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Analista con la coda
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E-book181 pagine2 ore

Analista con la coda

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Info su questo ebook

SINOSSI È questo il primo romanzo che ho scritto, anche se ho deciso di pubblicarlo solo ora. Vi si parla di sentimenti e di tenerezza, tenerezza di un uomo per il suo gatto e del gatto per il suo compagno umano, perché il gatto non ha padrone. Se tra i due il rapporto funziona, si crea un sodalizio che aiuta a superare momenti difficili, incomprensioni famigliari, periodi di tristezza. Tutto con naturalezza, senza bisogno di farmaci, di terapie, di esperti, perché a volte un piccolo essere come un cane o un gatto può fare il miracolo che gli uomini non riescono a fare. Non è un libro adatto a chi non ama gli animali.
LinguaItaliano
Data di uscita2 nov 2021
ISBN9791220362078
Analista con la coda

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    Anteprima del libro

    Analista con la coda - Paola Zoli

    SI­NOS­SI

    È que­sto il pri­mo ro­man­zo che ho scrit­to, an­che se ho de­ci­so di pub­bli­car­lo so­lo ora. Vi si par­la di sen­ti­men­ti e di te­ne­rez­za, te­ne­rez­za di un uo­mo per il suo gat­to e del gat­to per il suo com­pa­gno uma­no, per­ché il gat­to non ha pa­dro­ne. Se tra i due il rap­por­to fun­zio­na, si crea un so­da­li­zio che aiu­ta a su­pe­ra­re mo­men­ti dif­fi­ci­li, in­com­pren­sio­ni fa­mi­glia­ri, pe­rio­di di tri­stez­za. Tut­to con na­tu­ra­lez­za, sen­za bi­so­gno di far­ma­ci, di te­ra­pie, di esper­ti, per­ché a vol­te un pic­co­lo es­se­re co­me un ca­ne o un gat­to può fa­re il mi­ra­co­lo che gli uo­mi­ni non rie­sco­no a fa­re. Non è un li­bro adat­to a chi non ama gli ani­ma­li.

    ANA­LI­STA CON LA CO­DA

    Il Pro­fes­sor An­to­nio Cor­ba­ri era pro­fon­da­men­te ad­dor­men­ta­to sul­la pol­tro­na del­la sa­la da pran­zo con le gam­be so­pra un puff e un gat­to sul­le gi­noc­chia. I due ron­fa­va­no all’uni­so­no ed era­no l’espres­sio­ne del­la più per­fet­ta bea­ti­tu­di­ne. D’un trat­to pe­rò il gat­to si al­zò a se­de­re con uno scat­to im­prov­vi­so sem­pre ri­ma­nen­do sul­le gi­noc­chia del suo com­pa­gno di son­nel­li­no ed an­che il pro­fes­so­re co­min­ciò a sve­gliar­si. Gi­ran­do­si al­la sua si­ni­stra, da do­ve ave­va sen­ti­to un ru­mo­re som­mes­so, vi­de suo fi­glio Ste­fa­no con una ra­gaz­za. Pa­dre e fi­glio si guar­da­ro­no per qual­che istan­te co­me se fa­ti­cas­se­ro a ri­co­no­scer­si, poi il pro­fes­so­re escla­mò:

    - Non ti aspet­ta­vo per og­gi. Per­ché non mi hai co­mu­ni­ca­to la da­ta del tuo ar­ri­vo? -

    - Ave­vo le chia­vi, non vo­le­vo scom­bi­na­re le tue abi­tu­di­ni. Que­sta è Me­la­nie. Ti ave­vo det­to che sa­rei ar­ri­va­to con un’ospi­te.-

    So­lo in quel mo­men­to Ste­fa­no par­ve ac­cor­ger­si del­la pre­sen­za del gat­to, ri­ma­se qual­che istan­te a guar­dar­lo con aria in­ter­ro­ga­ti­va, poi ag­giun­se:

    - Non sa­pe­vo che aves­si un gat­to, non me l’ave­vi det­to. -

    - Non me l’hai mai chie­sto; so­no tan­te le co­se che non mi chie­di più. Ad ogni mo­do si chia­ma Va­sco ed è il mio com­pa­gno di vi­ta. -

    A quel pun­to la ra­gaz­za co­min­ciò a la­men­tar­si, in un in­gle­se con spic­ca­to ac­cen­to ame­ri­ca­no, che lei era al­ler­gi­ca ai gat­ti.

