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Il Vangelo Degli Angeli
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E-book404 pagine5 ore

Il Vangelo Degli Angeli

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Info su questo ebook

In una fortezza nell’alto dei cieli gli angeli della Guardia Reale, guerrieri dello spirito, soldati azzurri con giubbe e calzari, fanatici delle missioni esclusive, sono riuniti in attesa del prossimo incarico. La chiamata arriva, il prescelto è Gabriele, che dovrà far brillare nuovamente l’alleanza tra Dio e gli uomini, annunciando l’arrivo del Figlio.
Comincia così la grande riscrittura dei Vangeli da parte di Eraldo Affinati, uno dei principali autori italiani che, sin dall’esordio tolstojano, ha scelto di credere nell’educazione dedicando le proprie energie agli alunni più difficili e ai minorenni non accompagnati, i giovani migranti da lui spesso definiti “i ragazzi di Barbiana di oggi”, con riferimento alla comunità fondata da don Lorenzo Milani.
In questo libro di piena maturità espressiva ci invita a tornare a Gesù, maestro e profeta, con occhi nuovi. Il viaggio dello scrittore, umilmente consapevole e tuttavia capace di aprire suggestivi spazi fantastici e narrativi, parte dalle fonti, Luca e Giovanni soprattutto, ma anche gli Atti degli Apostoli, e alle fonti resta fedele, pur trasfigurandole in un’opera assolutamente originale dove troveremo, sullo sfondo dello straordinario paesaggio palestinese, tutti gli episodi del testo sacro, dalla nascita alla crocefissione e oltre ancora, filtrati dalla sensibilità dell’autore, al tempo stesso affascinato e coinvolto. Cosa significa avere fede? Che senso attribuire al male umano? Quale uso possiamo fare della nostra libertà? Perché la giustizia terrena non ci basta? Come dobbiamo esercitare la responsabilità che sentiamo nei confronti degli altri?

Queste antiche domande, che hanno sempre alimentato l’ispirazione etica e civile di Eraldo Affinati, stavolta si misurano con l’amore di Cristo verso di noi, rilanciando, per credenti e non credenti, la forza imperitura del suo messaggio.
LinguaItaliano
Data di uscita26 ago 2021
ISBN9788830530560
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    Anteprima del libro

    Il Vangelo Degli Angeli - Eraldo Affinati

    1

    La Guardia Reale

    Il reggimento angelico abitava nella fortezza di là dal cielo, oltre i mari, i monti, le città e i deserti, il sole e le stelle. I monaci alati che ne facevano parte, scelti nel novero dei più intraprendenti e volitivi, vivevano solerti e composti, guerrieri dello spirito, soldati azzurri con giubbe e calzari, fanatici delle missioni esclusive, pronti a tutto pur di eseguirle. Il destino aveva giocato sporco con questi ragazzi e ragazze quasi troppo belli per essere veri, prima illudendoli nella possibilità di avanzare rispetto alle condizioni di partenza, poi recidendo senza pietà le loro passioni distintive. Erano stati artigiani e lavoratori, artisti e poeti, donzelle e musiciste, sognatori e giocolieri, in poco tempo bruciati nel commercio amaro coi patti sociali, traditi e traditori, segnati dall’infedeltà e dal rimorso, schiacciati sotto il peso della colpa e dell’inerzia. Eppure, giunti al fondo della disperazione, dopo aver guardato in faccia i draghi dell’individualismo, con il corpo piegato e le mani poggiate alle pareti dei muri ciechi oltre i quali non potevano fuggire, erano riusciti a trovare la forza per contrapporsi innanzitutto a se stessi, guadagnando uno spunto utile alla risalita nella scoperta di un varco luminoso dove intrufolarsi e ripartire: in ragione di tali comportamenti erano stati premiati.

    Adesso, entrati a far parte della Guardia Reale – la compagnia di gran lunga più ambita –, veterani dei bivacchi sopramondani, si addestravano con dedizione per dimostrarsi preparati alla chiamata. Che poteva avvenire in qualsiasi momento. Senza preavviso. Bastava che l’inconfondibile squillo dei trombettieri marzialmente schierati sui contrafforti si diffondesse da una parte all’altra del castello per eccitare gli animi degli eletti e scandirne il battito nascosto del cuore.

