Storie di donne del terzo millennio I e II parte
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Anteprima del libro
Storie di donne del terzo millennio I e II parte - Angelica Spano Manca
PRIMA PARTE
Un disperato bisogno d’Amore
Tom lavorava alla Fao, a volte lo accompagnavo all’ingresso, ma in realtà non ho mai saputo cosa facesse. Mi era stato molto utile quando feci il colloquio alla Somalita Banana Exportation. Mi diede alcune dritte su come comportarmi con i dipendenti della società dei somali: essere rispettosa, dare sempre del Lei, non fare troppe domande, non promettere troppa disponibilità, garantire le proprie competenze ed assicurare spirito di corpo...
Capii subito che non era un lavoro per me.
Tom veniva dalla Costa d’Avorio ed aveva un bellissimo fisico, una statua d’ebano. Praticava molti sport, arti marziali, il Judo e il Karate e correva tutti i giorni sulla pista ciclabile sulla riva del fiume.
Al collo portava una catenina d’oro con una capannina e per prenderlo in giro gli chiesi se quella era la sua casa, ma lui facendo finta di non capire mi rispose semplicemente: No la mia casa è più grande
.
Aveva uno spiccato senso dell‘humor e mi faceva fare tante risate. Non riuscii mai a capire se il suo spirito fosse un retaggio francese o una dote innata, ma avevo notato questa dote in altri amici del Ghana allegri e molto arguti la cui cultura però era sta contaminata da quella anglosassone.
Era facile paragonare Tom, un ragazzo laureato in Economia, ad Accra, e vissuto a Roma con altri ragazzi della sua età, lui era già uomo di mondo, aveva un savoir faire ineccepibile e ti faceva stare bene.
Quando i colleghi del Corso di Diritto internazionale della Sioi ci invitarono a cena all’Ambasciata Egiziana, fummo molto felici. La prima preoccupazione fu Chi avremmo incontrato, persone che ci avrebbero aiutato ad inserirci nel mondo del lavoro, nel ciclo della vanità o nei percorsi validi per nostra vita futura?
Pensammo agli abiti, alle acconciature, dovevamo essere perfette...
I nostri colleghi erano egiziani e del Sudan, non sapevamo se fossero studiosi, non avevano mai libri con sé, ma borse 24ore con dispense e cataloghi.
Un giorno Ahmed mi fece sfogliare un catalogo di armi: c’era di tutto, dal kalashnikov al carro armato, ma pensai che scherzasse, allora gli chiesi che uso ne facesse e mi rispose che gli serviva per arrotondare le sue magre entrate.
In effetti non si sapeva di cosa vivessero questi studenti egiziani, anche loro con una laurea in tasca, presa con sacrificio tra Il Cairo e Roma, erano in attesa di collocazione. Non avevano come noi un assegno da casa, tutti i mesi.
Arrivò il giorno della cena all’Ambasciata, si trattava di una inaugurazione, ci mandarono un invito.
Gli ultimi preparativi furono decisivi. Avevamo più di 20 anni, ma per noi era il ballo delle debuttanti.
Scollature vertiginose e scialli eleganti, tacchi a spillo, ci vestimmo come per andare al Jackie ‘O, ma con un occhio di riguardo per il mondo arabo, niente di provocante doveva apparire...
Prendemmo un taxi e arrivate all’Ambasciata ci venne un dubbio atroce, forse non potevamo entrare da sole, donne senza accompagnatore. Potevamo destare critiche inopportune e non volevamo passare come femmine emancipate. Chiedemmo al taxista di aspettare, per aspettare Ahmed e gli altri ed entrare entrare in gruppo misto.
Dopo circa dieci minuti Ahmed arrivò, aprì la portiera del taxi e ci fece scendere ... Eleganti e baldanzose ventenni.
La prima sala era gremita di persone elegantissime, gli uomini erano tutti arabi o quasi, forse Egiziani del Nord, perché di pelle chiara, anche loro eleganti e raffinati. Ci presentarono l’Ambasciatore...
Il buffet era ricchissimo e bellissimo, coloratissimo, dai primi piatti di riso in 100 presentazioni differenti, alle carni, al pesce, alle ostriche e aragoste alle mille varietà di dolci, ma tutto, tutto, dagli antipasti al dolce sapeva di aglio!
Quella sensazione e quel gusto mi perseguitò per anni, tanto che non riuscii più a mangiare una pasta all’aglio e olio nei dieci anni successivi…
Le persone che conoscemmo si informavano sulla nostra situazione offrendosi di aiutarci.
Al Party non c’erano ragazzi interessanti, ma solo uomini d’affari e politici, donne intraprendenti e critici d’arte e pensammo che per noi poteva essere un’occasione eccezionale di opportunità di lavoro.
Io fui la più fortunata perché riuscii ad ottenere un posto di baby sitter presso una famiglia ibrida, lui Egiziano e lei Inglese, con due bambini, lui Ingegnere, lei insegnante, una unione improbabile.
Ma il motivo per cui accettai l’offerta fu perché mi offrivano in cambio della collaborazione come Baby sitter, l’uso di un appartamento nel Palazzo Doria Pamphili in Piazza del Collegio Romano, dietro Piazza Venezia, nel cuore del mondo.
La S.i.o.i., la Società di diritto Internazionale dove studiavo Organizzazione Internazionale, era a 100 metri dall’appartamento e potevo andarci a piedi in cinque minuti, sempre che i datori di lavoro non mi svegliassero alle quattro di mattina per chiedermi di tenere i bambini o che qualche amico mi svegliasse nel cuore della notte, per consegnarmi le panelle da Palermo o le sfogliatelle da Napoli e poi non riuscissi più a dormire.
Il piccolo appartamento era diventato un porto di mare.