    Il pro­fes­so­re ca­pi­va be­ne l’in­gle­se e, ben­ché lo par­las­se al­tret­tan­to be­ne, ri­spo­se in ita­lia­no:

    - Que­sto mi di­spia­ce, mi ren­do con­to che è un pro­ble­ma, ma lui abi­ta qui. -

    Ve­den­do l’espres­sio­ne de­lu­sa del­la ra­gaz­za, ag­giun­se che sa­reb­be ba­sta­to im­pe­di­re al gat­to di en­tra­re nel­le lo­ro ca­me­re, co­sa non fa­ci­le da­ta la na­tu­ra­le cu­rio­si­tà dei gat­ti, ma vi­sto che Va­sco an­co­ra non li co­no­sce­va si sa­reb­be for­se te­nu­to in di­spar­te.

    Ste­fa­no pe­rò eb­be un mo­to di sor­pre­sa nel sen­tir par­la­re del­le lo­ro ca­me­re. Per­ché, non ne ba­sta­va una?

    Beh, ri­spo­se il pa­dre, lui ave­va par­la­to di un’ospi­te di ge­ne­re fem­mi­ni­le sen­za me­glio spe­ci­fi­ca­re, ma si po­te­va ri­me­dia­re su­bi­to. Nel­la ca­me­ra del­la fi­glia, che se n’era an­da­ta da qual­che tem­po e che lui ave­va pre­pa­ra­to per la ra­gaz­za, c’era un let­to ge­mel­lo che avreb­be po­tu­to es­se­re tra­spor­ta­to nell’al­tra ca­me­ra e uni­to a quel­lo di Ste­fa­no. Co­sì dun­que fe­ce­ro, sot­to gli oc­chi in­cre­du­li e in­cu­rio­si­ti di Me­la­nie a cui pa­re­va di aver ap­pe­na fat­to la co­no­scen­za di un alie­no. Do­po cir­ca un’ora tut­to era sta­to si­ste­ma­to, i ba­ga­gli but­ta­ti prov­vi­so­ria­men­te in un an­go­lo del­la ca­me­ra da let­to ed aper­ti quel tan­to che ave­va con­sen­ti­to di ti­rar fuo­ri del­le co­mo­de tu­te, e fi­nal­men­te tut­ti e tre po­te­ro­no se­der­si in cu­ci­na da­van­ti ad una taz­za di the. Va­sco si te­ne­va nei pa­rag­gi os­ser­van­do da una di­stan­za di si­cu­rez­za que­gli stra­ni vi­si­ta­to­ri che non sem­bra­va­no pro­met­te­re nien­te di buo­no.

    Ste­fa­no ad un trat­to si ri­cor­dò che il pa­dre ave­va no­mi­na­to sua so­rel­la e ave­va det­to che se n’era an­da­ta da ca­sa. Ri­pen­san­do­ci, si ac­cor­se che era­no me­si che non ave­va no­ti­zie di lei. In ef­fet­ti, da quan­do ave­va la­scia­to l’Ita­lia, si era­no scam­bia­ti qual­che mail all’ini­zio poi lui ave­va la­scia­to ca­de­re ogni con­tat­to e lei non ave­va in­si­sti­to. Ades­so pe­rò era cu­rio­so di sa­per­ne di più, per­ciò chie­se al pa­dre co­sa fos­se suc­ces­so a Li­dia.