    La Terra era una crosta scura laggiù nello strapiombo, scomposta fiumana di volonterosi: di solito bastavano pochi colpi d’ala per atterrarvi nella segretezza più assoluta. I cadetti, dalle fronti alte e scoperte, pallidi e tremanti ma carichi di gioia, uscivano dai portelli già inclinati in direzione dell’abisso. Pronti al lancio. L’aria schiaffeggiava i loro volti smaniosi. Alcuni ancora adolescenti, col sorriso infinito dei primi capitani; altri più maturi, temprati dall’esperienza. Molte amazzoni dal piglio severo e consapevole. Atlete abituate al sacrificio. Tanti feriti rimarginati, consolatori dei falliti. Appena giungeva il segnale, questi eroi del sostegno attivo nei confronti dei più svantaggiati, fratelli dei perdenti, animatori della buona fede, cultori della speranza, non esitavano a gettarsi nel vuoto. Dopo qualche turbolenza, trovavano subito l’assetto e partivano. Non avevano orario. Sapevano di doversi predisporre al servizio continuo. Scattavano sull’attenti ogni volta che si accendeva la luce rossa della convocazione: quelli anzi erano gli istanti più desiderati. Anche quando non dovevano andare in azione, i ragazzi avevano sempre qualcosa da fare. Si esercitavano alla sbarra sulla ringhiera d’argento allo scopo di migliorare l’agilità. Indossavano gli abiti dei possibili travestimenti. Provavano le voci. Imparavano la dizione. Non lasciavano niente al caso.

    Sentivano di appartenere a un drappello speciale: individui unici anche rispetto ai numerosi compagni rimasti nella sfera superiore, addetti alle devozioni contemplative, quasi fossero, a differenza di quelli, ancora legati alla memoria della vita materiale, nell’intrico e nel tumulto delle emozioni, a mezza costa fra cielo e cratere: del resto, se così non fosse stato, non avrebbero avuto la forza e la spavalderia di scendere nel gorgo. Ciò conferiva agli araldi, preferiti dai generali nell’unità di comando – anche se questi non lo avrebbero mai ammesso –, una caratteristica emotività: appena captavano nell’aria la presenza di un mandato, i banditori entravano in fibrillazione.

    Chi di noi sarà convocato?

    Avrò la capacità di eseguire la mansione che mi verrà assegnata?

    Saprò guadagnarmi la fiducia?

    Queste domande, di norma non concepibili all’interno del regno angelico, continuavano a filtrare nel presidio, alla maniera di un resto d’umanità spumeggiante, rendendo i fantastici prescelti più deboli, sì, ma anche più affascinanti, almeno secondo la nostra interpretazione.

    Ci fu un’epoca, accuratamente conservata nei manuali, in cui essi vennero convocati molto spesso. Un traffico degno di suscitare molteplici attenzioni: infatti nella cavità astronautica dei piani alti non passò inosservato il vorticoso viavai degli operosi corrieri. E, chissà, forse nelle stanze regali strappò qualche affettuoso rimbrotto la visione dei ragazzini, appena giunti nella beata cornice, che, cullati nell’ovatta addensata intorno alle guglie dalle bandierine sventolanti, al cospetto dei nunzi che andavano e venivano, sghignazzavano irriverenti, qualcuno di loro addirittura non esitando a fare la pipì in testa ai messaggeri.

    2

    Arcangelo in missione

    Quel giorno capitò che Gabriele – sia benedetta l’anima sua – venisse interpellato durante la colazione, consumata come d’abitudine sempre tutti insieme. In verità lui, con Michele e Raffaele, occupava di norma lo spazio speciale destinato agli arcangeli: un baldacchino leggermente obliquo nel versante nordico, dotato di pulsantiere fosforescenti per rispondere subito, anche di notte, alle eventuali richieste d’intervento operativo. Quando gli giunse l’ordine, nel grande refettorio della camerata, teneva il capo chino sulla scodella, coi lunghi capelli biondi sciolti sul viso. Stava raccontando agli amici la ferita che s’era procurato sul braccio durante il percorso di guerra affrontato la settimana prima: come tutti i commando, avrebbe dovuto saltare da una guglia all’altra, nella zona desolata dei capannoni abbandonati. Negli istanti successivi all’atterraggio aveva messo male il piede scivolando lungo la parete della roccaforte. La sua coordinazione naturale l’aveva protetto. Mentre rievocava l’accaduto, rideva con l’entusiasmo di un bambino. Raffaele lo prendeva bonariamente in giro accennando alla sua tuta colorata. Michele, per festeggiarlo, gli stava offrendo da bere un intruglio di mosto alcolico nel calice dei condottieri.

