Hoenir il druido - La resa dei conti
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Hoenir il druido - La resa dei conti - Daniele Bello
Daniele Bello
Hoenir il druido
la resa dei conti
EDITRICE GDS
Daniele Bello Hoenir il druido - La resa dei conti
©EDITRICE GDS
EDITRICE GDS
di Iolanda Massa
Via Pozzo, 34
20069 Vaprio d’Adda (MI)
tel. 02 90970439
e-mail: edizionigds@hotmail.it ; iolanda1976@hotmail.it
Illustrazione in copertina Il drago e l'idra
di ©Fabio Larcher
Progetto copertina di ©Iolanda Massa
Tutti i diritti riservati.
Il romanzo è frutto della fantasia dell’Autore. Ogni riferimento a fatti, luoghi e/o persone realmente esistenti e/o esistiti è puramente casuale.
Dedicato a tutti miei lettori
Prologo
Il silenzio dominava, nella cupa desolazione che si estende infinita tra gli oscuri interstizi tra una dimensione e l’altra.
Un abisso muto e incolore avvolgeva quel caos primordiale, privo di qualsivoglia punto di riferimento: lì non albergavano né il tempo, né lo spazio, né le leggi che regolano la materia e l’energia; su tutto sovrastava una congerie di quanto era estraneo alla stabilità e all’armonia. Imperversava, insomma, quel male oscuro di cui anche le divinità più potenti facevano fatica a pronunciare il nome: l’Entropia.
Qui, da un tempo immemore, più lungo di quanto la mente umana possa mai concepire, vagavano tristemente gli Ancestrali, imprigionati in un limbo senza speranza, macerandosi in una perenne agonia.
Da quando, eoni addietro, gli dei del Caos erano stati sconfitti dai numi dell’Ordine e dell’Armonia nel primordiale conflitto cosmico, essi erano stati relegati in quello squallido esilio, dove fluttuavano malinconici, scontando la loro blasfema e peccaminosa ribellione alla Legge.
Essi tuttavia aspettavano sempre un’occasione –anche una sola– di riprendersi quello che un tempo era stato un loro esclusivo dominio, quell’universo rutilante di vita che era stato loro precluso.
Nell’eterna attesa, gli Ancestrali vagavano senza meta, anime in pena, nella incolore foschia del non-essere: la mente umana non sarebbe stata in grado di percepirli (altrimenti sarebbe impazzita); la loro struttura, infatti, sfuggiva a ogni regola e rifiutava di farsi sussumere dalle categorie razionali.
Qualora, tuttavia, gli organi sensoriali di un essere mortale fossero stati in grado di distinguere la fisionomia dei numi del Caos, questi avrebbe potuto contemplare uno spettacolo senza paragoni; in quell’aere senza dimensioni galleggiavano sferoidi dai mille tentacoli, esseri filiformi con infinite paia di zampe, tubi luminescenti simili a enormi lamprede, forme geometriche impensabili si muovevano come schegge impazzite lungo traiettorie prive di qualsiasi senso apparente...
Di tanto in tanto una qualche forma di energia, per puro caso, riusciva ad aggregarsi in maniera stabile, sia pure per pochi e infinitesimi istanti, anche in quell’ammasso disordinato. Allora la fame atavica degli Ancestrali si risvegliava ed essi venivano attratti da quell’afflato di esistenza.
Appena coglievano la possibilità di distruggere, divorare, dilaniare, di cibarsi di qualcosa che ricordasse loro la forza cosmica, essi agivano come mossi da un istinto primevo: non con la crudeltà che è propria degli esseri umani; non con la ferocia dei predatori; semplicemente, fagocitavano – indifferenti e impassibili – ogni afflato di vita, lo inghiottivano e lo inglobavano per sempre nel loro Caos.
D’un tratto, qualcosa turbò l’atarassia dell’immenso vuoto intra-dimensionale. Una modifica leggerissima, quasi irrilevante negli equilibri cosmici venne avvertita dagli Ancestrali più potenti. Le forze dell’Entropia vennero convogliate verso un punto lontano, dal quale proveniva un’energia anomala.
Un creatura mostruosa, simile a una smisurata libellula dai contorni freddi come il ghiaccio, priva di una sua consistenza ma dotata solo di un immenso esoscheletro, finì di divorare la sua preda, poi si avviluppò su se stessa e puntò decisa in direzione di quella singolarità.
Non era chiaro cosa significasse, neppure per la mente degli Ancestrali; ma che qualcosa stesse accadendo era evidente... tutte le altre creature dell’abisso si diressero verso quel punto, che vorticava intorno a se stesso in un turbinio di pura forza. E finalmente essi compresero: un nuovo portale si stava aprendo!
Un’entità ancora non del tutto svelata, nascosta tra i meandri dell’universo, li stava venerando con sentita devozione e stava preparando l’antico rituale per l’invocazione.