    - Li­dia - ri­spo­se il pro­fes­so­re, ri­flet­ten­do co­me per tro­va­re le pa­ro­le giu­ste -an­che lei è cre­sciu­ta. Ne de­vo es­se­re con­ten­to; d’al­tra par­te non po­te­vo mi­ca pen­sa­re che mi ri­ma­nes­se in ca­sa tut­ta la vi­ta, non me lo au­gu­ra­vo nem­me­no. Ha fat­to la sua scel­ta; spe­ro sia quel­la giu­sta. Non so nem­me­no se sa­rà quel­la de­fi­ni­ti­va, ma poi, co­sa c’è di de­fi­ni­ti­vo nel­la vi­ta? -

    Ades­so suo pa­dre sta­va di­ven­tan­do fi­lo­so­fi­co e lui in­ve­ce, or­mai abi­tua­to al prag­ma­ti­smo del Nuo­vo Mon­do, sta­va di­ven­tan­do im­pa­zien­te, im­pa­zien­te di es­se­re in­for­ma­to sen­za tan­ta per­di­ta di tem­po.

    - In­som­ma, bab­bo, cos’ha fat­to? É scap­pa­ta di ca­sa per se­gui­re qual­cu­no? Si è fat­ta suo­ra? É an­da­ta mis­sio­na­ria in Afri­ca? -

    - Scap­pa­ta non è. Ha sem­pli­ce­men­te fat­to la va­li­gia ed è an­da­ta a con­vi­ve­re con l’uo­mo che di­ce di ama­re. Non è an­da­ta mol­to lon­ta­no, sa­rà cir­ca un chi­lo­me­tro da qui.

    - Ca­pi­rai! Ma com’è an­da­ta ve­ra­men­te? Ave­te avu­to una di­scus­sio­ne, ave­te li­ti­ga­to? - Ste­fa­no a que­sto pun­to, pur non vo­len­do mo­stra­re un in­te­res­se ec­ces­si­vo nei con­fron­ti del­la so­rel­la, era mor­so dal­la cu­rio­si­tà di sa­pe­re co­me mai suo pa­dre aves­se la­scia­to an­da­re la sua fi­glia di­let­ta, co­lei che lui era si­cu­ro gli sa­reb­be ri­ma­sta at­tac­ca­ta co­me l’ede­ra.

    - No, non ab­bia­mo li­ti­ga­to, di­scus­so sì. D’al­tra par­te c’era po­co da di­scu­te­re; quan­do uno s’in­na­mo­ra i ra­gio­na­men­ti val­go­no po­co e an­che chi vuol far ra­gio­na­re una per­so­na, se si fer­ma un at­ti­mo a pen­sa­re, non rie­sce più a ca­pi­re nem­me­no lui da che par­te stia ve­ra­men­te la ra­gio­ne. Chi po­te­va di­re in tut­ta cer­tez­za che non fos­se quel­la la scel­ta giu­sta?

    - Pe­rò an­co­ra non mi hai det­to chi è l’og­get­to del­la scel­ta. -

    - Il suo in­se­gnan­te di chi­tar­ra, un mu­si­ci­sta. No, non fa­re quel­la fac­cia, non uno dei so­li­ti ra­gaz­zi che met­to­no su un pic­co­lo com­ples­so sen­za nean­che co­no­sce­re la mu­si­ca. Li­dia è sem­pre sta­ta mol­to se­ria nel­lo stu­dio, per­ciò, quan­do si è mes­sa in te­sta di im­pa­ra­re a suo­na­re la chi­tar­ra, quel­la clas­si­ca in­ten­do, si è scel­ta un mae­stro di­plo­ma­to al Con­ser­va­to­rio che in­se­gna­va in una scuo­la pri­va­ta.

    - Ogni tan­to mia so­rel­la rie­sce a stu­pir­mi. -

    Suo pa­dre avreb­be vo­lu­to di­re: - An­che me. - Ma si trat­ten­ne per­ché si ac­cor­se che avreb­be po­tu­to es­se­re in­ter­pre­ta­to nel mo­do sba­glia­to.

