la speculazione filosofica fosse marchio esclusivo occidentale, un brand coperto da copyright. Per questo motivo Fulci ricorre il più possibile al metodo comparativo e al linguaggio della filosofia occidentale, per cercare di far comprendere la profondità teoretica raggiunta anche dalla filosofia tradizionale indiana.

    Anche se spesso imbarbarite o annacquate, molte pratiche orientali sono penetrate in occidente, a partire dall’ashtangayoga fino all’uso dei mantra; lo stesso non può invece dirsi per tutta la cornice teorico-filosofica di quelle stesse pratiche.

    La speranza dell’autore è, dunque, quella di contribuire a mostrare la dignità filosofica del pensiero orientale e gettare qualche ponte fra oriente e occidente.

    Da un punto di vista pratico si tratta di rivedere profondamente il nostro percepirci come esseri liberi: «siamo infatti portati a considerare libera una persona che ha la necessità di fumare, bere, passare una notte in fila per comprare la nuova versione di iPhone, eccetera, mentre al contrario, consideriamo non libera una persona solo perché vive in uno Stato totalitario o perché è privata dei propri diritti civili[1]».

    Ma la vera essenza della libertà è una funzione del tutto introvertita.

    Introvertita era la libertà per Socrate, per gli stoici, per Boezio e per lo stesso Kant. Sono le conquiste politiche della Rivoluzione francese che cominciano a spostare il focus dall’interno all’esterno fino ad arrivare, con il materialismo marxista, a proiettarsi completamente fuori dall’individuo. Abbiamo acquisito tante libertà personali che sono in realtà aliene al soggetto e, distratti da queste apparenti conquiste, abbiamo perso il senso intimo di queste.

    Accorgersi di tale ribaltamento di prospettiva può essere per l’uomo moderno una grande occasione di riflessione, perché solo riconoscendo di essere schiavi si può sperare di diventare liberi.

    A chiusura di questa breve nota, che non rende certamente giustizia alla ricchezza di contenuti del libro, segnalo come interessante spunto di riflessione il capitolo in cui Fulci mette a confronto, a tutto svantaggio della prima, la via di liberazione niciana con quella indovedica: «le strade per la realizzazione spirituale, dunque, sono idealmente infinite ma, mentre alcune sono più sicure e ben battute, altre sono sentieri irti e stretti, nei quali è facilissimo smarrirsi. […]. Potremmo dire che Nietzsche, pur privo di una guida e facendo affidamento sulle sole proprie forze, si mette alla ricerca di una strada non battuta simile a quella, il cui percorso è detto, nei Tantra, difficile come andare sul filo di una spada o come cavalcare una tigre; è possibile che Nietzsche abbia scorto questo sentiero, che magari ne abbia anche percorso qualche tratto, salvo poi pervenire a un prevedibile quanto infausto epilogo. […] Il problema della libertà nell’uomo viene messo in evidenza con gli scritti Umano, troppo umano, Genealogia della morale e soprattutto con il più celebre dei suoi libri, Così parlò Zarathustra, nel quale si arriva anche ad avanzare una soluzione alla mancanza di libertà dell’uomo. […]

    Un passaggio bellissimo e una profonda intuizione di Nietzsche è quella di definire la libertà come il volere quello che la vita vuole; anche in questo caso purtroppo avviene l’errore di cui abbiamo discusso, quello che capovolge il risultato come fa il segno errato di una moltiplicazione in un’espressione algebrica.

    Per Nietzsche non c’è trascendenza, non c’è alcuna realtà noumenica, per cui quello che la vita vuole viene ricercato solo nel proprio ego; il rifiuto della trascendenza impedisce a Nietzsche di vedere dentro di sé l’atman, e men che meno il Paramatman. Egli vede, solo ed esclusivamente, ahamkara, l’usurpatore, il falso sé, e, senza neanche accorgersene, lo deifica. Per il samkhya, ahamkara è di natura materiale, per cui più lo si ingrassa assecondandolo nella sua volontà di potenza più si rimane invischiati nella materia anziché superarla.

    Vedendo solo ahamkara, è inevitabile che Nietzsche trovi la volontà di potenza ed è altrettanto inevitabile che questa volontà di potenza lo conduca alla completa dissociazione dal vero sé e, quindi, alla follia […] esiste una libertà per il saggio e una libertà, apparente, per il folle; Nietzsche, con la sua filosofia, insegna, anche con il personale esempio, la via della libertà del folle e non la via della libertà del sapiente[2]».

