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Non profit: Fisco, tecnologie, alleanze per entrare nel terzo settore
Non profit: Fisco, tecnologie, alleanze per entrare nel terzo settore
Non profit: Fisco, tecnologie, alleanze per entrare nel terzo settore
E-book110 pagine1 ora

Non profit: Fisco, tecnologie, alleanze per entrare nel terzo settore

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Con oltre 364mila enti non si ferma la crescita del terzo settore, che affrontare le nuove emergenze - la crescita delle disuguaglianze sociali, la crisi climatica, la povertà educativa – come emerge nella Guida al Terzo Settore. I tempi sono maturi affinché il non profit non sia più la stampella della Pubblica amministrazione né un meccanismo riparatore di mercato.
La stessa Commissione Ue ha lanciato un vero e proprio Piano per l'economia sociale, che dovrà essere declinato nei Paesi europei e che di fatto riconosce questa economia come uno dei settori industriali strategici della Ue.
La prossima occasione per le non profit è il Pnrr che stanzia 37,6 miliardi per misure di interesse per il terzo settore, che però sinora è stato poco coinvolto nella realizzazione concreta dei progetti. Intanto il settore sta affrontando il passaggio al Registro Unico Nazionale per il Terzo Settore, sono oltre 98mila gli enti iscritti a metà marzo. Questo passaggio istituzionale è stato in parte favorito dalla transizione digitale degli enti che ha visto una accelerazione durante la pandemia, quando hanno dovuto rispondere tempestivamente ai nuovi bisogni e ripensare online i servizi.
LinguaItaliano
Data di uscita30 apr 2023
ISBN9791254841808
Non profit: Fisco, tecnologie, alleanze per entrare nel terzo settore

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    Anteprima del libro

    Non profit - AA.VV.

    1. IL POTENZIALE TRASFORMATIVO DEL NON PROFIT

    TRANSIZIONI

    Il terzo pilastro per sostenere sviluppo e fiducia

    Paolo Venturi

    Immaginare il cambiamento e costruire il futuro ci proietta verso un nuovo umanesimo tanto nell’economia, quanto nel lavoro e nel welfare. Ma perché tutto ciò non si riduca a un mero slogan è necessaria la costruzione di un nuovo ordine sociale capace di prendersi il rischio di declinare nella formula dello sviluppo integrale sia gli obiettivi quantitativi, che quelli qualitativi. Lo sviluppo, infatti, postula la piena valorizzazione di tutte quelle componenti civiche e civili che costruiscono la premessa della prosperità e che troppo spesso giacciono in panchina quando si giocano le partite che contano (come nel caso del Pnrr). Il termine «umanesimo» dovrebbe farci tornare alla metà del XV secolo (umanesimo civile), quando in Toscana un significativo numero di intellettuali cominciò a cambiare visione sulla relazione esistente fra le varie sfere della società: cultura, politica e società dovevano interagire per il bene comune. Da questa breve premessa emerge con chiarezza come sia impensabile parlare oggi di umanesimo senza potenziare la dimensione contributiva di tutte le formazioni socio-culturali ed i soggetti economici nati da motivazioni diverse da quelle orientate alla mera utilità del singolo.

    L’Italia è un paese ricchissimo di reti, legami, economie, luoghi e opere nate da percorsi comunitari e associativi aventi un orizzonte pubblico: le oltre 364mila organizzazioni non profit, i quasi sei milioni di volontari e il milione di occupati sono solo una parte di quel tessuto sociale che ha il suo valore espressivo ed emergente non tanto nell’essere una stampella della Pubblica Amministrazione o un meccanismo riparatore del mercato, bensì nel promuovere valore in maniera relazionale, producendo così un mutuo beneficio a tutti gli attori in campo. L’umanità fiorisce dentro una dimensione relazionale dove al centro risiedono comportamenti e norme sociali, e non solo un governo e una democrazia efficienti.

    Abbiamo certamente bisogno di dilatare il perimetro del pubblico e della partecipazione, ma non a discapito del riconoscersi e del farsi comunità. Valorizzare l’apporto della comunità non è una strategia rivendicativa, bensì una premessa per rigenerare entusiasmo e fiducia. La fiducia, infatti, non è un vago sentimento, ma la possibilità concreta che un bene possa essere condiviso, che le transazioni e gli scambi di mercato possano essere più efficienti, che le politiche possano avere impatto sociale. Un progetto di paese che guarda al futuro non può essere anaffettivo rispetto al terzo settore e alla cooperazione, perché è nella piena valorizzazione di queste istituzioni che si genera quel capitale sociale necessario a una vita buona e una economia inclusiva.

    ANALISI

    Le oltre 364mila organizzazioni non profit

    non sono una stampella della Pa ma promuovono valore in maniera relazionale a beneficio di tutti

    Non profit

    Il benessere, infatti, dipende da tre categorie di beni: privati, pubblici e comuni. La politica negli ultimi 50 anni si è concentrata troppo sui beni privati, troppo poco sui beni pubblici e quasi per niente sui beni comuni, per la cui fruizione e gestione è necessaria una convergenza di intenti, organizzativa e di governo. In altri termini, il tema dei beni comuni (dalla conoscenza, all’acqua, dall’ambiente, alla salute) non si può risolvere dentro una schermaglia ideologica fra privatisti e statalisti, ma chiede alla politica di aprire la porta a nuove forme di mutualismo e impresa che vedono il terzo pilastro protagonista.

    Le sfide legate alle grandi transizioni, come quella ambientale, digitale, sociale, non sono neutre e ci restituiscono nuove forme di povertà (in Italia il 10% dei bambini e adolescenti vive in condizione di povertà energetica); non si perseguano in solitaria, alimentando dicotomie (noi e loro, le istituzioni ed i cittadini), ma attraverso un metodo cooperativo che, assumendo la complessità e l’interdipendenza come fattori strutturali, mette in campo alleanze di scopo intorno a sfide epocali come quelle che toccano l’educazione e il lavoro. Una visione in cui diventa centrale l’attivazione dei cittadini, spesso protagonisti di forme innovative di cura e gestione degli spazi urbani, di rigenerazione di beni abbandonati e di beni culturali inutilizzati. Solo 20 anni fa questi beni si rigeneravano attraverso percorsi speculativi o di finanza pubblica; oggi il loro futuro è in mano a quella spinta dal basso capace di restituire una funzione comune. Per attivare questi processi di rigenerazione, non basta più solo l’intervento pubblico, occorrono politiche che lascino spazio a nuove economie comunitarie e nuove forme d’imprenditorialità sociale. Il valore di un asset passa sempre di più dal suo valore d’uso (comunitario) e dal valore di legame che genera.

    Per curare le ferite della pandemia e affrontare le grandi transizioni occorrono azioni trasformative e non solo un’ampia e profonda azione di redistribuzione. La sempre più urgente lotta alle disuguaglianze - in Italia il numero di individui in povertà assoluta è quasi triplicato dal 2005 al 2021, passando da 1,9 a 5,6 milioni, il 9,4% del totale - non può essere affrontata senza una reale inclusione e attivazione di cittadini, istituzioni e reti orientate all’interesse

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