    - Lei an­da­va a ca­sa dell’in­se­gnan­te con la sua chi­tar­ra. De­vo di­re che obiet­ti­va­men­te il ra­gaz­zo non è ma­le. Poi, sai, quan­do ti met­ti a suo­na­re cer­ti pez­zi il tuo fa­sci­no au­men­ta a di­smi­su­ra. Cre­do che la pas­sio­ne ve­ra e pro­pria sia esplo­sa quan­do lui le ha fat­to sen­ti­re co­me do­ve­va es­se­re ese­gui­to il tre­mo­lo, suo­nan­do­le quel bra­no di Tar­re­ga, Re­cuer­dos de la Alham­bra. É una me­lo­dia strug­gen­te. -

    - Ades­so a sor­pren­der­mi sei tu. Hai la­scia­to che tua fi­glia se ne an­das­se a vi­ve­re con un uo­mo che per te era uno sco­no­sciu­to e che pro­ba­bil­men­te non sa­rà nem­me­no in gra­do di of­frir­le una vi­ta se­re­na. Guar­da che non ti sto rim­pro­ve­ran­do; pen­so sol­tan­to che qual­che an­no fa non l’avre­sti mai fat­to. Ri­cor­do be­ne il rap­por­to sim­bio­ti­co che c’era tra voi due: sem­bra­va qua­si un in­na­mo­ra­men­to. -

    - Qual­che an­no fa Li­dia era una ra­gaz­za, spes­so av­ven­ta­ta e im­pul­si­va co­me tut­ti i gio­va­ni di quell’età. Ave­va bi­so­gno di es­se­re se­gui­ta. Sì, lo so che tu hai sem­pre guar­da­to con oc­chio cri­ti­co il no­stro rap­por­to, ma non era co­me pen­si tu. Ave­va­mo sem­pli­ce­men­te gli stes­si in­te­res­si: io in­se­gna­vo gre­co e la­ti­no e quel­le era­no le ma­te­rie che lei pre­di­li­ge­va, le let­te­re clas­si­che. Ades­so lei è una don­na pie­na­men­te con­sa­pe­vo­le di quel­lo che vuo­le e in­di­pen­den­te quel tan­to che può es­se­re in­di­pen­den­te un gio­va­ne nell’at­tua­le cri­si eco­no­mi­ca. De­ve es­se­re li­be­ra di fa­re le sue scel­te-.

    Ste­fa­no ri­ma­se in si­len­zio. Ave­va la­scia­to suo pa­dre tre an­ni pri­ma in pre­da a una tem­pe­sta di op­po­sti sen­ti­men­ti: la sen­sa­zio­ne di sof­fo­ca­re nell’at­mo­sfe­ra che si re­spi­ra­va in ca­sa, il de­si­de­rio di fa­re nuo­ve espe­rien­ze ed ave­re mi­glio­ri pro­spet­ti­ve di car­rie­ra e d’al­tra par­te la scher­ma­glia con­ti­nua con la pro­pria co­scien­za che gli di­ce­va di non ab­ban­do­na­re il pa­dre in quel par­ti­co­la­re mo­men­to del­la sua vi­ta. Qual­che me­se pri­ma il pro­fes­so­re ave­va per­so la mo­glie all’im­prov­vi­so, per un em­bo­lo che l’ave­va por­ta­ta via in po­che ore, e per di più pro­prio in quell’an­no era an­da­to in pen­sio­ne. Que­st’ul­ti­ma co­sa già di per sé era sta­ta trau­ma­ti­ca per un in­se­gnan­te che ave­va fat­to del­la scuo­la e dei suoi stu­den­ti la sua ra­gio­ne di vi­ta; la mor­te del­la mo­glie era sta­ta la ba­to­sta fi­na­le che l’ave­va tra­sci­na­to in uno sta­to di pro­stra­zio­ne as­sai pre­oc­cu­pan­te. Tut­ta­via que­st’uo­mo, te­star­do e in­di­pen­den­te nel­le sue scel­te, ave­va sem­pre ca­par­bia­men­te ri­fiu­ta­to un qual­sia­si aiu­to psi­co­lo­gi­co, nel­la con­vin­zio­ne che al­la fi­ne ce l’avreb­be fat­ta da so­lo ad uscir­ne.

