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La buona impresa
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E-book229 pagine3 ore

La buona impresa

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Si può contribuire al bene comune facendo impresa? Da più parti viene espressa la necessità di cambiare la nostra economia a causa degli enormi problemi di tipo ambientale e sociale. Una delle tesi più accreditate è che tale cambiamento possa avvenire solo attraverso un'azione collettiva. In effetti sempre più imprese operano con l'obiettivo di "migliorare il mondo": in particolare, in molte startup - pur nella consapevolezza di dovere raggiungere un equilibrio economico-finanziario - è forte il desiderio di generare impatto sociale. A questo tipo di imprese, sempre più diffuse nel nostro Paese e all'estero, abbiamo ritenuto di dedicare attenzione con questo volume. Il racconto delle loro storie può essere di ispirazione per tanti giovani potenziali imprenditori ed è stato usato anche per trarre alcuni insegnamenti di management utili per chi effettivamente volesse intraprendere questo viaggio dall'idea all'impatto.
LinguaItaliano
Data di uscita22 lug 2021
ISBN9788863458930
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    Anteprima del libro

    La buona impresa - Andrea Piccaluga

    Prefazione

    Le grandi sfide sociali, ambientali e sanitarie impongono modelli di innovazione inclusiva e responsabile, guidata dai bisogni della società. Questi nuovi paradigmi di innovazione si accompagnano a una radicale trasformazione nei modelli di imprenditorialità. Al centro di questa trasformazione c’è quello che molti definiscono l’imperativo dell’impatto: la ricerca intenzionale di un impatto sociale e ambientale positivo e misurabile, attraverso modelli di impresa economicamente sostenibili.

    Questo modello di impresa orientata all’impatto è il prodotto possibile di due traiettorie evolutive convergenti che si contaminano a vicenda. Da un lato, l’impresa profit, che si adatta alle nuove sfide e sperimenta modelli nei quali l’impatto sociale è parte integrante e inscindibile della strategia d’impresa. Dall’altro, le forme di imprenditorialità sociale, già oggi ibride nel saper rispondere a bisogni sociali e insieme nell’essere economicamente sostenibili. I tratti di questa loro trasformazione sono la maggior strutturazione manageriale, un certo appetito finanziario e l’intensità di tecnologia e competenze.

    Proprio alla convergenza tra questi due processi evolutivi comincia a prendere forma il modello ibrido del futuro: l’impresa che integra strutturalmente la dimensione di profitto con quella di impatto. Quando questa dimensione ibrida incontra le opportunità tecnologiche nascono le straordinarie storie imprenditoriali che leggiamo in questo libro.

    Peraltro, prima della frontiera dell’high-tech, esistono opportunità tecnologiche, low-tech e medium-tech, relativamente economiche e facili da usare, destinate a innovare le forme di risposta ai problemi sociali e a consentire la scalabilità dei modelli imprenditoriali che realizzano gli interventi, ampliando il numero dei possibili beneficiari e realizzando diverse forme di efficienza.

    Come dimostrano i casi che leggiamo nelle pagine seguenti, questo modello ibrido e contaminato dalla tecnologia è ormai realtà e sta profondamente trasformando i modelli di imprenditorialità tecnologica: già oggi vi è una forte sovrapposizione tra startup high-tech e imprese sociali. Sono organizzazioni che per utilizzo della tecnologia, modelli gestionali e di business sono facilmente riconducibili alle startup ad alta tecnologia, ma che nel contempo, per missioni, valori, governance e obiettivi, ricordano l’archetipo dell’impresa sociale. Proprio per integrare queste caratteristiche assumono forme giuridiche diverse e articolate, di benefit corporation, di startup a vocazione sociale, di imprese cosiddette profit for purpose o organizzazioni del terzo settore.

    Le startup a impatto sociale che troviamo descritte in questo libro sono una delle manifestazioni più concrete di questo processo di ibridazione imprenditoriale unita a una forte contaminazione tecnologica. Non a caso, in questo volume troviamo una collezione di casi eterogenei che popolano la grande terra di mezzo che sta tra il terzo settore e un profit che sa ibridarsi e adattarsi ai bisogni della società e delle comunità.

    Ed è esattamente all’intersezione tra tecnologia e impatto sociale che si diparte una traiettoria di sviluppo capace da un lato di trovare nuove risposte a problemi sociali emergenti, dall’altro di promuovere una inedita forma di nuova imprenditorialità a elevatissimo potenziale di crescita e infine ancora di definire un contesto imprenditoriale nel quale la tecnologia viene restituita alla sua naturale dimensione di sense and purpose, nel contempo mitigando le conseguenze inattese, imprevedibili e talvolta negative della stessa.

