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I Due Titani
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E-book296 pagine4 ore

I Due Titani

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Info su questo ebook

Una nuova minaccia sorge, pericolosa più che mai, in un mondo dove il Bene lotta da sempre contro il male. Una minaccia macchiata da un turpe assassinio e mossa da spietate ambizioni. Molti si ergeranno contro di essa, molti lotteranno uniti sotto un unico vessillo; tu da che parte ti schiererai? Al fianco della Luce o al fianco dell'Oscurità?

I Due Titatin è un fantasy ricco di azione e strategia, magia e duelli, razze sconosciute e animali feroci, tutto è pronto per trasportarti verso orizzonti nuovi e provare sensazioni da tempo assopite. Volate sulle ali della fantasia!
LinguaItaliano
Data di uscita14 giu 2014
ISBN9786050307641
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    Anteprima del libro

    I Due Titani - Andrea Curcio

    Andrea Curcio

    I Due Titani

    UUID: 274372d0-f3ba-11e3-a28d-27651bb94b2f

    Questo libro è stato realizzato con BackTypo (http://backtypo.com)

    un prodotto di Simplicissimus Book Farm

    Indice dei contenuti

    CAPITOLO I

    CAPITOLO II

    CAPITOLO III

    CAPITOLO IV

    CAPITOLO V

    CAPITOLO VI

    CAPITOLO VII

    CAPITOLO VIII

    CAPITOLO IX

    A Papà e Mamma, alla mia Famiglia, ai miei Nonni e a tutti quelli

    che mi hanno sostenuto, anche se non ci sono più.  

    L'infanzia

    Questo primo volume è da paragonare all’infanzia, perché in esso il male e il bene lottano uno diviso dall’altro fin dall’inizio. Così come il bambino sa cos’è bene e cos’è male, cos’è giusto e cos’è sbagliato, anche qui c’è una netta distinzione. Tuttavia crescendo si scopre che non è così, e allora il bianco e il nero si fondono macchiando quelle tinte che pensavi fossero separate. Prima di cominciare la lettura di questo libro, provate a disconnettere il cervello, a isolarvi e abbandonare questa realtà. Provate a tornare bambini, a tornare a sognare, sognare di volare e di fare le magie, aprite quei cancelli che si chiudono crescendo e volate sulle ali della fantasia, senza la quale questo libro non sarebbe esistito. Se non siete capaci di farlo avete sbagliato lettura, ma ne dubito, siamo tutti un po' bambini e siamo tutti in grado di fantasticare; solo così potrete andare avanti e sfogliare queste pagine dove troverete incantesimi, guerre e un mondo che ancora non conoscete pronto a travolgervi così come ha fatto con me.

    «Le fiabe non insegnano ai bambini che i draghi non esistono,

    loro lo sanno già che non esistono;

    le fiabe insegnano ai bambini che i draghi si possono sconfiggere».

    G.K. Chesterton

    Il mondo

    Il sud

    Ital Rock

    Il Cancello di Ital

    CAPITOLO I

    Un principio macchiato di sangue

    Tutto ha un principio, tutto ha una fine. Questa storia inizia in un tempo remoto, un giorno d'estate, eppure tutto accadde di notte...

    I passi lenti si susseguivano sul gelido marmo della Bianca Reggia, passi accompagnati, quasi sostenuti, da un ticchettio legnoso non comune a tutti i guerrieri, mentre il manto del soldato sfiorava la pietra proprio come il naso umido di un lupo sfiora la terra per captare l'odore della preda. Fuori brillava la luna, una luna bianca e piena che lambiva l’intera Roccaforte con i suoi raggi delicati, penetrando dagli archi a sesto acuto fino a toccare le torce roventi con piccoli giochi di luce color latte. La figura avanzava lungo il corridoio dell'ala ovest, tra infinite fiaccole con lingue di fuoco che danzavano gioiose nelle loro vesti scarlatte, gettando sulle pareti lunghe ombre scure che si stagliavano sul marmo, ormai tinto d'arancio.

