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La Donna con gli Occhi Bianchi
La Donna con gli Occhi Bianchi
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E-book386 pagine5 ore

La Donna con gli Occhi Bianchi

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Info su questo ebook

“Troppo scettica per scoprire il mondo attraverso gli occhi degli altri. Troppo schizzinosa per toccarlo con mano”. 

Luna è una ragazza diciassettenne che all’età di tre anni ha perso la vista. Ironica fino al cinismo, ha un rapporto positivo con la madre e uno conflittuale con la sorella maggiore. La sua migliore amica è Bianca, il suo cane guida. Un giorno, dopo l’ennesimo litigio con la sorella, esce di casa ancora in pigiama ma, a causa delle molestie di una baby gang, è costretta a cambiare il suo percorso abituale, ritrovandosi per strade mai percorse prima. Inizia così un viaggio fisico ma anche mentale dal quale affiorano continui flashback dal passato.
Con abile maestria e sensibilità, Gianluca Danieli riesce a descriverci un mondo di angosce, paure, impulsi e speranze, raccontandocelo “dal punto di vista” della diversità.

Gianluca Danieli, nato a Trento nel 1995, si è laureato a Londra in Film & TV con specialistica in Scrittura Multimediale.
Ha lavorato sia dietro che davanti la telecamera, sul palcoscenico, scrivendo e recitando, sperimentando ogni genere che poteva fin dall’età di 11 anni. Dalla tragedia shakespeariana alla commedia musicale.
Membro del Gruppo Asperger Veneto. Dal 2021 fa parte della compagnia teatrale San Martino di Fornace. È autore del Blog CineGiangi.com, dove recensisce film e serie tv.
In tutte le cose che crea, anche le più drammatiche, gli piace sempre inserire un pizzico di umorismo.
Quando non scrive e non recita, legge tre libri in contemporanea.
La Donna con gli Occhi Bianchi è il suo primo romanzo (e non sarà l’ultimo).
 
LinguaItaliano
Data di uscita31 lug 2022
ISBN9788830667853
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    Anteprima del libro

    La Donna con gli Occhi Bianchi - Gianluca Danieli

    LQ.jpg

    Gianluca Danieli

    La Donna con gli Occhi Bianchi

    Una storia di suoni,

    o meglio, di silenzi

    © 2022 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-5947-6

    I edizione giugno 2022

    Finito di stampare nel mese di giugno 2022

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    La Donna con gli Occhi Bianchi

    Una storia di suoni, o meglio, di silenzi

    all’inizio

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    a Stephanie

    dal 2015 al 2019,

    il mio unico barlume di luce

    in un tempo di oscurità.

    Prologo

    Se cercate una storia di belle immagini, non ve la posso raccontare. Se è un racconto ricco di colori che volete, non ve lo posso offrire. Quella fra queste pagine è una storia di suoni, o meglio, di silenzi. Silenzi che, seppur solitamente così rari e preziosi, finiscono per diventare troppi. Ma proprio troppi. E questo viene da una (la sottoscritta) che normalmente diviene irascibile al minimo rumore.

    Il mio nome è Luna Assante. Sto finendo il quarto anno di liceo. Sono una non vedente.

    Immaginatevi, se potete, una bambina di otto anni che va dalla madre e le dice di non riuscire a vedere più niente. La mamma, in preda al panico, la porta al pronto soccorso. Un dottore le punta con insistenza una luce negli occhi per mezz’ora, con stanchezza, trascinando ogni suo movimento. La bambina si ritira infastidita da quell’omaccione puzzolente che cerca di tenerle le palpebre aperte. La madre se ne sta in un angolino, in preda all’ansia. Poi, nonostante tutte le preoccupazioni di lei, delibera che gli occhi della bambina funzionano perfettamente.

    «Ma allora perché dice di non vedere niente?»

    «Non so, signora, perché dica così. Ma le ripeto, i suoi occhi sono a posto...»

    «Dice, quindi... che potrebbe essere tutto nella sua testa?»

    «Può essere».

    Ora, immaginate la stessa bambina, poche settimane dopo, che si orienta per casa propria strisciando la mano sui muri, grattando il pavimento con un bastone, e risistemandosi ripetutamente degli occhiali da sole troppo stretti.

    Quella bambina...

    Non sono io.

    Quel dottore, per quanto pressapochista, aveva ragione.

    Non sono nata già senza vista, ma non sono neppure arrivata alla veneranda età di otto anni prima di perderla. Quella falsa-cieca, che aveva appena fatto venire un colpo a sua madre, era mia sorella, più grande di me di quattro anni. Mentre lei faceva tutte quelle scene, io ero occupata a sondare con la mano il comodino, la scrivania, sotto il letto, poi tutto il pavimento della camera alla ricerca dei miei occhiali che, come avrei scoperto a breve, mi erano stati rubati, assieme al mio bastone. Di nuovo.