    L’innovazione di senso, il sense of purpose di ogni atto imprenditoriale e tecnologico è la stella polare per dare un significato concreto alla ripartenza e all’uscita dalla crisi, per tracciare una strada di riforma strutturale e radicale del nostro modo di intendere il progresso. L’innovazione di senso ha bisogno di nuovi interpreti che dobbiamo imparare a cercare in luoghi diversi da quelli che siamo abituati a frequentare.

    Veniamo da un modello basato sul principio che un’abbondante produzione di ricerca e conoscenza avrebbe fornito un numero sufficiente di nuove opportunità su cui basare la nostra capacità di innovazione, per rispondere alle sollecitazioni del mercato e della società. Su questa base e in un contesto di relativa abbondanza di risorse e di scarsi vincoli, abbiamo giustamente potenziato la nostra capacità di produrre nuove idee, fino a che si è aperto un problema nuovo: come facciamo a estrarre un valore, un significato e un senso da queste idee? Sappiamo ancora definire il valore e il senso di ciò che realizziamo? E, soprattutto, questo modello basato sull’abbondanza di risorse da dedicare alla ricerca e sull’assenza di vincoli all’innovazione, è ancora attuale di fronte alle grandi sfide della diseguaglianza, della crisi climatica, dell’ambiente e delle pandemie?

    A Stanford, Nicholas Bloom ha presentato qualche tempo fa una ricerca dal titolo Are Ideas Getting Harder to Find?, dove offre l’evidenza che la ricerca stia diventando sempre meno produttiva nel generare nuove opportunità e si domanda se il progresso tecnologico sia ancora in grado di sostenere la crescita economica ai tassi che conosciamo. Molti cosiddetti unicorni tecnologici, imprese che valgono oltre il miliardo di dollari, si ritrovano improvvisamente nudi di fronte all’economia reale. Si moltiplicano gli studi che dimostrano che l’economia della conoscenza ha portato con sé nuovi monopoli, diseguaglianza, esclusione e rabbia sociale. Cosa sta succedendo al rapporto tra innovazione tecnologica, società ed economia? Da dove si riparte per ricucire la lacerazione? La prima risposta è scontata e sacrosanta: aumentando gli investimenti in ricerca e innovazione. La seconda è meno ovvia: dobbiamo reimparare a innovare in un mondo di risorse scarse, di vincoli stringenti e in cui dominano i bisogni sociali.

    Le startup a impatto sociale di cui leggerete nelle pagine che seguono, stanno esplorando nuove strade per continuare a innovare quando la convergenza tra emergenze sociali, vincoli ambientali e emergenze climatiche, renderanno impraticabili le traiettorie tecnologiche convenzionali, imparando a generare soluzioni creative proprio da chi è abituato a risolvere i problemi con poche risorse, ad esempio tra chi opera nei Paesi in via di sviluppo ma anche tra chi nei Paesi più sviluppati si occupa degli svantaggiati, degli esclusi, di coloro che sono in difficoltà. Chi innova primariamente per rispondere a grandi e piccole sfide sociali in condizioni di difficoltà rappresenta oggi uno straordinario giacimento di innovazione ancora sostanzialmente inesplorato, non per sostituire la tecnologia, ma per combinarla con forme di creatività e innovazione sociale che gli innovatori più tradizionali hanno ormai dimenticato.

    Abbiamo negli scorsi decenni riposto nella cosiddetta economia della conoscenza e nei suoi alfieri imprenditoriali, le startup, gli incubatori, il venture capital, grandi aspettative per una nuova stagione di crescita, prosperità ed eguaglianza. Un grande contributo è venuto da questi protagonisti e molto potrà ancora venire; tuttavia, molte evidenze dimostrano che i nuovi paradigmi imprenditoriali intensivi di conoscenza e tecnologia hanno fortemente contribuito ad aumentare le diseguaglianze, creando grandi densità di ricchezza e opportunità in pochissimi luoghi e in altrettanto poche porzioni di società. La geografia sociale e industriale europea è fortemente connotata da crescenti diseguaglianze che non potranno che aumentare nella fase post-pandemica. In questi luoghi, le reti delle organizzazioni sociali e della nuova imprenditorialità del saper fare, fortemente radicata nelle comunità, sono l’unica risorsa imprenditoriale per nuove ipotesi di creazione di valore economico e nel contempo di creazione di capitale sociale. È per questo che dobbiamo cedere alla suggestione di immaginare queste reti come degli straordinari incubatori e acceleratori di nuova impresa tecnologica a impatto sociale diffusi sul territorio, scommettendo sul potenziale coesivo e trasformativo che esse portano in dote.

