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Cortes - La conquista del Messico: L'oro, la gloria e il sangue
Cortes - La conquista del Messico: L'oro, la gloria e il sangue
Cortes - La conquista del Messico: L'oro, la gloria e il sangue
E-book373 pagine5 ore

Cortes - La conquista del Messico: L'oro, la gloria e il sangue

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Info su questo ebook

Il romanzo, diviso in tre volumi, descrive l’impresa di Hernán Cortés. Riesce a farsi nominare capo di una spedizione di un pugno di uomini, giovani in cerca di fortuna nelle terre del Nuovo Mondo con l’agricoltura e il commercio; anche se la sua impresa dovrà portare gloria al cattolico impero di Carlo V, il generale sa che la guerra da condurre dovrà essere spietata. Cortés è ambizioso, crudele quando ritiene necessario, cinico, ma anche umano. La vicenda viene raccontata non solo dal punto di vista dei conquistatori, ma anche dall’altra parte della barricata, dalla prospettiva di Montezuma, l’imperatore-Dio che si oppone alla penetrazione dell’esercito spagnolo nel suo impero, e che finirà con l’esserne schiacciato.
LinguaItaliano
EditoreGM Libri
Data di uscita27 lug 2020
ISBN9788855289016
Cortes - La conquista del Messico: L'oro, la gloria e il sangue

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    Anteprima del libro

    Cortes - La conquista del Messico - Luigi Lunari

    libri@gmlibri.it

    Nel nome del Padre, e del Figlio, e dello Spirito Santo, e così sia!

    Io, Bernal Diaz del Castillo, per la tarda età lontano ormai dalle avventure, dalle tempeste, dalle battaglie e dai massacri che hanno riempito la mia vita di soldato durante la conquista del grande regno del Messico, mi sono risolto a raccontarne la storia veritiera, stanco dei troppi che parlano senza sapere ciò che dicono e senza nulla aver visto di quello che descrivono, e desideroso di mondare la mia anima dei molti delitti di cui si è macchiata.

    Ora, nell’anno del Signore 1568, quasi cinquant’anni sono passati da quando il mio capitano Hernán Cortés, con 508 soldati, 100 marinai e 10 cavalli salpò dall’isola di Cuba alla volta del continente nuovo, dove conquistò al re di Spagna Carlo I più terre di quante egli ne avesse ricevute in eredità dal padre suo e da tutti i suoi avi. Chi voglia misurare la folle audacia di quell’impresa pensi a un plotone male armato che muova d’assalto contro il Sultano dei Turchi, o contro la Regina d’Inghilterra, o contro lo Zar della terra di Russia! Eppure, questo è quello che Cortés osò fare, riuscendo in un’impresa che lo pone tra i grandi condottieri, più grande di Cesare Romano e d’Alessandro il Macedone. Lui e i suoi cinquecento giovani disperati, che dalla Spagna erano venuti nel Nuovo Mondo per voglia d’avventure e sete d’oro, sfidando fatiche e pericoli che solo chi vi è passato sa quali siano stati. Tutti ora riposano nella pace del Signore: i più stroncati dalle guerre e dalle malattie, pochi sopravvissuti fino a soffrire l’ingordigia dei capi, che a loro non hanno lasciato che misere briciole dell’enorme bottino strappato ai vinti, e poi mandato ad arricchire l’oziosa corte di Spagna, o speso per i grandi palazzi e le chiese dell’Avana, di Veracruz, di Santo Domingo.