    All’epo­ca Ste­fa­no era un gio­va­ne astro­fi­si­co che la­vo­ra­va co­me ri­cer­ca­to­re all’uni­ver­si­tà e pro­prio in quel pe­rio­do gli era sta­ta of­fer­ta la pro­spet­ti­va al­let­tan­te di un sog­gior­no di la­vo­ro e di stu­dio ne­gli Sta­ti Uni­ti per far par­te di un team di ri­cer­ca pres­so una pre­sti­gio­sa uni­ver­si­tà ame­ri­ca­na, nell’am­bi­to di ac­cor­di di col­la­bo­ra­zio­ne tra uni­ver­si­tà di va­ri pae­si. Le set­ti­ma­ne che se­gui­ro­no la no­ti­fi­ca di que­sta en­tu­sia­sman­te pro­po­sta, fu­ro­no for­se le più dif­fi­ci­li che il gio­va­ne dot­to­re aves­se mai pas­sa­to in vi­ta sua. La de­ci­sio­ne, che in cir­co­stan­ze nor­ma­li avreb­be po­tu­to es­se­re im­me­dia­ta, sem­bra­va qua­si im­pos­si­bi­le da pren­der­si sen­za far gra­vi dan­ni ad una di que­ste due co­se: la car­rie­ra, con tut­ti i so­gni che que­sto mi­rag­gio si por­ta­va ap­pres­so, e la pro­pria co­scien­za.

    Ora, Ste­fa­no nel tem­po si era con­vin­to che tra lui e suo pa­dre non ci fos­se mai sta­ta una gran­de in­te­sa e fin dall’ado­le­scen­za ave­va co­min­cia­to a guar­da­re con una sor­ta di ge­lo­sia mi­sta a ri­sen­ti­men­to il rap­por­to che si an­da­va via via in­stau­ran­do tra il pa­dre e la so­rel­la e che, a giu­di­zio del­la sua na­tu­ra so­spet­to­sa, sem­bra­va esclu­der­lo. In quel mo­men­to, pe­rò, que­sto rap­por­to ve­ni­va a far­gli mol­to co­mo­do, da­to che la ra­gaz­za vi­ve­va an­co­ra in ca­sa ed era, ne era si­cu­ro, la com­pa­gnia che ci vo­le­va per il pa­dre. Que­sta con­si­de­ra­zio­ne ave­va co­min­cia­to a tran­quil­liz­za­re la sua co­scien­za e per di più suo pa­dre, quan­do ave­va ca­pi­to in qua­le di­lem­ma il fi­glio stes­se di­bat­ten­do­si, si era mes­so ad in­si­ste­re per­ché par­tis­se, di­cen­do che sa­reb­be sta­to un de­lit­to per­de­re un’oc­ca­sio­ne co­me quel­la. A que­sto pun­to in Ste­fa­no era­no sor­ti due op­po­sti sen­ti­men­ti: da un la­to si sen­ti­va sol­le­va­to e au­to­riz­za­to a par­ti­re dall’in­si­sten­za pa­ter­na, dall’al­tro gli sem­bra­va di es­se­re spin­to ad an­dar via dal de­si­de­rio del pa­dre di ri­ma­ne­re da so­lo, con l’uni­ca com­pa­gnia del­la so­rel­la.

    Al­la fi­ne co­mun­que ave­va pre­so una de­ci­sio­ne e ave­va la­scia­to la ca­sa e Bo­lo­gna, la sua cit­tà che ave­va ama­to mol­tis­si­mo du­ran­te tut­ta la sua vi­ta stu­den­te­sca ma che sta­va co­min­cian­do a star­gli un po’ stret­ta, per an­da­re a vi­ve­re que­st’av­ven­tu­ra ame­ri­ca­na. L’ini­zio non era sta­to co­sì sem­pli­ce co­me si era fi­gu­ra­to nell’eu­fo­ria del­la par­ten­za: il ta­glio del co­sid­det­to cor­do­ne om­be­li­ca­le con la fa­mi­glia (per quan­to con­te­sta­ta), con la sua cit­tà e con gli ami­ci, con tut­to quel­lo che era sta­to fi­no ad al­lo­ra il suo mon­do, non era sta­to in­do­lo­re e la mat­ti­na si sve­glia­va co­me se aves­se una spi­na nel cuo­re. Sen­ti­va no­stal­gia di tut­to: del caf­fè, del pa­ne fre­sco, del­le pas­seg­gia­te sot­to il Pa­va­glio­ne nel­le se­re di pri­ma­ve­ra quan­do il cie­lo è di un az­zur­ro in­ten­so e Bo­lo­gna sem­pre più ros­sa sot­to il so­le che muo­re, sen­ti­va per­si­no no­stal­gia del pa­dre e pa­ra­dos­sal­men­te an­che del­la so­rel­la, sen­ti­men­to che non avreb­be mai sup­po­sto di po­ter pro­va­re. In mez­zo a tut­to que­sto pe­rò, o for­se pro­prio a cau­sa di tut­to que­sto, ri­ma­ne­va na­sco­sto in un an­go­li­no del suo cer­vel­lo un va­go ri­sen­ti­men­to nei con­fron­ti del pa­dre, co­me se in fon­do fos­se sta­to lui con la sua in­si­sten­za ed il suo com­por­ta­men­to la cau­sa del suo pre­sen­te ma­les­se­re.