    Mi si consenta in chiusura una considerazione personale: sarebbe magnifico collegare la manía, ovvero la sacra, creativa follia dionisiaca di Nietzsche, con la via di consapevolezza e concentrazione propria della sapienza indovedica, in una coniunctio oppositorum feconda e innovativa. Libera e liberatrice.

    Angelo Tonelli

    [1] Infra cap. XII.

    [2] Infra cap. XV.

    Introduzione

    La rivoluzione ha inizio dal

    ritrovamento delle catene.

    L’emancipazione dal ritrovamento del sé

    Oggi parliamo tanto e spesso di libertà: ci vantiamo della nostra libertà, usiamo la libertà come discrimine per dividere il mondo in sviluppato e non sviluppato, ma sappiamo veramente di cosa stiamo parlando? Oppure la nostra libertà è solo presunta, un grosso abbaglio collettivo, un’allucinazione di massa?

    Questo breve saggio cercherà di ripercorrere l’evoluzione del pensiero filosofico occidentale in tema di libero arbitrio, mettendo in evidenza le assonanze e le dissonanze con il sapere che deriva dall’antica tradizione vedica.

    L’idea non è però quella di perseguire un’erudita, quanto sterile, disquisizione dottrinale; al contrario, è quella di fornire strumenti pratici di riflessione per ri-trovarsi, nel senso di trovarsi di nuovo, perché ogni rivoluzione ha inizio dal ritrovamento delle catene mentre l’emancipazione dal ritrovamento del sé.

    «Nel mezzo del cammin di nostra vita, mi ritrovai…», questo è l’incipit di quella che è probabilmente l’opera più celebre della storia della letteratura mondiale.

    Ci sarebbe da chiedersi da quanto tempo Dante vagasse per quella Selva oscura, senza meta, senza saperlo, senza neanche accorgersene. Eppure, «nel mezzo del cammin di nostra vita[1]», improvvisamente Dante si ritrova.

    Ritrovarsi è, dunque, il punto di partenza di un viaggio che richiederà altri novantanove canti; un viaggio che non sarebbe stato possibile intraprendere senza quel primo germoglio di realizzazione, quell’insight luminoso che sveglia, anche per un solo attimo, una coscienza assopita che, da lì in poi, diventa consapevole della propria condizione e desiderosa di uscirne[2].

    Ogni libro andrebbe sempre vissuto come un viaggio. Se la Divina Commedia ci porta dalla Selva oscura, al Paradiso terrestre, fino a contemplare «l’Amor che move il Sole e le altre Stelle»; il nostro viaggio, molto più umilmente, ha come meta finale proprio il punto di partenza della Divina Commedia, quel ritrovarsi nella Selva oscura. Un po’ come un prequel, non autorizzato e a basso costo, dell’opera di Dante.

    Il problema del libero arbitrio, o meglio ancora della libertà dell’arbitrio, investe la filosofia occidentale da secoli, senza che tale speculazione abbia, finora, portato a risultati veramente conclusivi e generalmente condivisi nella comunità filosofica.

    Di recente, alla millenaria speculazione sul tema, si è aggiunta tutta una letteratura scientifica che sta tentando di sondare la coscienza ma che, sebbene di tanto in tanto qualcuno annunci trionfali scoperte, è ben lungi dall’essere pervenuta a una comprensione esaustiva del fenomeno del libero arbitrio.

    Non ci addentreremo nel commento di questi studi che, sebbene offrano interessantissimi spunti di riflessione, non aggiungono molto all’impianto filosofico indovedico ma, semmai, ne confermano molte intuizioni riguardo i condizionamenti e gli automatismi mentali.

    Quello che adesso più ci preme è, da una parte, avvicinare il filosofo allo yoga, visto spesso dalla categoria con diffidenza; dall’altra parte, avvicinare alla filosofia il praticante di yoga il quale, spesso, la tratta con la stessa diffidenza. Due mondi, lo yoga e la filosofia, tanto affini quanto separati da pregiudizi, presenti in entrambe le parti, che solo gli studiosi più attenti sanno superare.

    Il titolo scelto vuole richiamare un’opera di un autore poco conosciuto, Anselmo d’Aosta che, intorno al 1080, scrisse il De libertate arbitrii[3]. Anselmo d’Aosta, a differenza di Lutero e di Agostino, che rispettivamente parlano di servo arbitrio e libero arbitrio, ha il merito di porsi la domanda più corretta, interrogandosi non tanto sull’ipotesi che l’uomo sia libero o servo, quanto piuttosto sul fatto che le sue scelte siano effettivamente libere o condizionate.