    «Laura?» chiedevo «Hai preso tu i miei occhiali?»

    «...No»

    «Sicura?»

    «Ti dico che non li ho».

    Li aveva lei.

    Si capiva da come li faceva discretamente cigolare sul suo naso. Non erano della sua taglia.

    Non che quegli occhiali mi servissero, sia chiaro. Cosa poteva fregarmene? Per motivi che al tempo mi sfuggivano, erano più che altro gli altri a insistere che li indossassi. Per me, mia sorella poteva anche tenerli. Quella di dire a mamma di non vederci più era solo l’inevitabile stadio successivo di appropriarsi delle mie cose.

    Che c’è, poi, da esser invidiosi di una non vedente? Le attenzioni?

    Mia madre faceva del suo meglio. Ma in tutte le sue frenetiche ossessioni iperprotettive, di tenermi stretta a braccetto per strada e chinarsi a indicarmi ogni singolo mini ostacolo sulla via, si dimenticava di dare la manina anche all’altra figlia, subito dietro di noi. Tagliandomi il cibo nel piatto in piccoli pezzettini, non si accorgeva dell’altra bambina, sul lato opposto, che non arrivava alla brocca.

    Cristo, mamma! Capisco tutto. Ma sono cieca, mica scema, volevo dirle.

    Crescendo, nei primi anni, c’era una sorta di competizione su chi fosse la cieca migliore tra me e mia sorella. Una competizione abbastanza persa in partenza (per lei) e alquanto ridicola per chiunque altro.

    In ogni caso...

    Questa faccenda con mia sorella è solo una piccola nota a parte nel grande schema delle cose. Una volta passata l’invidia del mio ricercatissimo handicap, imparò a fregarsene di me. Allo stesso modo, imparai a fregarmene di lei. Una situazione perfetta... Finché c’era mamma.

    La storia qui presentata non è incentrata su mia sorella (chi se ne frega di lei). È solo per delineare un po’ di contesto, così da capire l’introduzione che seguirà a breve.

    Questa sarà pur una storia di silenzi, ma... Di tutti i modi in cui sarebbe potuta iniziare... Iniziò con un rumore. Un rumore che risulterebbe estremamente fastidioso anche per chi non si è dovuto affinare l’udito...

    1

    «Ma porca Eva! Di nuovo, cazzo! Di nuovo! Non ci credo! Cosa tengo pulita la casa a fare, cazzo!»

    Riscossa da quella che avrebbe potuto essere una lunga, piacevole dormita, mi alzai lentamente dal letto. Dai bruschi tintinnii di stoviglie mescolati alle bestemmie, dedussi che mia sorella era in cucina. Ben tre porte chiuse la separavano dalla mia camera da letto, eppure... Si sentiva tutto. Inutile chiudere le porte in una casa con un’acustica così buona.

    Sospirando per l’ennesima domenica mattina rovinata, strofinai le punte infreddolite dei piedi sul pavimento fino a ritrovare le pantofole, per poi trascinarmi meccanicamente verso la fonte di quei rumori molesti. Con rumori molesti non mi riferisco alle stoviglie che sbattevano, ma agli urli. Ciò che quella donna emetteva non potevano definirsi discorsi, strilli o parole. Soltanto rumori molesti, se proprio. Non meriterebbero neppure di essere trascritte qui in forma di parole... Ma se mi soffermassi a scrivere solo quel che ritengo degno di essere ascoltato, mi rimarrebbe ben poco da riportare. Comunque... Sia sufficiente la prima frase appena scritta per dare un’idea generale di tutti i rumori che accompagnarono il mio lento cammino dal letto alla cucina.

    «Ben svegliata, Laura».

    «Ma beeeene!» fece lei, senza mai smettere di urlare «Ben svegliata! Dormito bene? Fatto bei sogni?»

    Fatto bei sogni? Che cazzo di domanda è?

    «Dormivo benissimo, finché non c’eri tu».

    «Guarda che ha fatto il tuo cane!»

    Guarda, dice sempre.

    «...Che ha fatto?» chiesi, senza vero interesse.

    Spazientita, mi tirò la mano verso il pavimento, facendomi perdere l’equilibrio.

    Ti basterebbe dire: Tocca il pavimento, per favore. O meglio ancora: dimmelo e basta. Non serve tirarmi. Già devo starti a sentire, ora vuoi pure toccarmi?

    «Cos’è?»

    «Indovina!»

    «Che ne so... Ha vomitato?»

    «Direi di sì».

    «E dovevi farmici mettere la mano?» dissi alzandomi, tenendo la mano a debita distanza da me.

    «Così magari impari meglio».

    «Imparo meglio cosa? Cosa ho, IO, da imparare? Il cane ha vomitato. Sta male. Dovrò portarlo dal veterinario».