    Non per caso, la Commissione europea ha inserito la Proximity and Social Economy tra i quattordici cluster industriali su cui si basa il rilancio della crescita in Europa, in ragione delle prospettive che si aprono con l’incontro tra imprenditorialità a impatto sociale e tecnologia. L’intuizione politica è quella di considerare la social and impact economy nel perimetro delle politiche industriali per una crescita più equa e inclusiva. Questo obiettivo si raggiunge mettendo la contaminazione tra impresa a impatto sociale, tecnologia e scienza al centro della politica industriale e tecnologica, facendo leva sulla capacità del sistema della ricerca e delle università di ripensare la propria terza missione e i suoi modelli di trasferimento tecnologico anche in funzione di questo obiettivo.

    Ciò che leggiamo in questo libro dimostra che si può fare.

    Mario Calderini

    L’intraprendenza contagiosa

    Negli ultimi anni un intenso dibattito ha riguardato il tema dei danni causati dal capitalismo sulla società. Nello stesso periodo sono stati anche osservati cambiamenti significativi negli approcci strategici di molte imprese e imprenditori, che hanno adottato comportamenti volti a una crescita economica sostenibile, equa e inclusiva. Un numero crescente di imprese ha perseguito la creazione di valore sociale, considerando i profitti non l’obiettivo primario, ma una sorta di conseguenza della capacità di un’impresa di risolvere bisogni sociali delle persone e dell’ambiente.

    Anche molte startup sono caratterizzate da un’impostazione di questo tipo e ne abbiamo selezionate diciassette – anche grazie alla collaborazione di Netval, il network italiano per la valorizzazione della ricerca – operanti in varie regioni italiane e in diversi settori economici, sia per capirne meglio le caratteristiche che per presentarle come esempio ispiratore per altri potenziali imprenditori. Si tratta di imprese ovviamente diverse tra loro per contesto di partenza, compagine societaria e prospettive di crescita. Abbiamo tuttavia identificato una serie di tratti ricorrenti che vengono di seguito presentati e discussi.

    Il ruolo delle precedenti esperienze degli imprenditori. In molti casi il vissuto degli imprenditori è stato la scintilla che ha innescato il progetto della startup. Questo elemento è comune a tante imprese, ma è innegabile che esperienze nel campo del volontariato, spesso anche all’estero, o comunque una diretta esposizione a fragilità sociali e problemi concreti, ha fortemente segnato l’impostazione strategica dei nostri imprenditori. Se le diverse teorie sull’imprenditorialità enfatizzano l’importanza degli occhiali attraverso cui gli imprenditori possono guardare la realtà e notare opportunità dove altri vedono problemi, le esperienze pregresse a cui sono stati esposti gli imprenditori a vocazione sociale con cui siamo entrati in contatto forniscono loro veri e propri dispositivi di realtà aumentata con cui analizzare situazioni e trovare risposte. In altre parole, questi imprenditori stanno lasciando tracce della loro azione che sono molto coerenti con il loro vissuto e la loro spinta a intraprendere è stata molto influenzata dal modo in cui si sono confrontati con situazioni di disagio e di sofferenza.

    L’importanza delle capacità manageriali. Nonostante che per questi imprenditori il purpose rappresenti la raison d’être dell’impresa, è evidente come loro siano consapevoli della necessità di essere in grado di utilizzare tutti gli strumenti di management in uso nelle imprese con vocazione sociale meno spiccata o del tutto assente. Come tanti altri startupper, anche i nostri hanno imparato a fare pitch, leggere bilanci, gestire lanci di prodotti e campagne di marketing, reperire finanziamenti per l’innovazione e la crescita. Sono perfettamente consapevoli della necessità di perseguire un equilibrio economico-finanziario e che la loro azienda debba arrivare a mantenere nel tempo un vantaggio competitivo, frutto di un modo diverso di creare valore rispetto ad altre soluzioni. Ma la vera novità è che il concetto di creazione di valore e le fonti di diversificazione non sono rappresentabili esclusivamente da linguaggi aziendali. Essi travalicano nettamente i confini dell’impresa, fanno parte di un capitale socio-emotivo che ancora non figura nei bilanci aziendali che siamo abituati a leggere, ma rappresentano asset e fonti di competitività che l’impresa deve imparare a gestire.

    Capacità relazionali e creazioni di reti. Appare particolarmente spiccata, in questi imprenditori, un’altra caratteristica che è già di per sé molto sviluppata in chiunque intraprenda una nuova attività economica, e cioè la capacità di stringere relazioni, coinvolgere altre persone, entrare in empatia con loro, creare reti. In generale, una qualunque idea imprenditoriale si completa solamente orchestrando competenze, esperienze diverse e complementari, ma per gli imprenditori a forte vocazione sociale è innato il desiderio di creare valore in maniera condivisa, coinvolgendo un’ampia schiera di portatori di interesse. Ciò contribuisce a generare rapporti interpersonali caratterizzati da elevata fiducia, a una condivisione con partner industriali e finanziari della mission da cui l’imprenditore è partito. Questa dinamica sembra testimoniata anche dalla relativa facilità con cui queste startup hanno attratto finanziamenti esterni, sia con dinamiche crowd che tramite investitori istituzionali.