    L’ingiunzione fu solenne, inappellabile. Doveva partire immediatamente, senza discutere. Si trattava di un’urgenza, sebbene nessuno avrebbe potuto dire da quanto stabilita. Le categorie del tempo e dello spazio rappresentavano semplici invenzioni umane e nella caserma sospesa come un pallone aerostatico nell’atmosfera rarefatta assomigliavano a commoventi didascalie: questo è il passato, quello il futuro. Furono in tanti, assiepati al tavolo apparecchiato coi candelabri di vetro sottile, ad alzare lo sguardo verso di lui. Alcuni sorrisero, diversi altri restarono pensierosi, forse perché intuivano l’inizio di una nuova avventura alla quale anche loro avrebbero presto partecipato. Erano state troppe, nelle ultime stagioni, le avvisaglie: movimenti di schiere provenienti da settentrione, rinforzi delle barriere aeree, tempeste cosmiche, simulazioni. Nelle alte sfere si stava preparando, con tutta evidenza, qualcosa di davvero importante. I soldati dovevano stare all’erta: entro breve tutti avrebbero dovuto dare il proprio contributo. Nessuno sarebbe rimasto inattivo. Ma intanto era Gabriele, il prode conquistatore degli spazi interstellari, quello chiamato a uscire per primo in campo aperto. L’onore concessogli dai capi pareva evidente. Il tributo incontestabile.

    Michele lo abbracciò festoso, Raffaele gli diede un buffetto in segno di omaggio. Vai, amico dei giorni più lieti, compagno che non si può dimenticare, l’azione in cui t’impegnerai sarà foriera di sicuri, ulteriori, imprevedibili sviluppi. Non dovrai semplicemente tappare qualche buco, come di solito avviene, accompagnando lungo il percorso i giovani pellegrini, o sorreggendo un anziano caduto. Stando alle notizie di cui disponiamo, stavolta il tuo intervento terrestre modificherà l’orientamento dell’Arca, disincagliandola dalle secche in cui sembra essere bloccata: invidia, superbia, cupidigia, lussuria. Grazie alla spinta che, per intercessione celeste, le verrà data, l’uomo bruto, gigante miserabile e nudo, saprà staccarsi dal fango, liberarsi dagli sterpi, ascoltando il canto del figlio. La bestia che ora lo domina, fino al punto di averlo trasformato in una creatura abbietta, dedita ai più spregevoli vizi, incurante degli impegni presi, gli renderà omaggio mansueta. Il Tempio dei banchetti infernali, delle sagre blasfeme, sarà distrutto nel breve volgere di qualche millennio e dalla fonte nuova sgorgherà l’acqua santa.

    Il prescelto, nel gruppo dei compagni che gli augurarono buona fortuna, non ebbe nemmeno il tempo di riportare in cucina gli avanzi del pasto: noodle fumanti e vegetali a foglie larghe dentro coppe decorate con disegni floreali; altri, meno impegnati e più disponibili, lo fecero al posto suo. Come frati remissivi e laboriosi, una schiera di bidelli del genio pionieri ripulì la tavolata, un altro gruppo di esploratori s’incaricò di guidare Gabriele verso il ponte degli imbarchi dove tutti lo aspettavano ansiosi. Attraversare i corridoi sotterranei gli provocò un grande turbamento: camminò a testa alta nella galleria buia in mezzo alla scorta appena mobilitata superando con un balzo imperioso le postazioni della preveggenza. Il pubblico dei serafini lo guardò con ammirazione, facendogli sentire l’appoggio di cui aveva bisogno, insieme al rispetto per la responsabilità che si stava assumendo. Salì sulla scaletta del torrione, s’infilò nella cabina, provò i collegamenti e agganciò le cinghie. Pochi secondi e un fragoroso rombo annunciò la sua partenza verso la città degli uomini.

    Gabriele si staccò dal sedile e, in un guizzo fulmineo, prese il volo. Anni di formazione trovarono in quel momento il loro frutto operativo. Uscì dal boccaporto per guadagnare la migliore apertura alare. In un attimo scomparve alla vista dei commilitoni, assumendo l’assetto necessario per essere proiettato come una scheggia incandescente verso la Palestina di duemilaventuno anni fa.