    Giunse così innanzi a una porta: una testa di unicorno col crine al vento era scolpita sul legno, con accanto due giovani figuri con un’armatura e un elmo ornato da una lunga criniera bianca. Nelle mani stringevano, specularmente, due alabarde con un piccolo drappo blu sotto la lama. Non appena si trovò davanti a loro, quelli scattarono rigidi per porgergli gli omaggi, ma non ricevettero nessun saluto. Il guerriero portò la mano sinistra al petto, chiuse le dita di scatto e i due si accasciarono al suolo per poi soffocare emettendo un lieve rantolo. Li scavalcò come fossero feccia, mentre una mano guantata andava alla maniglia e l’altra spingeva l’uscio lentamente; questo portava a una grande sala con al centro un letto a baldacchino su cui sognava ignaro il saggio Imadurien. Lo scatto di una lama e un leggero clangore metallico invasero la sala. Ci furono tre lunghi passi sul pavimento di quercia e mentre un'ombra nera avanzava, si udì un bisbiglio:

    «Addio, vostra maestà!». La voce era talmente fioca che persino il ronzare di una mosca avrebbe potuto nasconderla.

    Un ruggito di dolore percorse tutte le stanze, e andò via via scemando. Lo sguardo si annebbiò e dal suo petto fuoriuscì la lama di un pugnale. Quello che ormai era un cadavere riconobbe il suo aggressore e col poco fiato che aveva in corpo, disse:

    «Fratello?!».

    «Esatto».

    «Perché l'hai fatto? Perc... ».

    La mano gelida dell'assassino si allungò per tappare la bocca al Re, mentre l'altra avvolse il suo collo regale, come una serpe che si prepara a stritolare il futuro pasto. Ebbene si, l'assassino poteva essere paragonato solo a un serpente, e dei più infingardi, poiché uccise solo per invidia, tradendo tutti, persino la sua famiglia.

    La mano stringeva sempre più forte e il sangue del Sovrano tingeva le candide coperte. Il Regnante diede un ultimo sguardo al mondo fuori dalla finestra; scorse l’Accademia e la cinta muraria, illuminate dal fuoco. Lanciò un'occhiata alle stelle che luccicavano come gemme intorno al diamante più bello: la luna. Chiuse gli occhi e dischiuse lentamente le labbra esangui, mentre attorno al collo le spire scomparvero e il pugnale fu estratto dal morto. Un fiotto rosso puntò debolmente verso il soffitto. La porta si chiuse. Passi rapidi e silenziosi raggiunsero l'uscita della Reggia, mentre il pugnale lasciava dietro di sé una scia scarlatta. Un nitrito riecheggiò nelle stalle, un cavallo venne spronato al galoppo mentre i fedeli e le guardie tentavano invano di rianimare il Re. Le donne si coprirono il volto solcato dalle lacrime, gli uomini si batterono il petto, la guardia reale brandì l'arma lucente. Corsero fuori. Lo scalpitio degli zoccoli invase le cinte murarie; sul lastricato l’avanzata del destriero divenne sempre più rapida, nel disperato tentativo di portare lontano il suo cavaliere, mentre i battenti stavano per chiudersi. Il fuggitivo riuscì a scampare alla pena capitale per un soffio, per poi dirigersi verso sud. L’adito si chiuse con un tonfo alle sue spalle, mentre numerose frecce dalla punta infuocata si libravano nell'aria.

    La Piazza della Roccaforte era illuminata a giorno; gli uomini accorsero nelle strade, le donne si affacciarono alle finestre. Il capo della Guardia Reale richiamò i marescialli, intimando loro secchi ordini mentre quel figuro si allontanava rapidamente dalla Città, immerso nelle tenebre. Riaprirono il Cancello, i cavalieri pronti all’inseguimento; tutto a un tratto si udì un rombo di tuono che fece calare il silenzio, mentre la volta celeste si apriva per rigurgitare una saetta. Il fulmine avanzò irregolare nell’aria e milioni di scintille roventi colpirono il guerriero. Una scia di nubi avvolse il fratello del sovrano. D'un tratto fu buio e le stelle smisero di luccicare e la luna abbandonò il cielo. Dopo qualche secondo di terrore nella più totale oscurità, si riaccesero le luci: una sagoma scura cavalcava un destriero dagli occhi di fuoco. Nei boschi e lungo i sentieri echeggiarono dei lamenti, simili a cantilene di morte e di dolore.