    Anche per loro ho preso in mano la penna, più pesante e faticosa per me che non l’asta o la spada: per dire che non fu solo Hernán Cortés a conquistare il Messico! E anche per confessare i loro e miei delitti, e perché sappia il mondo di quante nequizie si è nutrita quella conquista. Dio lo sa, e io l’ho visto. Ho visto stragi che hanno cancellato i popoli degli indios dalla faccia della terra; ho visto i miei compagni squarciati dai coltelli dei sacerdoti aztechi che ne strappavano il cuore per offrirlo ai loro dei; ho visto le torture inflitte dai nostri soldati ai nemici – ai vecchi, alle donne – perché svelassero i nascondigli dell’oro; ho visto le mani troncate e i piedi bruciati ai traditori; ho visto le donne dei vinti violentate prima d’essere uccise; ho visto i soldati sbattere ridendo gli infanti contro i muri, e scommettere su chi sarebbe riuscito a tagliare in due un nemico con un solo colpo di sciabola... Ancora ho visto il re Montezuma umiliato e ucciso, e l’eroico Guahtemotzin torturato e strangolato come un volgare delinquente, e sentito con queste mie orecchie il prode Hatuey chiedere se nel Paradiso dei cristiani avrebbe incontrato gli spagnoli, e rifiutarsi di convertirsi preferendo allora l’Inferno... Tutto questo e tant’altro ancora ho visto, e a tanto di questo ho preso parte io stesso, macchiandomi degli stessi delitti, per i quali chiedo ora che la Vergine Maria e San Jago intercedano per me al tribunale di Dio.

    Ma so bene che le mie pagine non suoneranno gradite in Spagna e nel Vecchio Mondo, dove trovano più facile ascolto i racconti belli ed eleganti di coloro che stendono un pietoso velo su tanti lati della Conquista, facendone un’epica vicenda di cui essere fieri, anziché un’infinita infamia di cui chiedere perdono al Cielo. Lascio dunque questa storia veritiera ai miei figli e ai miei discendenti poiché altra ricchezza non ho da lasciar loro. Qui stanno i fatti, semplici e nudi. Se mai il mondo crescerà fino a sete di verità e di giustizia, pensi allora una penna più esperta della mia a renderlo edotto di quante nequizie e di quanto sangue grondi l’oro di cui si adorna. E trovi almeno l’onestà di volgersi indietro e di chiedere a Dio quel perdono che anch’io chiedo ora a Lui, e alla Beata Vergine, e al prezioso Suo Figliolo Gesù, e ai Santi Jago, e Domingo, e Bernardo.

    E così sia.

    Parte prima

    I

    Una notte per la fuga

    Notte fortunata, l’ideale per la fuga! Il cielo coperto di nuvole, la luna presto tramontata dietro i monti e le foreste che coronavano San Jago, il mare agitato dal vento minaccioso di settentrione. Le onde sbattevano contro le murate della caravella, le più alte spazzando il ponte, e obbligando i pochi uomini di guardia ad aggrapparsi alle sartie per non essere trascinati in mare. Radi uccelli notturni si posavano sugli alberi e sul bompresso, levandosi in volo con stridule grida a un oscillare più violento della nave. All’orizzonte il cielo si fondeva con il mare, in un’unica cupa notte, rotta di tanto in tanto dal bagliore dei lampi, che rivelava per fuggevoli istanti l’incerto spumeggiare delle onde e il grigio gonfiore delle nuvole cariche di pioggia. Una di quelle improvvise tempeste, brevi e rabbiose, che si scatenano d’autunno nelle isole del Nuovo Mondo, a ripulire il cielo e a lasciarlo poi terso e limpido come una coppa di cristallo.

    All’indomani, dunque, il tempo sarebbe tornato splendido, degno di quel paradiso. I venti avrebbero soffiato bonari verso l’oceano, rendendo facile e veloce il viaggio dalla caravella attraverso il braccio di mare che separa l’isola di Cuba dalla Hispaniola. Non c’era dunque un momento da perdere, per sottrarsi al processo che lo attendeva, davanti a una corte di funzionari pigri e indifferenti, che non avrebbero esitato un attimo a trasformare l’accusa di tradimento in una condanna a morte per impiccagione. Hernán Cortés, le caviglie strette nei ceppi, nell’angusta cabina sottoponte che fungeva da prigione per un imputato di tanto riguardo, scrutava il cielo attraverso il pertugio dal quale di tanto in tanto lo colpivano spruzzi d’acqua salmastra. La sera prima, quando lo avevano portato a bordo, le mani legate dietro la schiena come un indio fuggito da una miniera, era bastata un’occhiata d’intesa con il capitano della nave per progettare e decidere il piano di fuga.