    Poi, a po­co a po­co, i ri­cor­di, gli odo­ri e per­si­no i sa­po­ri che l’ave­va­no se­gui­to nel suo viag­gio e in cer­to qual mo­do per­se­gui­ta­to nei pri­mi tem­pi del­la sua nuo­va vi­ta, si era­no fat­ti sem­pre più fie­vo­li e al­la fi­ne era­no sta­ti qua­si ri­mos­si in una stan­zet­ta del­la sua men­te do­ve lui ave­va or­mai per­so l’abi­tu­di­ne di en­tra­re. Or­mai sta­va be­ne co­sì, con i suoi nuo­vi col­le­ghi, i suoi nuo­vi ami­ci, le nuo­ve abi­tu­di­ni che co­min­cia­va­no ad ap­par­te­ner­gli sem­pre di più e con la pro­spet­ti­va di la­vo­ra­re in un cen­tro di ec­cel­len­za do­ta­to di mez­zi che in Ita­lia non avreb­be mai po­tu­to so­gna­re. Cer­to, quan­do pen­sa­va a quan­ti suoi col­le­ghi c’era­no, nel­la sua vec­chia uni­ver­si­tà, do­ta­ti di in­tel­li­gen­za e di ini­zia­ti­va, che riu­sci­va­no a por­ta­re avan­ti la ri­cer­ca con le po­che ri­sor­se che ave­va­no e ad ave­re ogni tan­to del­le in­tui­zio­ni a dir po­co sor­pren­den­ti, era pre­so da un sen­ti­men­to di im­po­ten­za e per­si­no di rab­bia per l’in­giu­sti­zia da cui sem­bra­va go­ver­na­to il mon­do. Per que­sto e per qual­che va­go ru­mo­re che gli giun­ge­va dal­la stan­zet­ta del­le ri­mo­zio­ni i cui mu­ri for­se era­no piut­to­sto sot­ti­li, si era te­nu­to in con­tat­to co­stan­te con il suo vec­chio am­bien­te uni­ver­si­ta­rio che, a di­spet­to del­le in­vi­die e del­le ge­lo­sie co­mu­ni a tut­ti gli am­bien­ti di la­vo­ro, era in­ve­ce mol­to fie­ro di lui.

    Ave­va co­min­cia­to pre­sto a fa­re del­le ami­ci­zie fra i ri­cer­ca­to­ri del Cam­pus, an­che fra quel­li di al­tre fa­col­tà: ce n’era­no di tut­ti i pae­si del mon­do e que­sto ren­de­va gli ap­proc­ci mol­to più in­te­res­san­ti. All’ini­zio era sta­ta la cu­rio­si­tà a spin­ger­lo a co­no­sce­re gen­te tan­to di­ver­sa, poi ave­va co­min­cia­to ad es­se­re più se­let­ti­vo e a pun­ta­re più sull’af­fi­ni­tà che sul­la di­ver­si­tà. Si era crea­to una cer­chia di ami­ci con cui si tro­va­va a suo agio, ep­pu­re sen­ti­va oscu­ra­men­te che c’era qual­co­sa che man­ca­va in que­sta com­pa­gnia, qual­co­sa che gli man­ca­va; si era

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