    La corporatura dell’uomo maledetto, perché si trattava proprio di una maledizione, era gracile, scheletrica; la pelle era così sottile da lasciare intravedere le deboli ossa delle mani e del volto. L'uomo era privo di espressione, con labbra sottili e scarne, occhi infossati, gialli e iniettati di sangue, ed era avvolto da una cupa e larga veste. Le dita secche stringevano a fatica un bastone contorto e nero, sormontato da un globo opaco avvolto da un pezzo di legno che ricordava le spire di un serpente. Si allontanò nell’ombra mentre la Roccaforte si mobilitava per dargli la caccia. Fu tutto inutile. Sembrava si fosse dissolto.

    I raggi dorati del primo sole spuntarono come lance dietro i monti; nessuno sapeva o immaginava dove fosse l'assassino ed erano tutti addolorati e turbati per la dipartita del beneamato regnante. Fu un giorno lento e colmo di tristezza. Il Funerale venne celebrato la sera stessa. Il re e i due guerrieri uccisi furono posti su degli altari di betulla; il sovrano era vestito con una lunga veste blu rifinita d’argento, dello stesso colore della fibbia e del fermaglio sul mantello blu notte. Il viso, calmo e roseo, era sovrastato da una corona di diamanti, che svettava sulla chioma scura come l'acqua di una sorgiva, trasparente e cristallina, decorata da un unicorno. Fra le sue mani guantate, poggiate sul busto, erano adagiati i suoi armamenti, la spada e il bastone. Sotto le membra senza vita c’erano numerose fascine, legate con corde di canapa e impregnate di pece. Sei uomini erano stretti in cerchio attorno alla Salma: erano i più anziani della Torma Reale, i cosiddetti Ishimai o Armi della Luce, a cavallo di destrieri bianchi anch'essi bardati da stoffe blu con rifiniture d’argento. Tra le mani stringevano lunghe alabarde con lo stendardo della Luce, una testa di unicorno bianca su sfondo scuro coronato da cinque stelle; in vita portavano la spada e il pugnale, sulle spalle un lungo arco. Indossavano una cotta di maglia e un’armatura di acciaio splendente con impresso al centro l'emblema dello stendardo. Sul capo, un elmo a forma di testa di un unicorno decorato da un fluente crine perlaceo e da un lungo corno d’argento o, per il capo della Torma, d’oro.

    Lunghi mantelli blu scendevano dalle loro spalle andando a poggiarsi sulla schiena dei destrieri. Poco distanti dalla salma, sul tetto della Reggia alle spalle della sua alta torre, si trovavano i quattro arcieri, i membri più giovani degli Ishimai; davanti al Sovrano e al capo della Torma, invece, c’erano un giovane dai ciuffi castani e riccioluti e una vetusta figura con i capelli brizzolati, entrambi con un’aria assorta e triste mentre le loro vesti erano scosse dal vento in un sodalizio di pieghe. L'anziano avanzò per poi togliere dal capo del vecchio Regnante la corona, trattenendola con mano molto più ferma di quanto ci si aspettasse da un uomo della sua età. Le sua dita rugose si strinsero attorno al cristallo, mentre i polpastrelli lo accarezzavano delicatamente; il ragazzo si inginocchiò ai piedi della veneranda figura, la quale alzò la corona che, inondata dai raggi della luna, iniziò a splendere come se fosse di pura luce.

    Il saggio prese parola con aria solenne:

    «Giovane Eishiri, poni le tue armi innanzi a me, al popolo e al tuo defunto Tutore».

    Il giovane, che portava abiti semplici, posò ai piedi del sapiente la spada e il bastone, per poi chinarsi di nuovo:

    «Con questo gesto pongo la mia forza e la mia mente al servizio del Regno».

    «Ragazzo, questa notte prenderai le redini di un Regno millenario. Credi di esserne degno?».

    «Spero di esserlo e mi prefiggo l'obiettivo di divenire un buon re».

    «E sia! Allora Eshiri, erede di Imadurien, ti nomino sovrano di Ital, che la luce sappia guidarti in eterno».