    «Lasciate stare: me ne occupo io!» aveva detto il capitano, licenziando la pattuglia che glielo aveva consegnato. Il capitano era un veterano delle campagne nel Nuovo Mondo, e sette anni prima aveva preso parte alla conquista di Cuba, proprio agli ordini di Cortés. Un volto bruciato dal sole, una grande cicatrice a segnargli il lato sinistro del volto, dalla radice dei capelli alla mascella inferiore, solo interrotta da un grumo informe al posto dell’occhio. Cortés frugò nella memoria, e ne trasse un nome.

    «Ramón!» esclamò, «Ramón di Saragozza!» E il residuo occhio del marinaio si illuminò di un lampo di riconoscenza.

    «Vi chiedo scusa, Cortés: questi sono gli ordini.» Lo chiamava Cortés, così, familiarmente, come Cortés aveva sempre voluto esser chiamato dai soldati che avevano combattuto al suo fianco e al suo comando.

    «Non preoccuparti, Ramón: se questi sono gli ordini, tu eseguili!»

    Il capitano lo guidò sottocoperta, nella cella che gli era stata preparata, e disse a un marinaio di slegargli le mani.

    «Come stai?» si informò sorridendo Cortés, fregandosi i polsi indolenziti. «Il tuo occhio?»

    «Mah!» rispose il capitano. «I medici dicono che c’è ancora, e che dovrebbe essere sano: ma chi riesce più ad aprirlo, sotto questo macello?»

    «Certo che per un donnaiolo come te, dev’essere un bel guaio!»

    «Oh, per una spagnola che fa la smorfiosa, ci sono dieci indie che un occhio in più o in meno non gliene importa niente.»

    Cortés sedette sulla poltrona dorata e imbottita, preparata per gli ospiti illustri, che faceva uno strano contrasto con lo squallore della cella. Un marinaio aprì i ceppi, ma Ramón lo licenziò con un cenno. Poi, si inginocchiò davanti a Cortés, che senza farselo dire infilò i piedi nella mandibola di legno. Cortés si stava ancora sfregando le mani, e nel gesto un anello d’oro gli scivolò dalle dita cadendo ai piedi di Ramón. Ramón lo raccolse, e fece per restituirglielo, ma Cortés non lo prese: strizzò un occhio, con una piccola smorfia furbesca d’intesa, e con la mano fece un gesto, quasi una benedizione, come se quell’anello fosse piovuto dal cielo. E Ramón se lo mise in tasca, sorridendo, dopo una furtiva occhiata all’intorno e un cenno di riconoscenza col capo. Poi, si accinse a stringere i ceppi, mentre la conversazione proseguiva come se tutt’altra fosse la situazione in cui si trovavano. Cortés era fatto così, pensò Ramón: un gran signore, che sapeva di latino, influente, segretario del goveratore di Cuba, arricchitosi sfruttando con abilità le concessioni ottenute nell’isola, stimato dagli uomini e fortunato con le donne, ma senza nessuno di quei tronfi atteggiamenti degli hidalgos e dei caballeros che affluivano dalla Spagna. Buon soldato, anche, e miglior capitano; che durante le campagne per la conquista di nuove terre, o nelle spedizioni punitive contro le sporadiche ribellioni degli indios, non disdegnava giocare a dadi o a carte con gli uomini ai suoi ordini, spiritoso, con la battuta sempre pronta, anche dopo una giornata di massacri, quando più c’era bisogno di rilassare lo spirito e tener vivaci gli umori, o di dimenticare le liti per la sparizione del bottino. Questo era il Cortés che Ramón conosceva e ricordava; e che ora era lì, evidentemente caduto in disgrazia, certo per una qualche bega di cortigiani, o per una di quelle maldicenze o di quelle delazioni che avevano sempre facile accesso al cuore di Velasquez, il governatore di Cuba, tanto più sospettoso e timoroso di tutto e di tutti quanto più incapace e incerto.

    «... e poi, sapete, Cortés: nello Yucatán, o Nuova Spagna, come vogliono che la si chiami, gli indios adorano degli dei mostruosi, con facce da pendagli di forca, che sembrano i mori che hanno flagellato Nostro Signore. Be’, uno soprattutto, il dio della guerra: mi assomiglia! E ho visto che anche questo, sulle loro donne, fa il suo effetto!»