    3

    L’incredibile paternità

    Il vecchio sacerdote, gli occhi gonfi, la barba bianca, il cranio maculato, l’ampia veste sopra il corpo informe, stava trafficando da solo nel Tempio, impegnato a bruciare l’incenso, sistemare i paramenti, riordinare i sacri rotoli. Era il suo turno. Un compito che svolgeva sempre con piacere e devozione. In quei momenti sentiva di essere più vicino a Dio. Aveva bisogno di farlo, altrimenti non avrebbe saputo trovare una ragione sufficiente per vivere. La gente lo apprezzava percependo nell’anziano l’accettazione di un limite che la maggioranza spesso rifiuta. Siamo tutti ansiosi, pronti a ribaltare il tavolo perché non sopportiamo di restare chiusi entro i confini che ci sono stati assegnati. Vorremmo di più, anche se non sapremmo dire cosa. Eppure restava persino in Zaccaria – questo era il suo nome – qualcosa di irrisolto, che però invece di scoraggiarlo lo rendeva più forte, ponendolo in una dimensione spirituale inaccessibile ai comuni mortali. Egli pareva ricavare energia dalla medesima angustia che lo punzecchiava: come facesse rimaneva un mistero. Gli adulti lo avvicinavano con timore e reverenza; solo i ragazzini erano a proprio agio con lui, forse perché avvertivano la nostalgia che quell’uomo probo e fedele alla legge custodiva in sé nei confronti della vita famigliare incompiuta: Elisabetta, sua moglie, già avanti negli anni, non poteva avere figli. La coppia, sebbene da tutti benvoluta, restava al palo, solitaria e rinsecchita come un tronco non fiorito. I fanciulli si avvicinavano a Zaccaria perché istintivamente sentivano intorno al sacerdote la presenza di un terreno libero in cui poter scorrazzare. Nello spazio incolto, non sorvegliato, dove loro giocavano – la dimensione interiore predisposta all’ascolto di un possibile annuncio – Gabriele aveva individuato la pista d’atterraggio.

    L’angelo sbucò all’improvviso in uno sfolgorio fragoroso da sotto l’altare per portargli l’ambasciata. S’era introdotto nel Tempio con misteriosi stratagemmi e adesso sembrava un airone in solaio: fuori posto, sorprendente. Aveva ancora un po’ di polvere sparsa sulla giacca inamidata coi bottoni dorati chiusi fino al collo. Zaccaria nel vederlo rimase stupefatto. Per poco non cadde a terra, travolto dall’emozione. Il messaggero, restando in equilibrio con il corpo sospeso, gli disse di non avere paura e, continuando a concionare a mezz’aria, lo informò, il dito alzato e lo sguardo fisso, che presto avrebbe avuto un figlio speciale da Elisabetta: sarebbe stato un uomo integerrimo, rigoroso e caparbio, capace di riportare i ribelli sulla retta via trasformandoli in giusti israeliti pronti ad accettare la vera fede.

    Il sacerdote non riuscì a nascondere il proprio scetticismo, consapevole di non avere più l’età per diventare padre. Soltanto allora il serafino gli si presentò, avvertendolo che, a causa della sua incredulità, sarebbe diventato muto, fin quando la promessa non si fosse compiuta. Così avvenne con una puntualità sconcertante: quando Zaccaria, pochi minuti dopo, ancora frastornato, uscì dal santuario per mostrarsi a quanti lo stavano aspettando, si rese conto di non poter esprimersi con il linguaggio di cui era sempre stato esperto. Le parole gli venivano fuori smozzicate, incomprensibili. Ci metteva tutto l’impegno ma senza esito. Fu quindi costretto a fare gesti inconsulti con la mano non riuscendo a spiegarsi come avrebbe voluto. Nessuno l’aveva mai visto annaspare in tali penose condizioni. Alcuni pensarono che stesse male, altri che avesse avuto una visione, e se ne andarono a casa commentando avviliti l’accaduto.

    Mentre la piccola folla si disperdeva, Gabriele tornò alla base compiendo uno scatto inaudito grazie al quale valicò le barriere stellari. Le scolte sui comignoli gli aprirono la porta del falansterio accogliendolo nella casa avita e un gruppo di custodi pettegoli lo circondò chiedendogli di raccontare le emozioni provate. L’annunciatore era spossato, non tanto dal gesto atletico appena compiuto, quanto per la concentrazione lirica che aveva dovuto impiegare nel recare il messaggio. Alcuni, con gli occhi lucidi di meraviglia, vollero sapere com’era quel pezzo di mondo e perché gli uccelli continuavano a volarci sopra incantati. Cosa li attirava? L’angelo, dopo aver ripreso fiato ed essersi tolto le bardature, accennò, ancora turbato, al colore del cielo, azzurro screziato di bianco, ma quelli insistettero: non ci basta, affermarono, allora Gabriele, raccolti con l’elastico i capelli scomposti, aprì sconsolato le braccia allargando le ali vibranti come per dire: non ho altre parole. È troppo per me. Non sono un poeta. Faccio il postino. Mi limito a consegnare gli avvisi. Ma il volto luminoso e raggiante lasciava intendere qualcosa di più: l’avventura della vita appena vissuta e già trascorsa. I giovani vessilliferi, rampolli di talento, notandolo, quella notte sognarono di poterlo imitare.