    Il vecchio pose sul capo del giovane la corona, che per pochi secondi scintillò come una stella. Nella storia del regno, pochi giorni furono nefasti come quello: nessuno notò che la corona era opaca, quasi fosse impolverata. Il capitano degli Ishimai sguainò la sua spada e l’alzò verso il cielo assieme allo stendardo reale, si udì il suono di una tromba, tutti scattarono sull’attenti. Le frecce infuocate furono scagliate sul corpo del dipartito condottiero e sui due fedeli sudditi, generando un grande incendio di fiamme bianche e gialle, che si alzarono sempre più in alto fino a fondersi con il cielo.

    Gli spettatori di quella danza di lingue luminose videro figure eteree, di sogno, e non di terrore; ammaliati, restarono ad ammirare quello spettacolo finché il sonno non li avvolse, costringendoli a tornare nelle proprie dimore. Il rogo arse per tutta la notte e si spense solo alle prime luci dell'alba, come spaventato dal sorgere del grande astro. Un soffio di vento disperse nell’aria la cenere rimasta.

    In quello stesso istante l'assassino aveva trovato rifugio nei monti del Nemurikari, in un luogo noto nella lingua corrente come Deserto Infinito, e dopo aver stabilito la sua nuova dimora nelle dure caverne ai piedi dei monti, si mosse nascosto dalle ombre. Andava di regno in regno per reclutare, o per meglio dire irretire, saggi e alchimisti, col solo uso della favella e della menzogna, prendendoli come suoi compagni, illudendoli, iniziando così a scegliere il proprio popolo. Vaste lande di terra maledetta divennero la dimora degli orchi, iniziando a generare malefiche creature. Esseri mostruosi vennero catturati e sottoposti a terribili torture e maledizioni per trasformarli in nuove bestie; le fucine furono invase dalle fiamme diventando veri e propri inferni. L'industria del male cominciava a muovere i suoi oscuri ingranaggi e ad azionare loschi meccanismi, emettendo un fetore che lentamente andava a coprire l'intera Ifishe Terriòr.

    Passarono i mesi e l'oscuro impero insinuò le sue radici nella terra, radici troppo profonde per essere estirpate, radici che avrebbero resistito all’inverno più freddo. Un nuovo regno era sorto, un regno fondato sulla morte e reso forte dal dolore, governato da un assassino che dalla sua reggia muoveva ogni pedina, come se stesse giocando una partita di scacchi.

    Ancora morte

    Dopo quattro mesi esatti dall'ascesa al trono di Eishiri, la macchina del male si azionò. Al suo comando si pose una figura che, macchiatasi del sangue dei propri compagni nei modi più loschi, decise di colmare la sua sete di vendetta e potere, generando un grande esercito di orchi con numerose armi e ponendosi come supremo condottiero. Era Dravid, il fratricida. Il suo aspetto era cambiato; aveva il viso oscurato da una maschera di ferro, finemente lavorata, forse dagli elfi, con tagli ovali all'altezza degli occhi e una bocca infida dai denti acuminati, che donava al complesso un'aria mefistofelica. Se fosse per nascondere la vergogna di un corpo logoro e rivoltante o per dar prova del suo potere, nessuno lo sa.

    Giunse il giorno in cui Dravid e le sue truppe furono rigurgitate dal deserto. Fu una notte terribile. L’esercito si mosse verso Nord, verso Ifishe Terriòr, dove attaccò un villaggio di medie dimensioni che presidiava il confine ed era colmo di abili guerrieri. I soldati giunsero marciando, serrati, col fuoco e con le asce, distruggendo tutto; fu quello il triste destino degli abitanti. Li videro arrivare da lontano, annunciati dal fumo della loro distruzione. Un uomo corse dal Luogotenente, ansimando e rosso dallo sforzo:

    «Mio signore! Mio signore! Orchi, orchi all’orizzonte. A centinaia!» urlò spalancando la porta rinforzata della guarnigione.