Se avesse completato la cerimonia, pronunciando le arcane formule prescritte per il richiamo, si sarebbe creato un ponte intra-dimensionale tra l’universo pulsante di vita e di energia e il triste confino in cui gli Ancestrali erano stati relegati.
Gli dei del Caos si affacciarono davanti al portale. Dopo migliaia di eoni, il loro momento era alfine giunto...
Parte I
CAPITOLO 1.
La battaglia di Nuova Urbe
1.
L’imperatore Demetrio XI stava contemplando, nel suo studio privato, la mappa del Vecchio Continente e ripassava tutti i piani di difesa per scongiurare la conquista di Byze, la capitale dell’impero che non conosceva assedio da secoli.
Il giovane reggitore dello Stato del Sud, dopo aver combattuto una dura battaglia contro i fantasmi del passato, aveva ripreso le redini del regno proprio nel momento più drammatico della sua lunga storia: il popolo nomade degli Huni, unito per la prima volta sotto la guida di un solo condottiero, aveva deciso di prendere le armi per conquistare le terre emerse; un popolo di bellicosi guerrieri aveva messo a ferro e fuoco le Terre desolate e la Penisola meridionale; poi, sotto la guida del loro crudele dio Isabò, i barbari avevano marciato a tappe forzate verso la città più importante delle Marche orientali, ben deciso a espugnarla.
L’imperatore Demetrio, vittima di un morbo che lo aveva reso preda della follia nei primi anni del suo regno, sulle prime non era stato in grado di gestire il conflitto, lasciando che a occuparsi degli affari di stato fosse il suo ciambellano, l’infame lord Verminaard.
Quando fu chiaro che l’alto dignitario non solo si era attirato l’odio di tutti, ma stava anche tramando in combutta con il nemico, era stato lo stesso imperatore a decretarne la morte, prendendo le sembianze del Vendicatore (un ruolo che Demetrio si era ritagliato per raddrizzare i torti e le ingiustizie, senza mostrare il suo vero volto). Dopo aver eseguito la pena capitale del traditore, il sovrano aveva convocato il concilio di guerra e aveva adottato le misure necessarie per affrontare l’assedio di Byze e arginare l’ondata dei selvaggi Huni.
La situazione, tuttavia, appariva drammatica: viveri e acqua erano appena sufficienti per sopravvivere poche settimane ancora; l’esercito era indebolito e demotivato e così i volontari che si davano da fare per la difesa della città; i nemici organizzavano di tanto in tanto degli attacchi notturni, per tormentare ancora di più gli abitanti delle Marche orientali e convincerli che tutto era ormai perduto.
Durante queste scorribande, protetti dal buio, i barbari marciavano verso le mura dal lato settentrionale, intonando terribili canti di guerra e battendo i loro lugubri strumenti a percussione; il suono che ne scaturiva faceva accapponare la pelle anche al più esperto dei veterani di guerra; mille fiaccole venivano accese per impressionare il nemico, che non riusciva a comprendere l’entità delle forze impiegate nell’attacco. Le grida gutturali degli Huni risuonavano nell’aere mentre scale di legno e macchine da guerra si avvicinavano ai bastioni della città assediata.
Gli abitanti di Byze si difendevano strenuamente, scagliando frecce infuocate e versando olio bollente sulle accorrenti truppe dei barbari. Ben pochi dei nomadi guerrieri riuscivano a sopravvivere dopo le prime offensive, ma l’esercito invasore poteva contare su una mole smisurata di guerrieri abili, tale da consentire numerosi attacchi nell’arco di pochissimo tempo; dopo ore e ore di combattimenti, le forze degli assediati –messe a dura prova dai ripetuti assalti e dagli scontri cruenti– rischiavano di venir meno.
In più di un’occasione, era stato lo stesso Demetrio a prendere le armi, vestendo i panni del Vendicatore (che apparivano più congeniali ad affrontare un conflitto); il suo urlo di guerra era ormai un segnale convenuto per i difensori di Byze ed era temuto persino tra gli Huni.
L’imperatore era uso indossare una maschera d’argento dal sembiante spaventoso, che faceva rimbombare l’eco della sua voce e lo rendeva ancora più terribile agli occhi del nemico. Quando egli sguainava la spada, le forze dei suoi soldati sembravano decuplicarsi ed essi affrontavano lo scontro con maggior valore, sino a ricacciare il nemico al di là dei bastioni.
Durante l’ultimo tentativo degli Huni, avvenuto la notte prima, alcuni dei barbari si erano impadroniti di una torre difensiva e rischiavano di sciamare all’interno della città, aprendo le porte ai loro compagni d’armi.