    Può sembrare una differenza di poco conto ma la prospettiva cambia del tutto quando la coppia libertà/servitù non è più associata, direttamente, all’uomo in quanto tale, bensì al suo arbitrio, ovvero allo strumento che egli utilizza nel compiere le scelte che fa.

    Il problema, quindi, smette di avere un carattere squisitamente ontologico, che poco o niente ci dice della prassi, ma diventa un problema operativo, con la possibilità di essere declinato a diversi livelli.

    Un tale modo di approcciarsi a questo problema filosofico, ci è anche parso più in linea con la tradizione vedica, nella quale l’uomo, come essere spirituale, è sempre fuori da ogni dualità[4], che invece caratterizza gli strumenti psicofisici a sua disposizione. L’uomo, come essere spirituale, è pertanto sempre libero, mentre il suo arbitrio, come vedremo, è spesso del tutto condizionato cosicché quella libertà originaria quasi mai trova espressione sul piano fenomenico. La Bhagavad-Gita (BG, V.8 e XIII.30), infatti, ci avverte subito che uno yogi dovrebbe pensare: «non sono io che agisco».

    È determinante scoprire che il proprio arbitrio è servo, quando invece potrebbe essere libero; una scoperta che significa ritrovarsi nella Selva oscura di Dante, significa iniziare a dare una direzione alla propria vita, significa avviare una rivoluzione-evoluzione dell’esistenza.

    Fin da subito bisogna sottolineare che la definizione di libero arbitrio è particolarmente problematica e ciò ha evidenti, nonché inevitabili, ripercussioni nella comparazione delle varie posizioni assunte, su questo tema, dai diversi autori.

    Per fare solo un esempio taluni affermano l’esistenza del libero arbitrio facendolo coincidere con la spontaneità del comportamento, ovvero con la risposta, di per sé determinata, a uno stimolo in relazione alla propria specifica natura.

    Questi stessi pensatori, pur dichiarandosi dei sostenitori del libero arbitrio, sono, invece, considerati da altri come negatori del libero arbitrio stesso. Infatti, chi ha una visione non deterministica del mondo e attribuisce alla nozione di libero arbitrio un’accezione più estesa, tende a ritenere che l’automatismo della risposta, ancorché strettamente correlato alla più intima "spontaneità[5]" del soggetto, debba necessariamente precludere qualsiasi spazio di vera autonomia all’uomo. Possiamo quindi vedere, per esempio, come i due gruppi citati affermino entrambi, apparentemente, la stessa cosa, ovvero l’esistenza del libero arbitrio, ma lo facciano in termini assolutamente diversi e fra loro incompatibili.

    Ciò detto serva giusto per dare un’idea di quanto sia intricata la questione e non si preoccupi il lettore che si fosse smarrito nel tentativo di comprendere il precedente concetto: la si consideri una promessa, apparirà più chiaro se avrà la pazienza e la benevolenza di completare la lettura.

    Il punto che si vorrebbe fissare fin da subito, è che in filosofia «una questione del libero arbitrio non esiste. Ne esistono molte, variamente e diacronicamente intrecciate tra loro e ognuna di esse pone domande diverse: e se si assumono come corrette alcune di queste domande, altre perdono di legittimità[6]».

    Per complicare ancor di più il quadro, come sempre, la lingua usata ha un impatto importantissimo nel determinare l’idea profonda, radicata e spesso non consapevole che abbiamo di un concetto complesso come quello del libero arbitrio, nonché dell’universo di termini a esso collegato: decisione, volontà, libertà, scelta, eccetera.

    In particolare, usando l’espressione inglese free will o quella tedesca Willensfreiheit siamo naturalmente, quanto inconsapevolmente, portati ad associare alla nozione di libero arbitrio quella di volontà (will) come se le due fossero assimilabili.

    Diversamente, nel latino arbitrium l’accento è posto sulla possibilità che l’agente ha di scegliere, siamo di fronte a una libertà più legata all’aspetto della conoscenza[7].

    Potremmo dire che nel primo caso, quello delle lingue anglosassoni, sembra prevalere la funzione estrovertita e la questione della libertà diventa prevalentemente un fatto di potenza; nel secondo caso, quello delle lingue neolatine, è chiaramente preponderante l’aspetto introvertito, non è più un problema di potenza dell’agente ma piuttosto di capacità di conoscenza e di giudizio che lo stesso possiede.