    Strinse i ceppi, poi alzò lo sguardo verso Cortés.

    «Va bene così?»

    Cortés provò a muovere un piede. Il ceppo non lo stringeva più che tanto, ma il tallone... Fece una smorfia d’insoddisfazione, e Ramón allentò ancora un poco la vite che serrava lo strumento.

    «Meno di così non posso, altrimenti se ne accorgono!» sembrò quasi scusarsi.

    «Va bene, va bene...» lo tranquillizzò Cortés.

    «Metterò a guardia degli indios: gli darò doppia razione d’aguardiente, e un’ora dopo il tramonto saranno tutti addormentati. E se all’Hispaniola troveranno che voi non ci siete più... gliene darò un paio da impiccare. Oh, tutta gente che se lo merita, non preoccupatevi.»

    «Tu, invece? Farai rotta per la Spagna?»

    «Io torno qui. La mia terra è questa, ormai. E se voi avete in mente qualcosa... ricordatevi di me. Ho ancora voglia di arricchirmi! So pilotare una nave, e so menar le mani...»

    Cortés sorrise.

    «Me lo ricorderò.»

    Provò ancora a muovere i piedi, e fece un cenno d’approvazione. Ramón chiuse la vite, si alzò, e gli prese la mano per baciargliela.

    «Avrò bisogno di un pugnale...» disse Cortés.

    Ramón portò la mano alla cintura e gli porse un corto pugnale a doppio taglio, che Cortés nascose sotto il giustacuore.

    «Viene dall’Italia» disse. «E non mi ha mai tradito.»

    Poi fece un cenno col capo verso l’esterno della nave: «Stanotte ci sarà tempesta... Ma la scialuppa è legata sottovento. Dio vi assista, Cortés. Dio, e la Beata Vergine e San Jago...».

    Ramón uscì, e Cortés lo sentì dare ordine imperiosi agli indios incaricati di sorvegliarlo. Trasse il pugnale dal giustacuore, lo guardò, saggiandone con un dito la punta: era una misericordia, uno di quei pugnali italiani che servivano tanto a colpire di stocco, alla schiena o al petto, quanto a sgozzare con un movimento a braccio teso, come di falce. Cortés ripose il pugnale, e sorrise. Ecco che quello stupido di Velasquez aveva commesso un errore! Se proprio voleva liberarsi di lui, perché sospettoso di una congiura ai suoi danni, mai avrebbe dovuto imbarcarlo sulla prima caravella a disposizione, comandata dal primo venuto! O impiccarlo subito, o stare bene attento a chi lo affidava. E in cuor suo prese nota: se mai avesse dovuto liberarsi di un nemico, scegliere bene il carceriere, o meglio ancora il boia!

    Poi, mentre aspettava la notte, non poté che congratularsi con la prontezza della propria memoria, che gli aveva fatto riconoscere quell’uomo, attirandosene immediatamente la riconoscenza e la complicità. Un buon capitano non lo è solo sul campo di battaglia, ma a contatto con i suoi uomini in tutti i momenti della giornata, pronto a calarsi nei loro problemi, a discutere del bottino, a mangiare con loro, a giocare a dadi... Lui così aveva fatto, partecipando ancora ventenne alle tante missioni militari contro i ribelli, o alla stessa conquista di Cuba, agli ordini di Velasquez e di Ovando. E così avrebbe continuato a fare, se mai avesse avuto il comando supremo di un’armata con cui lasciare la pigra colonia di Cuba per scoprire altre terre nuove, nel Nuovo Mondo che Colombo aveva scoperto venticinque anni prima. Poiché per questo, tutto sommato, era venuto lì: lasciando i genitori, e la comoda vita in Spagna, e la bella Estremadura dov’era nato, e gli studi a Salamanca (che per la verità non gli erano mai piaciuti), e le avventure d’amore cui gli aprivano le porte il fisico agile e prestante e il bel volto simpatico e aperto. Per tutta l’infanzia aveva sentito favoleggiare del Nuovo Mondo, delle sue grandi isole, dei popoli selvaggi e degli incredibili animali che lo animavano, e degli immensi tesori che conteneva; e lì era venuto per conquistarsi onore e fama, e soprattutto ricchezza. Non per fare il contadino, come da sei anni a questa parte s’era impigrito a fare, accanto alla moglie, la bella Catalina, nella sua bella casa, con i suoi bei vestiti, i bei cavalli, le belle stoviglie sulla bella tavola imbandita... come un qualsiasi notabile vecchio e panciuto, senza ambizioni e senza futuro. Sei anni utili, certo: il grande appezzamento di terra che gli era stato assegnato come parte del bottino per la conquista di Cuba, aveva saputo farlo render bene, sfruttando il lavoro degli indios nelle piantagioni o nelle miniere; e l’oro messo da parte era più di quanto avrebbe mai potuto accumulare in tutta una vita di lavoro in Spagna... Ma ora basta!