Demetrio aveva voluto affrontare da solo, in singolar tenzone, il capo di quell’audace avanguardia degli invasori e dopo un estenuante duello a colpi di spada era riuscito a staccare di netto la testa dal busto del barbaro, con un poderoso fendente. Tutto ciò aveva galvanizzato l’esercito di Byze che aveva espugnato la torretta conquistata dagli Huni, facendo strage degli odiati nemici. Quando l’imperatore fissò in volto lo sguardo dei suoi soldati, egli vide il coraggio e la tenacia che alberga nell’animo degli eroi. Le energie dei suoi erano tuttavia ridotte al lumicino, essi resistevano in virtù di una forza di volontà senza eguali, ma ben presto sarebbero stati costretti alla resa.
Demetrio fissò ancora una volta le carte; l’unica effettiva speranza di salvezza era affidata alle richieste di aiuto che il sovrano aveva indirizzato ad antichi alleati e ad avversari storici. Il rinsavimento dell’imperatore aveva consentito a Byze di non capitolare subito, ma le forze in campo erano del tutto insufficienti ad affrontare quel conflitto così devastante. La vita di un impero dipendeva solo dalla possibilità di rinsaldare un antico legame o di creare una nuova alleanza, quale mai nessuno aveva osato concepire nell’ultimo millennio.
Demetrio sospirò: non era facile neppure per lui mantenere salda la fiducia in un domani migliore; eppure era un suo preciso dovere crederci e trasmettere ai suoi sudditi il sogno di sopravvivere a quella terribile guerra. Non poteva permettersi né di vacillare, né di arrendersi allo sconforto, finché l’ultimo barlume di speranza era ancora acceso.
L’imperatore uscì dalla stanza e si ritrovò sul balcone dei suoi appartamenti privati, che affacciava sulla piazza più importante della capitale. Da lì, si potevano contemplare le mura difensive; ma in quel momento, Demetrio preferì fissare lo sguardo sul cielo stellato.
Per un attimo, egli decise di abbandonarsi all’abbraccio pungente del cielo notturno; poi frugò dalle sue tasche e ne cavò fuori un fazzoletto di seta bianca, decorato con motivi dal colore azzurro pallido.
L’imperatore strinse con quel frammento di tessuto con un trasporto e un coinvolgimento inspiegabili: in quel momento nessuno avrebbe potuto scrutare l’espressione del suo viso, ma a un ignoto osservatore non sarebbero certo sfuggiti due occhi lucidi e commossi. Demetrio continuò a fissare il cielo e iniziò a parlare, come rivolto a un invisibile interlocutore: «Elisabetta, amore mio, se faccio tutto questo è per te. Perché possa recuperare, di fronte ai tuoi occhi, un minimo di considerazione dopo le scelleratezze che ho commesso. So che tu mi stai guardando da lontano, perciò dammi la forza per affrontare tutto questo, in modo da riparare al male che ho fatto».
L’imperatore ritornò nei suoi alloggi, per beneficiare almeno di qualche ora di sonno prima di affrontare l’ennesima battaglia che lo attendeva il giorno successivo.
2¹.
La battaglia di Nuova Urbe fu uno degli episodi cruciali di tutto il conflitto.
Il tempestivo intervento dei druidi consentì all’esercito delle Marche occidentali di trionfare in uno scontro che sembrava ormai perduto.
Dalle Cronache delle invasioni
Quando i druidi giunsero in prossimità del campo di battaglia, la situazione sembrava ormai compromessa per i pur valorosi difensori di Nuova Urbe.
Gli Huni stavano iniziando l’ennesima carica, quella che avrebbe dovuto spazzare via l’ultima resistenza dell’esercito delle Marche occidentali, asserragliato nei pressi delle rive del fiume Rumon. Le truppe regolari mostravano ancora una qualche forma di disciplina e si erano disposte in modo compatto per fronteggiare l’urto della cavalleria nemica; tra i volontari, invece, già cominciava a serpeggiare la paura ed era quindi prevedibile che a breve si sarebbe scatenato il panico; la ritirata sarebbe stata rovinosa e in molti avrebbero perso la vita, calpestati dagli zoccoli dei cavalli delle forze nemiche. All’improvviso, dalle colline limitrofe, una musica soave cominciò a diffondersi per l’aere circostante. Soffusa, celestiale, sembrava provenire da un’altra dimensione; ricordava il suono delle antiche cornamuse, ma aveva il potere di avvolgere in modo suadente, in un abbraccio fatale, la mente e il corpo di chi aveva la ventura di ascoltarla.
Di lì a poco, fecero capolino i druidi. Tenendo le braccia tese con i palmi rivolti verso il basso, abbracciando tutti i loro confratelli e il panorama intorno; essi salmodiavano un canto che si intonava con quella musica che era nata dal nulla, come se fosse stata evocata dalle più oscure profondità della terra.
Quella esplosione di timbri e di sonorità, provenienti da un altrove che andava ben al di là della dimensione umana, produsse effetti diversi nei due fronti contrapposti: le milizie impegnate nella