    «Orchi?» domandò, smettendo di parlare con un battagliero e voltandosi di scatto verso l’informatore. «Dannazione» sibilò, per poi voltarsi verso l’armigero con cui stava parlando. «Raduna gli uomini lungo le mura, porta l’olio e la pece sul cancello e accendi tutte le torce. Li prenderemo con il fuoco». L’uomo chinò il capo ponendosi una mano sul cuore, per poi allontanarsi. 

    «Puoi andare» disse per congedare l’altro.

    Per fortuna indossava già l’armatura, che toglieva solo la sera, viste le recenti minacce, ma anche in quel momento aveva la spada a portata di mano. Prese il mantello blu notte con merlature color bronzo, simbolo del suo rango, e se lo mise sulle spalle fissandolo al pettorale d’acciaio. Infilò un paio di guanti spessi, allacciò la cintura e sistemò la spada, afferrò una faretra e strinse l’arco per dirigersi sulle mura. Non appena superato l’ingresso della guarnigione, gli venne incontro un altro guerriero:

    «Signore, Armathfel sta preparando ciò che gli avete chiesto, c’è altro?».

    «Sprangate il portone, fai sellare i cavalli, compreso il mio e tieni pronto lo stendardo».

    Il suo sguardo era bieco e i suoi occhi color pece lo rendevano ancora più minaccioso; continuava a mordicchiarsi nervosamente il labbro inferiore mentre procedeva verso la cinta muraria. Lo raggiunse Armathfel.

    «Abbiamo trovato un solo barile di pece, ma per il resto siamo quasi pronti, mio signore. Quando si avvicineranno, sapremo come attaccare».

    «Poca pece e tanti uomini fuori dalle mura. Sarà una battaglia difficile».

    «Abbiate fede».

    «Quel che vedo mi spaventa, ma Città del Confine reggerà». Allungò lo sguardo in direzione delle orde: «Issate i vessilli del Re! Che garrisca l’Unicorno!» intimò ai guerrieri posti sulle varie torri. «Armathfel, se dovesse volgere al peggio, partirò alla carica con la cavalleria e dovrai essere tu a occuparti della difesa delle mura».

    L’uomo non rispose e attesero l’arrivo del nemico fianco a fianco. I guerrieri erano tutti al loro posto: settecento uomini stanziavano dietro le merlature e duecento cavalli sbuffavano mordendo il freno in attesa del loro momento. Il Luogotenente si era messo sull’arco del Cancello quando il nemico fu a tiro:

    «Incoccare» disse, afferrando una delle frecce, e tirò verso di sé l’impennatura avvicinandola all’orecchio destro. «Mirare» chiuse l’occhio sinistro per mirare il petto di un orco. «Scoccare!» urlò a gran voce. La freccia sibilò in aria conficcandosi nell’obiettivo, che cadde a terra. «Colpite le prime linee e date fuoco alle frecce,» scoccò nuovamente «appena raggiungono i cento piedi dalle mura».

    Gli orchi urlavano e sbraitavano muovendosi disordinati, ma in preda alla smania di uccidere. Il Luogotenente sapeva che quella sarebbe stata la loro rovina. Quando le orde raggiunsero i cento piedi dalle mura, molti orchi erano già morti e quelli sopravvissuti si trovarono trafitti da frecce infuocate; ben presto avanzarono alcuni soldati che portavano un lungo tronco appuntito. Dieci orchi ricoperti di ferro lo reggevano stringendo le maniglie arrugginite conficcate nel legno, mentre altri li fiancheggiavano con in mano grossi scudi:

    «Puntate all’ariete!» urlò il Luogotenente. «Puntate all’ariete! E voi due, prendete la torcia, pronti ai barili, appena si avvicinano lanciateli contro al nemico!». Una sua freccia colpì al petto un orco, che cadde rovinosamente a terra. «Mirate al collo! Non avranno le gorgiere!». Scagliò un’altra freccia che si conficcò nel collo di un soldato nemico, facendolo cadere avvolto da uno schizzo di sangue. La notte divenne più scura sebbene il fuoco schiarisse le ombre.