    Cinque mesi dopo, Elisabetta, con una strana luce negli occhi, comunicò al marito di essere incinta.

    4

    Legare la terra al cielo

    La seconda missione di Gabriele fu esaltante, ancor più della prima: si trattava di legare in modo indissolubile la terra al cielo e bisognava farlo usando un nastro speciale, di consistenza rara, col fiocco più bello che si fosse mai visto. Per questo l’arcangelo, oltre alla già collaudata perizia e all’esperienza, ci mise tutto il suo cuore, sapendo che non avrebbe potuto fare diversamente. I segretari lassù, incapsulati dentro gli scafandri imperiali nella torre di controllo al limite del mondo, dove neppure gli angeli potevano volare, vegliavano attenti in un granuloso tuttonulla di pianeti rovesciati e piattaforme deserte. Per questo Gabriele voleva mostrare di meritare la fiducia che gli era stata accordata. Sapeva che da quel bosco di comete smarrite era filtrato un pianto di commozione generale che doveva essere versato al punto giusto, evitando di disperderlo nei rigagnoli d’acqua sporca.

    La ragazza sulla quale era sgocciolata la lacrima di sale stava andando a riposare quando sentì una presenza nell’aria fresca della piccola stanza in leggera penombra. Il soffio del vento fra le piante. Uno scricchiolio del legno. Tutti sapevano chi fosse: si chiamava Maria ed era stata appena promessa sposa a Giuseppe, il falegname, vedovo con diversi figli a carico. Nel villaggio la stimavano come una giovane dal contegno distinto, sempre attenta e premurosa, al punto che persino le amiche con cui trascorreva i pomeriggi a impastare e a cucire nutrivano nei suoi confronti una particolare soggezione, sebbene fosse umile, senza traccia di alterigia. Certi modi la distinguevano: per esempio, sembrava intrattenere uno speciale rapporto col silenzio in cui le capitava di precipitare anche nel pieno di una conversazione, come se all’improvviso venisse risucchiata da chissà quali sortilegi in un tempo che sfuggiva alla sua stessa comprensione. Eppure restava una fanciulla semplice e diretta, sempre gentile e disponibile, mai scontrosa.

    Gabriele, potendo disporre dei radar di ultima generazione, splendidi visori incorporati nei tessuti cerebrali, aveva fatto presto a individuare la casa penetrandovi con una delle sue mirabili giravolte di fantastico equilibrista. Avrebbe potuto entrare subito in azione, invece indugiò qualche minuto più del necessario, riparato dietro un tavolaccio solo per contemplarla: i capelli lisci e corvini le scendevano fin sulle spalle. Gli occhi neri sfolgoravano. L’angelo ora era pronto, sebbene faticasse a governare l’ansia: sapeva di trovarsi sul crinale della Storia, ancora un passo e tutto sarebbe cambiato. Ciò aumentò il peso che gravava sulle sue spalle: non poteva sbagliare una mossa. Lei, in quegli istanti irripetibili, pareva ancora inconsapevole. Ogni madre, pensò Gabriele, quando dà alla luce un figlio, esegue l’umanità, proprio come fa il musicista con lo spartito. L’ambasciata che si apprestava a consegnare possedeva un significato ancora più profondo: innestava l’eternità nel tempo, senza tuttavia distruggerne la parvenza.

    Era stato debitamente istruito, sapeva di non doverla spaventare; per questo, dopo il saluto, subito si premurò di rassicurarla:

    «Il Signore è con te, piena di grazia».

    Lei, appoggiata al lettuccio, alzò lo sguardo smarrita senza capire cosa volesse intendere quella strana creatura, condottiero quasi suo coetaneo, cosicché egli proseguì scandendo bene le parole:

    «Presto avrai un figlio al quale metterai nome Gesù. Diventerà il re d’Israele e il suo regno non finirà mai».

    La voce ferma e decisa pareva essere ancora attraversata da un ultimo brivido d’imprudenza, come se persino il messaggero, prima della dichiarazione, avesse dovuto respingere la propria sfiducia. Mi faccio intermediario passando a te ciò che io stesso non capisco. Né sarei in grado di spiegare. Adesso respirava meglio, avendo detto ciò che doveva.