    Quell’oro doveva servire a ben altro! Partire da Cuba, far rotta verso occidente, verso lo Yucatán – isola o terraferma che fosse – e lì scoprire altre terre, sconfiggere e soggiogare altri popoli, tornare carichi d’oro e d’argento... Un sogno di gloria, di ricchezza, di potere, che il pavido Velasquez aveva subito interpretato come una congiura ai suoi danni e un tradimento nei riguardi del re di Spagna, sovrano per diritto divino delle nuove terre! Così, invece di armare una flotta in nome della Corona e di affidargliene magari il comando, Velasquez non aveva saputo far di meglio che incatenarlo e spedirlo all’Hispaniola, sede del governo del Nuovo Mondo e della Corte marziale!

    Cortés non poté fare a meno di sorridere, rievocando per sommi capi la propria condizione. Non era certo quella la situazione più brutta e pericolosa in cui s’era trovato! L’importante era fuggire di lì; e soprattutto dopo l’incontro con Ramón la cosa non sembrava difficile. Poi... si vedrà! Il Nuovo Mondo aveva questo di buono: che le leggi valevano fino a un certo punto. E che se era pur vero che Velasquez avrebbe potuto farlo impiccare senza doverne render conto a nessuno, era altrettanto innegabile che ciascuno poteva farsi i propri affari e realizzare i propri progetti, senza troppe formalità e senza troppe benedizioni ufficiali. Se il governatore di Cuba o le Loro Maestà Serenissime sedute sul trono di Castiglia, non erano interessate a esplorare e a sfruttare il Nuovo Mondo, ci avrebbe pensato lui ad armare qualche caravella e qualche galeone, ad arruolare qualche centinaio di uomini disposti a tutto, e via!

    Il breve sogno a occhi aperti mise Cortés di buon umore. Quando gli fu servita la cena – abbondante e prelibata come si addice agli ospiti di riguardo, soprattutto se destinati alla forca – Cortés mangiò con appetito, e brindò con Ramón che era venuto a salutarlo e ad assicurargli – con un cenno d’intesa – che tutto era a posto. Poi, guardò il cielo che già si andava coprendo di nubi minacciose, e si addormentò tranquillo, incurante dei ceppi.

    ***

    L’ultimo degli indios che lo sorvegliavano a vista chinò la testa sul petto e rotolò sui compagni, vinto dall’aguardiente, certamente drogata. Cortés non attendeva altro: si tolse le scarpe, e lentamente cominciò a sfilare un piede dal ceppo. Il tallone stentava a passare: Cortés fu quasi tentato di adoperare il pugnale per scalfire un po’ il legno, ma rinunciò subito: meglio non rischiare di rovinarne il filo sul duro ceppo di mangrovia! Provò di nuovo, aiutandosi con le mani, appiattendo quanto più possibile il piede e schiacciando il tallone come a rimpicciolirlo... Il ceppo raschiava la pelle della caviglia facendola sanguinare, e quasi scorticando il tallone, ma alla fine il piede fu libero, e pochi istanti dopo, con minor fatica, fu libero anche l’altro. Cortés si alzò in piedi, stiracchiò le membra intorpidite, si appoggiò alla parete della cabina per resistere al rollio della nave. Scavalcando i corpi degli indios addormentati, aprì la porta e raggiunse in breve il ponte, appiattendosi contro il castello. La notte era buia, ma i frequenti lampi illuminavano il cielo e la nave. Sul ponte non c’era nessuno: poche ore prima Cortés aveva sentito Ramón ordinare di raddoppiare gli ormeggi, e la nave appariva ben ancorata, salda sotto l’infuriare dei venti e delle onde che la facevano da padroni ben addentro nella rada di San Jago. Sulla costa, distante poco più di una lega, la presenza della piccola città era rivelata dall’improvvisa luce dei lampi. Cortés girò lentamente attorno al cassero, per portarsi sulla fiancata al riparo dal vento, dove Ramón gli aveva detto che avrebbe trovato la scialuppa. A un tratto – come emerso dal nulla – si trovò di fronte la sagoma di un soldato. Il soldato lo fissò con gli occhi sbarrati dalla sorpresa, per un attimo indeciso, ma l’indugio gli fu fatale: con un largo e rapido gesto, il braccio di Cortés scattò in un fendente di rovescio e il pugnale tranciò netta la gola del soldato. Lo stupore degli occhi si gelò nella fissità della morte, ed egli cadde lentamente a terra, mentre il tardivo grido d’allarme si spegneva nel gorgoglio del sangue.