    Fin dai filosofi scolastici, nella nozione di libero arbitrio viene, infatti, evidenziata una doppia polarità poiché il termine libero rimanda alla sfera volitiva mentre il termine arbitrio a quella intellettiva.

    Questa bipolarità, spesso persa soprattutto nella letteratura di matrice anglosassone, sia essa scientifica che filosofica, è invece ben presente nel modello psicologico indovedico, sempre attento alla sintesi fra funzione estrovertita e introvertita.

    Il jiva[8] diventa muktha[9] (liberato in vita) facendo affidamento sia sulla funzione intellettuale di discernimento (viveka[10]), la quale gli permette di distinguere sat e asat (spirito e natura) e di uniformarsi al dharma[11], sia sulla forza di volontà, per il cui sviluppo la tradizione dello yoga offre infatti innumerevoli esercizi pratici.

    Non ci avventureremo nell’impresa, probabilmente impossibile, di trovare una definizione che possa unificare quelle che emergono da vari pensatori, né proveremo a darne una che possa fare da benchmark per la comparazione sistematica di tutte le altre definizioni. Del resto, ne siamo convinti, qualsiasi definizione lascerebbe fuori qualcosa.

    Per consentire un’agevole lettura e non essere colti da apparenti contraddizioni, riteniamo sia sufficiente la doverosa avvertenza che l’affermazione o la negazione del libero arbitrio sono indissolubilmente connesse con l’idea, non univoca fra i diversi autori, che si ha del libero arbitrio stesso.

    D’altronde il nostro intento non sarà tanto quello di presentare in maniera sistematica il problema, in termini di analisi filosofica, bensì quello di confrontare e gettare dei ponti fra il pensiero degli autori occidentali e ciò che emerge dalla letteratura indovedica[12] sul tema di libero arbitrio.

    È facile immaginare come, essendo talmente ricca e soprattutto variegata la speculazione della filosofia occidentale sul tema trattato, questo saggio si sarebbe potuto estendere per decine di libri; come detto, tuttavia, lo scopo dell’opera non è quello di fare una completa ed esaustiva summa storico/filosofica, di cui autori sicuramente più qualificati si sono già occupati, ma è piuttosto quello di evidenziare che realizzazioni provenienti da una cultura così apparentemente lontana, sia nel tempo che nello spazio, si ritrovino in alcune intuizioni di autori della tradizione filosofica occidentale, pur se spesso in maniera disorganica e non ben strutturata.

    Come a volte ripete Marco Ferrini, i Veda non sono testi orientali fatti per gli orientali, né testi indiani fatti per gli indiani, né testi antichi fatti per antichi, né tantomeno testi sacri riservati ai soli brahmana; i Veda non sono a uso e consumo di una certa categoria, o di un certo tempo storico, ma trattano una scienza eterna e quindi universale.

    Proprio in quest’ottica, confidiamo che questo saggio sia per il lettore anche un’occasione di riflessione sul fatto che il divario della nostra cultura occidentale, generalmente percepita anni luce distante da quella orientale, si è andato ad acuire in maniera esponenziale solo di recente.

    Bisognerebbe invece comprendere davvero che, come afferma un altissimo conoscitore della tradizione classica quale è sicuramente il Tonelli, «guardare alle radici della nostra cultura significa anche guardare alla sapienza d’oriente, perché anche di essa era pervasa la sapienza di Pitagora, Eraclito, Parmenide, Empedocle, Democrito e Platone[13]».

    Come ben osservava Julius Evola, infatti, sarebbe oggi probabilmente più corretto parlare di un profondo divario fra la cultura moderna e quella tradizionale, piuttosto che fra cultura occidentale e orientale[14].

    [1] Come già segnalato da molti, è sicuramente significativo che Dante chiarisca, fin dall’inizio, che egli non parla della propria vita ma della nostra vita; così facendo evidenzia subito che non si tratta del suo viaggio ma del viaggio di tutti noi, o almeno di coloro che hanno la capacità di ri-trovarsi.

    [2] «L’insight, diretto o indiretto, è uno dei mezzi più efficaci che si possono utilizzare per risvegliare energie latenti. Deve essere conseguito senza sforzo, predisponendosi in maniera cosciente, serena ed aperta. Il metodo può consistere nella ripetizione di mantra […]. Può avvenire nella forma di evocazione di ricordi o contemplazione di immagini sacre o intonando canti devozionali accompagnati da motivi musicali, oppure assumendo atteggiamenti adatti allo stato d’animo che si vuole suscitare o rafforzare». M. Ferrini, Il ruolo della volontà, Edizioni CSB, Ponsacco, 2016, p. 106.