    L’innovazione che parte dalla fragilità. In molti casi, l’innovazione di prodotto o di servizio proposta ha una natura che si può definire demand-pull, essendo stata ispirata dalla vicinanza fisica a situazioni di fragilità, vulnerabilità e sofferenza. L’intuizione imprenditoriale alla base di queste storie valorizza spesso gli scarti: risorse di varia natura marginalizzate o proprio rifiutate dal sistema economico, di cui invece i nostri imprenditori riscoprono la ricchezza. In altri casi, a guidare la mission aziendale è stata la tenacia nel voler proporre soluzioni economicamente sostenibili per situazioni difficili, nicchie di mercato ignorate o che nessuno voleva o poteva soddisfare. Nel concreto, i fondatori di queste startup, con un approccio dal basso, riescono a rispondere a questo tipo di bisogni con proposte molto mirate e su misura, tramite l’adozione di processi di progettazione e di creazione di nuovi modelli di business che per vari motivi non sono appannaggio delle imprese incumbent di maggiori dimensioni.

    Il ruolo delle tecnologie avanzate. Come noto, l’eccessiva pervasività di tecnologie molto energivore e capaci di creare disuguaglianze all’interno degli Stati e tra gli Stati viene spesso posta al centro delle riflessioni sulle distorsioni del sistema capitalistico. Da qui anche la ricerca volta alla produzione di tecnologie verdi e sobrie, capaci di ovviare ai problemi sopra descritti. Ebbene, in certa misura le tecnologie sviluppate ad hoc e utilizzate dagli imprenditori che abbiamo intervistato rispondono a tali requisiti. Sono infatti tecnologie avanzate, frutto in alcuni casi di percorsi di ricerca pluriennali, ma che allo stesso tempo mirano a ridurre l’impatto negativo sull’ambiente e a generare processi di inclusività e non di esclusione.

    Il contributo dell’università alla nuova imprenditorialità a vocazione sociale. In quasi tutti i casi analizzati è evidente il contributo dell’università. Si può trattare della formazione del futuro imprenditore, di specifici corsi di laurea e lavori di tesi, di progetti di ricerca a contratto, di tecnologie incorporate in brevetti, di servizi forniti tramite appositi uffici (come quello di trasferimento tecnologico) ecc. Il contributo dell’università e della ricerca pubblica in generale appare quasi sempre fondamentale. La riflessione che si può qui proporre è che risultati di questo tipo sono stati ottenuti praticamente in assenza di specifica attività di formazione all’imprenditorialità sociale e senza formali ricerche e riflessioni sulle connessioni tra ricerca/innovazione e bene comune. È quindi lecito guardare al futuro con ottimismo, nel constatare come l’interesse su questi temi sia in netta crescita e come in futuro avremo imprenditori certamente più preparati anche su questi temi.

    Il radicamento territoriale. A parte alcune eccezioni, le startup a vocazione sociale qui analizzate sono caratterizzate da un forte radicamento territoriale. Da una parte il territorio di appartenenza è inevitabilmente la comfort zone dei neo-imprenditori, dove essi riescono a valorizzare meglio le reti di collaborazione di cui magari già facevano parte, magari anche con un’altra identità professionale. Dall’altra, è chiaro l’intento di creare valore e di risolvere problemi in primis sul proprio territorio, al quale gli imprenditori sono chiaramente legati da un particolare legame di appartenenza. Il territorio è pertanto al contempo fornitore di risorse e beneficiario dell’attività d’impresa in una sorta di circolo virtuoso del processo di creazione di valore.

    Le prospettive future. Come spesso accade nei libri che descrivono e discutono casi di startup, non sappiamo se le iniziative qui descritte avranno tutte successo, misurando quest’ultimo soprattutto rispetto agli obiettivi e ai sogni che hanno animato le prime attività degli imprenditori. In alcuni casi si intravedono fasi di crescita intensa, in altri abbiamo evidenziato la maturazione di un progetto che fa evolvere l’intuizione iniziale in un’iniziativa più organica e completa, mentre in talune circostanze si percepisce una certa incapacità di attraversare il famoso burrone (chasm) che viene dopo la primissima fase di vendite vivaci. Non avevamo l’obiettivo né la pretesa di lanciarci in un esercizio di identificazione ex ante dei casi di successo, nella consapevolezza che quando si tratta di startup l’esercizio è estremamente rischioso. La percezione, tuttavia, è che in tutti i casi esaminati gli imprenditori abbiano ben chiaro che la causa principale di fallimento delle startup è la mancanza di domanda da parte del mercato. Chissà che proprio l’orientamento sociale, purpose-driven, di queste imprese, non le metta maggiormente al riparo da questo rischio e non rappresenti un’ulteriore prova

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