    È solo un indio: tanto meglio! pensò Cortés, mentre col piede spingeva il corpo in mare, attraverso un varco della murata. Poi raggiunse la poppa e si sporse a controllare la posizione della scialuppa: Ramón era stato di parola, e la scialuppa era lì, legata al sartiame da una grossa gomena, una di quelle barche solide e leggere degli indigeni, facili a manovrarsi anche contro le onde più insidiose, con i remi tirati a bordo, ma già fissati saldamente negli scalmi. Dopo un’ultima occhiata all’intorno, scavalcò la murata, si calò fino alla barca lungo la gomena, che poi recise con un colpo secco, e impugnati i remi puntò deciso verso la costa, uscendo dall’ombra protettrice della nave ed esponendosi ai colpi delle onde. Remava vigorosamente, aspettando la spinta delle onde a poppa, in modo da sfruttarne lo slancio, e fendendo con la prua le creste bianche di spuma. Poche decine di minuti, e avrebbe trovato riparo dietro lo sperone che delimitava il litorale, dove le acque erano troppo basse per permettere alle navi di avvicinarsi. Lì avrebbe lasciato la barca, e una volta a riva si sarebbe recato al convento dei francescani, dove il diritto d’asilo lo avrebbe messo a riparo dai rigori della legge e dalle guardie di Velasquez. Ma come la piccola barca superò lo sperone di roccia, un flusso di corrente inaspettata lo colpì di fianco e lo spinse di nuovo al largo. Cortés si sforzò di remare con più vigoria, ma a ogni metro che la barca conquistava, la corrente rispondeva respingendolo di uno spazio ancor maggiore; provò allora a invertire la rotta, cercando di uscire al più presto dalla corrente maligna, ma quella si ingigantiva sempre di più favorita dal vento che sembrava ora mulinare impazzito, quasi si stesse preparando una vera e propria tromba d’aria. Per dare più forza ai remi si alzò in piedi, digrignando i denti, cercando di assorbire con le gambe i sussulti e le vibrazioni della barca. Ma lo sforzo era enorme, e non poteva certo durare a lungo. Per un attimo che provò a rifiatare, Cortés si trovò a veder annullati tutti gli sforzi compiuti fino a quel momento, con la barca di nuovo al largo e sempre più preda della corrente avversa. Capì che mai sarebbe riuscito a condurre la barca fuori da quell’inferno d’acqua, e decise di abbandonarla al suo destino e di raggiungere la riva a nuoto. Pochi al mondo sapevano nuotare come lui, e nuotando quanto più possibile sott’acqua avrebbe potuto evitare l’ostacolo del vento e della corrente stessa. Tolse scarpe e giustacuore, infilò nella cintura il pugnale e si tuffò in acqua. Distese i propri arti in lunghe e poderose bracciate, mantenendosi quanto più possibile sotto il pelo dell’acqua, e riemergendo solo per respirare, quando a un tratto realizzò d’avere smarrito l’orientamento. Lasciandosi portare in alto da un’onda cercò di individuare la costa, ma i lampi si erano acquietati e tutto era piombato nel buio. Decise di nuotare tagliando trasversalmente la corrente, in modo da finirne comunque fuori; in effetti dopo poche bracciate gli sembrò che la corrente si acquetasse e che anzi favorisse il suo procedere, quasi accompagnandolo e sorreggendolo. Di nuovo si concesse un attimo di respiro, abbandonandosi sul dorso con le braccia aperte in croce. Ora le acque sembravano davvero più calme, ed egli vide attorno a sé un largo tratto di mare improvvisamente liscio e levigato, appena scalfito da una corrente che lo trasportava con sé con un lento movimento circolare...