    Maria, sorpresa e sconvolta, con le mani dietro la schiena appoggiate alla parete, sola nella scelta che veniva chiamata a compiere, d’istinto chiese:

    «Ma io sono vergine, come sarà possibile questo?».

    Gabriele s’inginocchiò in segno di rispetto dicendo:

    «Verrà lo Spirito Santo e l’onnipotente ti darà il bambino: il Figlio di Dio. Non vedi che persino Elisabetta, alla sua età, è già al sesto mese?».

    Allora Maria, senza arretrare più nemmeno di un centimetro, comprese ciò che le stava accadendo e, in una frazione di secondo, espresse il suo pensiero. Abbassando il capo dichiarò:

    «Eccomi, sono la serva del Signore. Dio faccia di me ciò che vuole».

    Avrebbe potuto rifiutare? Non lo sappiamo, comunque decise di ubbidire: la sua convinta risposta rappresentò tutto il coraggio e tutta la sapienza di cui c’era bisogno. Gabriele, dopo aver ricevuto queste parole, provò dentro di sé una pace mai conosciuta. Aprì le ali consapevole che da quel momento il mondo si sarebbe illuminato, sebbene non alla vista comune.

    5

    I pensieri di Giuseppe

    Quando Giuseppe venne a sapere che Maria era incinta, restò di stucco: avrebbe voluto respingerla. Non riusciva a capire come quella ragazza così dolce e remissiva avesse potuto tradire la sua fiducia. Proprio lei, sulla quale aveva riposto tante aspettative, le faceva questo! Eppure non voleva rovinarla. Incerto su come comportarsi, con la morte nel cuore, senza dir niente a nessuno, decise di rompere il fidanzamento. Una frazione di secondo dopo provò un sentimento indicibile. I pensieri cominciarono a frullargli dentro la testa a una velocità crescente. Egli stesso non riusciva a controllarli. La sua mente si trasformò nel campo aperto di una gara collettiva, come se lui fosse il perno della vita non solo sua.

    L’intero villaggio si prenderà gioco di me. Diventerò lo zimbello dei miei nemici: clienti insoddisfatti, gente invidiosa, fra cui ci sarà di sicuro il malfattore che è stato capace di ingannare Maria. Adesso quel gaglioffo starà sghignazzando contro il vecchietto! E poi chissà, anche gli anziani organizzatori del matrimonio, quando me lo proposero, i lazzaroni, forse sapevano già che lei non era integerrima come sembrava e non me l’hanno detto. È stato un agguato studiato a lungo e io ci sono caduto come un bambino.

    Per quest’uomo probo, ferito dalla vita, furono giorni di fuoco. La stessa risoluzione che aveva assunto non gli dava piena soddisfazione. Restava qualcosa di doloroso che lo pungeva come una spina nel fianco. Temeva altri sviluppi a proprio danno. Cosa racconterò ai miei figli? Come potrò ripresentarmi a loro? Che figura ci faccio? Si metteva a letto senza prendere sonno. Non mangiava. Aveva smesso di lavorare: gli mancava la concentrazione. A quelli che lo andavano a trovare, in preparazione delle nozze, diceva imbarazzato di tornare più in là perché non si sentiva bene. In effetti era stravolto. Girava da una parte all’altra del cortiletto inciampando sulle pietre come un animale in gabbia. Pareva che tutto il suo mondo stesse per crollare. Ogni tanto guardava fuori verso la campagna e piangeva di rabbia e mortificazione.

    Fra le varie ipotesi prese in considerazione c’era anche quella di scappare unendosi a qualche pellegrino: uno di quei mendicanti dalla barba lunga e gli occhi lucidi diretti verso Gerusalemme che a volte si presentavano alla sua porta chiedendo da bere. Sarebbe bastato seguirli per sottrarsi alle dicerie. Andar via e non tornare mai più. Le voci interiori che lo assillavano non sembravano smettere. Volevi risposarti, vero? E ti eri preso anche la più bella e giovane del paese. Stupido, alla tua età dovresti ritirarti, non progettare una nuova esistenza. Leggi le Scritture e vergognati! Questi rimproveri inventati dalla sua mente alterata lo martellavano senza sosta, da mattina a sera, chiamandolo a una resa dei conti che sembrava imminente. Abbandonare tutto: il lavoro per cui era tanto richiesto, il gruppo di conoscenti coi quali aveva condiviso il dolore dopo la morte della sua prima moglie. E via di questo passo. I famigliari non l’avevano mai visto così, perciò loro stessi si tenevano distanti, quasi impauriti.