Le mie colleghe abitavano sempre nella casa di via Po, dove nel bagno era stato girato un film di Dario Argento, con inevitabile cruento omicidio e quando andavo a trovarle, per paura non chiudevo mai la porta della toilette.
Così la distanza produsse i suoi effetti e a poco a poco ci perdemmo di vista.
Non vedevo più’ neanche Tom, da quando durante una telefonata a mia madre, mi chiese di parlare con la nonna dei suoi bambini e mia madre sentendo la parola nonna
ebbe un sussulto e non volle più credere che Tom era solo un amico.
Il lavoro come baby sitter mi lasciava poco tempo libero, ma i bambini si affezionarono a me e cominciarono a chiamarmi Mom, innervosendo la loro vera madre.
In effetti con me stavano molto bene, lasciavo fare a loro ciò che volevano, come trascinare l’albero di Natale che avevano decorato a scuola, sull’autobus di linea, per portarlo a casa, o rovesciare una libreria alta tre metri, piena di libri. I bambini andavano alla Scuola Americana, che seguiva un metodo molto permissivo ed erano pieni di energia e di entusiasmo e molte volte il bellissimo padrone di casa egiziano doveva svegliarmi affettuosamente, trovandomi distrutta e addormentata sul divano di casa loro, mentre i bimbi, senza custode, distruggevano la casa.
Quindi cominciai a cercare un altro lavoro sfogliando le rubriche di Repubblica e del Corriere e trovai subito un part time presso la Tipografia Italo- Libica, e dopo il colloquio iniziai a lavorare.
La tipografia stampava libri importanti, edizioni di pregio ed io correggevo le bozze. Diciamo che per una aspirante giornalista è quello che si chiama gavetta
.
I libici erano gentili con me e tenevano le distanze, non mi mancarono mai di rispetto anche se ero l’unica italiana dipendente della società.
Stampavano anche la Marcia verde che era il giornale di Gheddafi per i Libici in Italia, ma io non ci facevo caso perché non vedevo l’ora di andare via dalla tipografia per raggiungere la Scuola di Musica del Maestro Enrico Pierannunzi, dove studiavano i miei amici.
Trovavo strano che se venivano delegazioni Italiane a vedere le preziose stampe di Franco Maria Ricci, le copie della Marcia verde venivano nascoste, e quando venivano le delegazioni libiche venivano messe in evidenza sui banconi solo le copie dei giornali libici.
In effetti il proprietario era all’improvviso sparito ed avevamo saputo dalla stampa italiana che molti libici in Italia avevano subito aggressioni, ma non potevo preoccuparmi di tutto, i mass media spesso non erano attendibili.
Avevo già capito che i giornalisti non scrivono per i loro lettori, ma per i loro committenti.
Del resto erano gli anni di piombo, c’era molta tensione nella vita quotidiana e l’atmosfera non era delle migliori. La sera ci ritiravamo presto e non frequentavamo i rioni dove non c’era controllo da parte delle forze dell’ordine.
Avevo iniziato il mio nuovo lavoro da due settimane quando due ex colleghe mi chiesero di accompagnarle a Napoli, dove avrebbero dato l’esame per entrare in Avvocatura e così, usufruendo delle ferie pasquali le seguii.
A Napoli speravo di incontrare anche i miei amici della Scuola di Musica, ma il tempo era poco.
Il gruppo di amiche si unì presto ad un gruppo locale di aspiranti avvocati, nel quale c’era anche Stefan, un giovane attore che faceva spesso la comparsa in film famosi e avrebbe recitato come Cristo nella Processione di Amalfi. Conosceva molti attori e cantanti e ci scortò in giro per Napoli. Fu così che mi ritrovai mani nelle mani di Roberto Murolo, che mi cantava Tiene a mente sta paloma
. Non era il mio cantante preferito, non era il mio genere, ma comunque era un grande interprete anche se in quel periodo non godeva di grande fama ed aveva subito un processo. Erano gli anni della giustizia orba e della poca certezza del diritto, anni insicuri.
Tornando a Roma in treno pensai che i miei genitori mi avevano dato le radici e le ali, ma io usando le ali, senza fermarmi mai, non volevo riconoscere dove fossero le mie radici e la mia unica certezza era che per Vincent avrei fatto qualsiasi cosa, perché solo con lui mi sentivo me stessa, e mi sentivo forte come un leone…
Pensai anche che stavo perdendo tempo alla Tipografia e a Roma e che quella non era la mia strada … e che non avrei fatto nessuna carriera.
Pensai che la cosa migliore fosse raggiungere Vincent ... ovunque fosse.
La mattina entrando nella tipografia sentii uno strano silenzio e non vidi i miei colleghi, tolsi la giacca, poggiai la borsa e andai alla mia postazione di correttore di bozze. Ad un tratto sentii :
Fermi tutti, Polizia, mani in alto uscite allo scoperto
I miei colleghi comparvero da dietro i banconi con le mani alzate. Fermi tutti
ripeté ancora un Poliziotto lasciate tutto sui tavoli e seguiteci alla Centrale
.
Pensai che fosse una retata, proprio come arrestano i delinquenti delle cosche mafiose, i trafficanti di droga e di armi. Ed io?
Una decina di poliziotti armati ci vennero vicino e ci invitarono a uscire verso il cortile interno, dove era parcheggiato il cellulare della polizia.
Il Poliziotto che aveva parlato mi chiese Sei italiana?
. Si
risposi tremando, Seguimi
disse indicando la portiera posteriore della volante. Salii senza una parola, qualsiasi cosa dicessi poteva essere usata contro di me.
Mi portarono in Questura attraversando la bellissima Roma a sirene spiegate, Piazza del Popolo, l’Altare della patria, Piazza Venezia e infine Via Nazionale, guardai i monumenti con nostalgia,