    Un vortice!

    Cortés sentì il cuore balzargli in gola. Quel calmo flusso delle acque, che lo accompagnava suadente come una ninnananna, finiva in una gora che lo avrebbe trascinato giù nel profondo, a morte certa. Uno di quei gorghi insidiosi – una vera e propria tromba d’acqua – che si aprono improvvisi dove le correnti si scontrano, quasi annullandosi, e dei quali è facile accorgersi quando è ormai troppo tardi. Cortés riprese a nuotare, tagliando verso l’esterno la corrente che si muoveva in cerchio, ma presto si rese conto che le forze lo stavano abbandonando. Il vortice lo aveva ormai catturato, e lo stava trascinando lentamente ma irresistibilmente verso l’abisso... Diede ancora qualche bracciata, più nervosa che potente. Se ne rese conto, e cercò di rifiatare, per riacquistare energia; ma si rese anche conto che il cedere per un istante alla corrente gli avrebbe poi richiesto più energie di quelle accumulate nel frattempo. Cortés ebbe un impeto di rabbia. Possibile dover finire così, lui!, annegato come un gatto in un fosso, a meno di mezzo miglio dalla costa, in quel mare che conosceva come la sua casa? In un barlume vide il proprio corpo, gonfio e tumefatto, restituito alla riva dalla marea, circondato dalla curiosità degli indios e ricomposto dalla pietà degli spagnoli... Non era possibile! Dopo tutti i sogni, le speranze, i sacrifici per un avvenire d’avventure e di gloria... Dopo tante battaglie, tanti pericoli, tanto sangue sparso... Dopo sei anni di paziente attesa... Tutto era stato dunque un’illusione, una beffa! Una macchina, messa insieme dal destino, per strapparlo dalla vita tranquilla dei suoi padri, facendogli balenare davanti agli occhi il miraggio del Nuovo Mondo, suadente come il canto delle sirene... e lì, come il lazzo finale di un giullare, fargli lo sgambetto di questa morte ingloriosa, inutile, stupida...

    E Dio? E Dio aveva permesso tutto questo? O era stato lui a volerlo? Questo il disegno che Dio aveva in mente per lui quando era uscito dal grembo di sua madre, o prima ancora: dall’origine dei secoli? Questa la ricompensa per la sua vita di buon cristiano, per le tante volte che aveva piegato il capo di fronte agli eventi, accettando con animo devoto che fosse fatta la volontà di Dio? In quel momento estremo, mentre stava già rinunciando alla lotta, svuotati i muscoli di ogni energia, Cortés trovò la forza di negarsi alla rassegnazione. Una rabbia profonda lo colse, come quando in battaglia tutto appare perduto e non resta che la forza della disperazione, tanto più violenta quanto più inutile. Una volontà di ribellione, di gridare il suo rifiuto, al Dio beffardo che lo aveva tradito, tessendo per tanti anni quella rete di illusioni che ora si stava rivelando vuota d’ogni senso, e che tra poco lo avrebbe annientato, schiacciato tra le dita come un insetto tra le mani di un bambino viziato e capriccioso. Un tuono improvviso, là in alto, ed egli ebbe la sensazione che Dio in persona si fosse affacciato dalle nuvole a compiacersi della beffa che gli aveva giocato. Ebbene: che almeno lo sapesse, Dio, che lui aveva capito: che il tranello era stato smascherato, che il gioco insultante gli appariva ormai chiaro, e che Hernán Cortés perdeva soltanto perché il suo avversario aveva barato! Questo doveva gridare all’universo! Questo dovevano saperlo, almeno il mare e il cielo, spettatori impassibili della sua morte! E mentre i muscoli induriti si rifiutavano a ogni ulteriore sforzo, e già sentiva in gola l’acre sapore dell’acqua salmastra, Cortés tese il pugno verso le nuvole lanciando il grido del suo estremo disprezzo:

    «Dio maledetto! Dio maledetto!»