    L’ariete giunse ai portoni. Colpì due volte i battenti prima che la pece infuocata vi cadesse sopra, appiccando il fuoco mentre l’olio bollente faceva allontanare gli orchi. Ne giunsero altri, si ammassarono attorno all’ingresso e afferrarono l’ariete, sebbene fosse ricoperto dalle fiamme:

    «Armathfel! Prendi tu il comando! Cavalieri, a me!» urlò il Luogotenente afferrando una torcia.

    Si calò dalle mura, mentre dietro di lui si radunavano molti uomini; raggiunsero le stalle e montarono a cavallo. Le donne porsero loro le lance e il Luogotenente strinse lo stendardo. Si disposero dietro al Cancello e attesero l’inevitabile; alcuni artigiani cercarono di sprangare i battenti ma alla fine si udì il rumore del legno sfasciato e si videro le fiamme. Suonò il corno della carica e il nemico fu travolto e schiacciato dagli zoccoli che li colsero alla sprovvista. Si aprirono un varco tra i malvagi per poi allontanarli dalla zona antistante all’ingresso:

    «Armathfel!» urlò il Luogotenente facendo girare il suo cavallo. «Fa alzare le barricate. Resteremo qua fuori».

    «Mio sign…».

    «Non si discute. La mia voce è la voce del Re!».

    «Come desiderate. Su le barricate! Bloccate l’accesso alla città!».

    Dietro di loro qualcosa iniziò a muoversi e il Luogotenente richiamò il cuneo dietro di se:

    «Formate il cuneo! Li fermeremo!» urlò, alzando lo stendardo.

    L’unicorno bianco sventolò in aria mentre il corno suonò alla carica. Il cuneo cavalcò verso gli orchi che ora si apprestavano ad assaltare di nuovo le mura, senza però avanzare. Duecento cavalieri combatterono e in molti persero la vita, cadendo insieme ai cavalli, trafitti dalle frecce nemiche. Lottarono valorosamente fino a quando non furono issati gli sbarramenti. Suonò la ritirata e tutti si radunarono davanti all’ingresso.

    Il Luogotenente si voltò con la fronte madida di sudore e, mentre dalle merlature piombavano frecce e sassi e si rovesciavano catini di olio bollente, suonò l’attacco mostrando lo Stendardo reale. La cavalleria si gettò nella mischia; molti nemici li circondarono, le spade tagliavano la carne, le frecce la penetravano di netto, le cavalcature nitrivano impazzite e gli uomini urlavano di dolore. Dravid abbandonò le retrovie, si avvicinò alla mischia e alzò una mano stringendo nell’altra il suo bastone. Una grossa palla di fuoco si schiantò al centro di quel tumulto per poi esplodere rilasciando nell’aria rosse lingue di fuoco. Orchi e cavalieri morirono bruciati e lo stendardo cadde a terra, anch’esso nero per via del fuoco. Lo stregone si fermò in quel punto mentre le orde tornarono all’attacco; erano state decimate ma potevano ancora prendere la città, purché qualcuno gli desse un aiuto. Dravid aprì le braccia stringendo nella sinistra il bastone che posizionò perpendicolare al terreno. Dopo pochi secondi congiunse le mani; dal rumore che ne scaturì si generò un’enorme colonna di fuoco che si mosse in linea retta uccidendo alcuni orchi per poi distruggere le barricate, innalzando un muro incandescente. I malvagi entrarono nella città poco dopo. La notte arse di urla e dolore.

    Giunse la mattina, con i delicati raggi del sole, mostrando uno scenario orrifico: il villaggio era stato distrutto, saccheggiato e bruciato. I corpi degli uomini erano stati brutalmente evirati e ammassati nell'ombra; ma non era altro che una goccia nell’oceano. I cavalieri erano stati impalati e il Luogotenente, nudo ed evirato, era stato trafitto con la sua stessa insegna, strappata e deturpata. Non furono risparmiati nemmeno le donne e i bambini le cui carni, straziate e seviziate, furono date in pasto ai corvi ingordi che roteavano in alto per poi ammassarsi sulle membra senza vita, infilandovi i becchi appuntiti.

    I volti dei cadaveri lasciavano trapelare il dolore provato, le labbra contorte, gli sguardi vacui, i volti fissi in smorfie abominevoli: tutto indicava la sofferenza inflitta ai corpi prima di perire. Un solo cavallo

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