    [3] Una nota interessante è che quest’opera è scritta come insegnamento del maestro al discepolo, un genere di scrittura che nei Veda è riscontrabile nelle Upanishad, termine che letteralmente significa sedute ai piedi (del maestro). È proprio durante queste occasioni che i discepoli ricevevano gli insegnamenti di natura più confidenziale, motivo per cui le Upanishad sono considerate a tutti gli effetti testi iniziatici. Cfr. A. Porso, La libertà. Il De Libertate arbitrii di Anselmo d’Aosta, Rogate, Roma, 1991.

    [4] Il tema del superamento delle dualità, della necessità di andare oltre a esse era un fondamento, spesso dimenticato, anche di tutto il pensiero occidentale più antico. «Il Dio è giorno notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame». In Eraclito, fr. 67.

    [5] Non si tratta di una spontaneità che attiene allo spirito, ma di qualcosa che attiene al carattere; questo approccio presupporrebbe, quindi, un’identità fra il carattere e il sé. Un’identità che, come vedremo meglio, è con forza rifiutata da tutta la tradizione vedica secondo la quale il carattere è una sovrastruttura, una falsa identificazione, una mera manifestazione, un involucro mentale che nasconde il sé autentico e profondo.

    [6] M. De Caro-M. Mori-E. Spinelli (a cura di), Libero arbitrio. Storia di una controversia filosofica, Carocci editore, Roman, 2014, p. 13.

    [7] «Arbitrium sembra avere a che fare, più che con la volontà, con l’intelletto, nella misura in cui è di fatto quest’ultimo a soppesare e valutare le possibili alternative in vista di un’azione». P. Porro, Trasformazioni medioevali della libertà, in M. De Caro-M. Mori-E. Spinelli (a cura di), Libero arbitrio…, cit., p. 173.

    [8] Questo termine indica l’essere vivente come unione fra un corpo materiale (prakriti) a un’anima spirituale (atman). Jiva non sono solo gli esseri umani ma lo sono anche le piante, gli animali e finanche le più piccole cellule.

    [9] Participio passato di moksha, indica quindi colui che ha raggiunto la liberazione.

    [10] Questa è la più alta facoltà di cui l’uomo può disporre fra gli strumenti di cui è dotato. Nel samkhya la capacità di discernimento è infatti associata alla buddhi che, fra tutte, è la componente psichica più sottile e più vicina al sé.

    [11] Un termine che Ferrini ha più volte definito come polisemico, include sia il concetto di religione che quello di morale nel suo ampio campo semantico. «Tra i vari significati del termine dharma ricordiamo quelli di legge, dovere, religiosità, giustizia, natura e qualità, inerenti a oggetti o persone. Dharma è anche il divino ordine socio-cosmico che regola e sostiene la vita dell’uomo e dell’universo (la radice sanscrita dhr-, sulla quale si costruisce il termine, significa infatti reggere, sostenere). Il dharma non è un ordine artificiale che determina una repressione delle istanze profonde dell’essere, bensì quella norma universale che è inscritta, quasi come codice genetico, nell’intimo di ogni creatura e la cui infrazione provoca una condizione innaturale, limitante e patologica, inevitabilmente segnata da conflitti e sofferenze. È sulla base di questa consapevolezza profonda che nella società tradizionale indiana la religiosità non viene intesa come mera ritualistica, magari compiuta passivamente e comunque relegata in un ristretto ambito dell’esistenza; al contrario essa rappresenta un modo di essere e di vivere che permea l’individuo in tutta la sua totalità antropologica, così come evidenzia il binomio religione-natura (propria di ciascun essere vivente), perfettamente esplicitato dal concetto di dharma)». In Glossario Sanscrito Fondamentale Enciclopedico, http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/varia/glossario.pdf, p. 25, consultato l’8 luglio 2020.

    [12] Con il termine indovedico si vuole dare un’accezione molto vasta e racchiudere tutta la letteratura smriti e shruti, (tradizionale e rivelata) sia scritta in sanscrito classico che in vedico. Parliamo quindi di un corpus letterario immenso e sviluppatosi nel corso di millenni che, tuttavia, trova la sua

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