    Una volta il sonno lo colse sui gradini della casa, come una liberazione dall’ansia, e in sogno gli apparve un angelo, uno del gruppo di Gabriele, giovane luogotenente dei circondari orientali sparsi lungo la frontiera dei giardini stregati. Una specie di atleta celeste impegnato nel suo gesto esclusivo: aveva una fascia rossa girata intorno alla veste bianca, il capo leggermente inclinato e il braccio levato verso l’esterno. L’immagine sfolgorante accecava la vista ma le parole, quelle no, giunsero chiare alle orecchie del falegname, scandite come una sentenza:

    «Giuseppe, non temere di prendere in sposa Maria. Il bambino che lei reca in grembo è opera dello Spirito Santo. Tu gli metterai nome Gesù e lui salverà i tuoi simili».

    L’uomo si riscosse, quasi fosse stato risvegliato con un secchio d’acqua gelida, pervaso di nuova energia. Il cuore gli batteva forte. Il sangue pulsava sulle tempie. Una grande euforia lo guidò verso l’impresa. Allora esisteva un senso in base al quale spiegare gli eventi delle ultime settimane! D’improvviso era uscito dalla solitudine. Non udiva più nessuna voce. Sentiva di essere parte del meccanismo generale, simile ai chiodi che sin da giovane aveva imparato a piantare sul legno, un colpo secco e via, indispensabili per tenere insieme tavoli e sedie. Non poteva far mancare il proprio contributo, anche se ignorava ciò che lo attendeva. Ma nel momento in cui accettò l’ordine ricevuto si sentì subito meglio. Era ben più di un sì a capo chino. Si trattava della radice di ogni fede. Il salto che soltanto noi possiamo fare. Un compito non delegabile. Con il brivido del gesto da compiere e senza tentennare più neppure un istante, Giuseppe radunò le sue cose, preparò la nuova dimora e prese con sé la giovane donna, così com’era, restando insieme a lei nell’attesa fiduciosa di quanto sarebbe accaduto.

    6

    Ain Karim

    Maria si era messa in viaggio per andare a trovare Elisabetta: doveva attraversare un territorio molto vasto. Alcuni mercanti amici del padre la fecero salire sul loro carretto. Furono giorni lunghissimi sugli sterrati della Samaria fino in Giudea, fra ciottoli, sabbia e polvere, nella fatica profusa dentro la promessa di un nuovo orizzonte. Tante formichine vennero schiacciate sotto le ruote della carovana mentre procedevano in fila indiana alla ricerca di un pezzetto di pane segnalato dalle esploratrici e nessuno le avrebbe ricordate mai, almeno in questo mondo, mentre nell’altro anch’esse furono registrate entrando di diritto nelle preziose liste dell’Impossibile Dimenticanza.

    Era strano vedere la giovane donna in viaggio verso Ain Karim, il villaggio di Zaccaria, perché di norma non si muoveva mai. Restava quasi sempre nei paraggi domestici, dal pozzo all’abitazione, fino al mercatino. Quella volta si fece accompagnare da un’amica, Imma, che tuttavia, quando finalmente giunsero all’ingresso della casa, preferì non mostrarsi, quasi fosse richiamata indietro dal medesimo impulso che l’aveva spinta sin lì. Doveva fungere da accompagnatrice e basta. Lei stessa non avrebbe saputo spiegare la ragione per cui aveva accettato la richiesta un po’ stramba della compagna preferita.

    È vero: si conoscevano fin da piccole, erano state amiche intime, scambiandosi ogni confidenza, ma un cammino così impegnativo non l’avevano mai fatto. Imma andò a stare da alcuni parenti che abitavano in un villaggio non distante, insieme ai quali tornò poi a Nazareth. Nel corso della sua vita non avrebbe più dimenticato l’incredibile viaggio che aveva compiuto: quando lo rievocava, le pareva fosse stato tutto un sogno. Elisabetta non seppe mai nulla di lei. Era concentrata soltanto su Maria.

    L’anziana donna aveva attribuito a quella visita un significato speciale, per questo accolse la fanciulla con tanta emozione, al punto che non appena udì la sua voce sentì il fremito della piccola vita già formata dentro di lei. Quel movimento sordo, viscerale, parve l’indicazione di una svolta profetica. Non un semplice sussulto, bensì il rintocco della campana. Allora esclamò:

    «Benedetta sei tu, Maria, madre del mio Signore, e benedetto il bambino che presto avrai».