    Ripeté il grido finché ebbe fiato in gola, poi chiuse gli occhi, quasi volesse cedere all’avvicinarsi della morte. E invece, inaspettato e assurdo, un terrore improvviso lo colse, come emergendo da antichi incubi infantili: l’inaudita bestemmia lo avrebbe condannato alle fiamme dell’inferno? Con le sue stesse mani avrebbe dunque completato il disegno di Dio, scavandosi la fossa della dannazione eterna? O forse era questa un’ultima prova, l’estrema offerta della Provvidenza divina? Terrore, speranza, volontà di rovesciare in positivo tutti i segni del disegno di cui aveva accusato Dio, si accumularono nel suo animo operando il miracolo. I muscoli si rianimarono, cervello e cuore avvertirono precisa la possibilità della salvezza, una lucida determinazione si sostituì al groviglio di contraddizioni che l’aveva sconvolto più di ogni tempesta. Cortés riprese a nuotare: agile e leggero, preciso nei gesti, efficace in ogni bracciata, dissolto l’accumulo delle fatiche precedenti... Tagliò senza sforzo l’insidiosa corrente del vortice, raggiunse di nuovo le acque agitate che ora gli parvero quasi familiari e accoglienti, leali nemici da superare in un leale confronto, e fendendo i marosi trovò la giusta direzione verso la terraferma. A poco a poco la fatica si fece di nuovo grande, ma ogni sforzo sembrava ora trovare il suo premio: il vento soffiava a suo favore, e le onde lo sospingevano anche nei radi istanti in cui egli si fermava per rifiatare. La riva era ormai a poche centinaia di bracciate, e Cortés gettò nella lotta tutte le energie che gli erano rimaste. Con i piedi toccò un primo banco di sabbia, attraversò poi un altro braccio d’acqua alta, poi finalmente urtò contro il fondale. Cercò di mantenersi dritto e di raggiungere camminando la terraferma, ma le onde e la risacca glielo impedivano. Strisciò dunque goffamente a riva, trascinandosi sulle mani e sulle ginocchia, e solo al riparo dalle onde, si alzò in piedi barcollando per guardarsi attorno. Non riconobbe il luogo. Non un’anima viva, non una luce, non una casa. Lentamente, si voltò a guardare il mare cui era sfuggito: vide le onde enormi, le torri di spuma contro le rocce radenti, il cielo di nuovo solcato dalle serpentine dei fulmini, sentì lo scrosciare dei marosi che si infrangevano sugli scogli, e i tuoni che si urtavano tra le nuvole... Lui era dunque scampato a quel diluvio senza neppure rendersi conto delle sue reali dimensioni; era uscito vivo da quell’inferno d’acqua che ora gli appariva chiaramente invincibile, ben al di là di ogni forza umana...

    Perché? Chi lo aveva aiutato? E a che scopo?

    Ben più che sfuggito a un pericolo, per grande che fosse, si sentì resuscitato da morte. Improvviso, lo colse il senso della bestemmia urlata nel momento della disperazione. Fu scosso da un tremito febbrile, e la tensione si sciolse in un pianto nervoso e irrefrenabile. Cortés alzò gli occhi al cielo, cadde in ginocchio, e percotendosi col pugno il petto, lui, peccatore ingrato, chiese perdono a Dio, giusto e buono, nascosto dietro le nuvole.

    ***

    Il sole era ormai alto nel cielo, limpido e terso dopo la tempesta, quando Cortés aprì gli occhi. Ancora sotto la pioggia battente, aveva trovato rifugio in una macchia di cespugli aromatici protetti da piante d’alto fusto, e lì era caduto in un sonno profondo e senza sogni. Ora, le vesti ancora inzuppate d’acqua marina e di pioggia, si sentiva la testa in fiamme e il corpo squassato

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