    Chi poteva averla spinta a pronunciare una simile dichiarazione? I flussi spirituali erano transitati dalle segrete celesti fino alla povera casa a due passi da Gerusalemme. Li avevano trasportati sin laggiù i bucanieri ravveduti dei plotoni meglio assortiti, cavalleggeri di supreme scampagnate, abituati alle trasferte stravaganti, così come alle avventure rischiose. Qui bisognava accendere i fuochi dentro l’animo dell’anziana fattrice.

    Di fronte a quell’accoglienza al tempo stesso solenne e festosa, la giovane nazarena ebbe l’impressione di essere trascinata in un vortice. Ciò che disse alla sua parente, presso la quale si fermò per circa tre mesi, rimane avvolto nel mistero. Furono gli stessi angeli, selezionati tra i più volitivi e perspicaci, riuniti a frotte nell’uliveto poco distante, coi ragazzini storditi che restarono a bocca aperta quando li videro, a farle sillabare le sommesse lodi di ringraziamento alla misericordia infinita, nella rovina dei ricchi possidenti e nella gloria dei poveri malfamati. Al tracollo dei superbi, aggiunse lei eseguendo il dettato dei cherubini, corrisponderà il trionfo degli umili. Ecco le avvisaglie dello sconquasso epocale che presto sarebbe avvenuto. Perché niente, concluse la povera pellegrina rivolta a Elisabetta e Zaccaria che la fissavano incantati, d’ora in avanti sarà più come prima. Tutto, dovete saperlo, si è messo in cammino nella potenza imperscrutabile della prima rivelazione.

    In quei giorni, ai molti visitatori che andarono a trovarla, lontani cugini o semplici amici comuni, Maria apparve quasi come un’altra persona rispetto a quella che conoscevano: ricordavano una bambina timida e riservata, che correva a nascondersi non appena giungeva un ospite, e adesso vedevano una giovane donna consapevole, capace di prendere la parola con una maturità sconcertante. Giuseppe ha fatto proprio un buon affare, commentarono soddisfatti alcuni anziani. Lo stesso Zaccaria la trattò con grande sussiego, percependo in lei una dimensione interiore la cui profondità sfuggiva alla sua comprensione. Soprattutto restavano incise nella memoria del vecchio sacerdote le parole pronunciate all’arrivo dall’ospite che tornarono a rimbombare spesso dentro di lui nei giorni successivi.

    Grandi suggeritori e interpreti raffinati, i principi alati osservarono compiaciuti, oltre il muretto scalcinato che circondava l’abitazione, le conseguenze operative del loro puntuale intervento, filologicamente irreprensibile. Gli scritturali avevano lavorato come meglio non si poteva, notte e giorno chini sugli scranni di legno delle ammirevoli confessioni, a preparare i testi da recitare indicando perfino le pause. Del resto Maria senza il loro aiuto non avrebbe mai potuto intonare, di fronte al raggiante stupore dei vecchi coniugi, il Magnificat: l’inno alla fedeltà premiata.

    7

    Un ragazzo difficile

    Elisabetta partorì come previsto fra lo strazio e i sospiri di giubilo, accudita dalle sue vecchie amiche, molte delle quali già nonne, che ancora non si capacitavano di come lei avesse potuto dare alla luce un bambino così vispo, sano e bello. Una di loro, Ester, dopo la nascita del piccolo uscì di casa con l’intenzione di ringraziare Dio. Lo fece mossa da uno spontaneo sentimento di gratitudine perché lo spettacolo prima dell’insperata gravidanza, poi dell’incredibile parto, quindi dei meravigliosi vagiti sembrava non essere riservato soltanto alle persone direttamente coinvolte, fra le quali peraltro figurava lei stessa, bensì a tutti quanti, persino a coloro che non avevano potuto assistere al lieto evento, alla stessa maniera di un bel mattino di giugno che quando compare in cielo lo fa per ognuno di noi: chi lo vede e lo apprezza, chi non ci fa caso e lo ignora.

    La donna si avvicinò a un alberello cresciuto sul terreno dissestato e, mentre commossa sillabava una preghiera, notò impigliato fra i rami un mantello verde smeraldo: fu soltanto un attimo perché, immediatamente dopo, questo scomparve, come se qualcuno, essendoselo dimenticato, fosse d’improvviso tornato a riprenderlo. La testimone restò allibita attribuendo al proprio turbamento quella strana visione. Quando rientrò nella casa affollata non ne fece parola con nessuno. Considerata in sé per sé la scoperta di Ester non rappresentava niente di particolare, ma vista dalla stanza dei bottoni, dove si organizzava il gioco complesso degli andirivieni angelici, costituiva la prova di una grave distrazione imputabile alle

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