    «E di questi che dici?» disse poi, sbattendo dei bicchieri presi dal lavandino l’uno contro l’altro, quasi spaccandoli.

    «Hai detto di lavare le cose ogni volta, dopo averle usate» esclamai, sull’orlo dell’esasperazione «E l’ho fatto. Quelli non li ho usati io».

    «Nooo. Vedi che non ascolti. Non ho detto: ‘Le cose che usi’. Ho detto: ‘La sera... Le cose che usi e - già che ci sei - anche il resto, se sono poche’. Se sai pulirti da sola il tuo bicchiere, saprai anche pulire gli altri due nel lavandino. Non sei scema. O devo fare tutto io? Vedi che non ascolti?!»

    Dagli spostamenti d’aria che d’un tratto invadevano la stanza, supponevo che avesse iniziato la solita routine di gesticolare, ripetendo la stessa frase più volte. Se DAVVERO voleva che la ascoltassi, perché si impegnava tanto a rendersi così poco piacevole da ascoltare?

    La gente, inclusa e soprattutto mia sorella, ha spesso l’erronea percezione che strillare, dimenarsi fisicamente e ripetere la stessa frase più volte aumenti le probabilità che la loro argomentazione rimanga impressa nei loro interlocutori... Non è così. Ci si scorda troppo spesso dell’importanza delle pause di un discorso. Personalmente, adoro i discorsi pieni di pause e silenzi. Di fatto adoro più le pause che le parti parlate... Anzi, meglio se il silenzio dura tutto il discorso.

    «Va bene, chiaro. Ci siamo capite male» la interruppi «Non serve urlare. Mi indichi il problema. Mi indichi la soluzione. E entrambe cerchiamo di migliorare, per il futuro. Hai finito, ora?»

    «Che ‘finito’ e ‘finito’? Ora raccogli e pulisci il vomito di quella cagna inutile, poi sistemi i bicchieri, e POI vediamo se abbiamo finito».

    "Cagna inutile" l’aveva chiamata...

    ...di nuovo...

    ...le avevo più volte chiesto, civilmente, di non farlo. Poi dice che io non ascolto mai in casa. Per essere una che esige così tanto di essere ascoltata, poteva incarnare un miglior modello d’esempio.

    Può darsi che Laura abbia emesso tanti, tanti altri ‘rumori’ nei cinque minuti che mi ci vollero per disinfettarmi la mano, ritrovare gli occhiali, bastone, scarpe, mettere la pettorina a Bianca - la mia "inutile cagna" guida - buttarmi una giacca pesante sopra il pigiama e uscire di casa... Ma non li sentii. Quel poco di recettività che, non ancora ripresami dalla sveglia prematura, concedevo a quella donna in nome del sangue che ci univa... Era andato.

    Avevo bisogno di uscire un po’. Di allontanarmi. Fare due passi. Cercare un po’ di quiete.

    Il mio cervello smise di registrare il fracasso di mia sorella. Stava ancora gridando, però. Ne ero certa. Lo si percepiva dalle vibrazioni che scuotevano l’intero giro scale del condominio. Passai vicino ad una porta che cigolava avanti e indietro, con incertezza. Qualcuno doveva averla aperta per uscire, ma si stava chiedendo se fosse il momento buono per farlo. Il giro d’aria dall’interno di quell’appartamento riempiva le scale di odore di naftalina e lacca di capelli per vecchi. La povera signora del piano di sotto stava probabilmente aspettando che uscissi. Forse mi considerava tanto responsabile di quel ‘litigio’ quanto mia sorella, e altrettanto isterica. Quindi era meglio evitarmi. Se davvero pensava quello, poteva andarsene a quel paese.

    Messo piede in strada, seppur improvvisamente avvolta dal freddo invernale, cominciai a calmarmi. I rimbombi ormai senza voce di Laura si sentivano ancora dall’altro lato della porta serrata.

    Oh, beh, adesso è un problema degli altri condòmini, pensai.

    Col bastone fra il braccio e il torace, e il polso infilato nel guinzaglio, mi allacciai la cerniera della giacca. Dovevo allontanarmi ancora.

    Lasciai il guinzaglio sciolto di Bianca e afferrai invece la maniglia fissa della pettorina. Bianca capì che era ora di mettersi al lavoro e mi lasciai guidare da lei il più lontano possibile. Ma dovevo calmarmi... La presa sulla maniglia, se troppo stretta, o con movimenti troppo bruschi, poteva far recepire a Bianca comandi erronei.

    Sto andando via. Sto camminando. Mi sto allontanando dal ‘rumore’.

    Sì. Più facile a pensare che a farsi.

    Mi sarò anche allontanata da Laura, ma la quiete era tutt’altro che raggiunta. Anche di domenica mattina, d’inverno, si sentivano continui lontani clacson di macchine che strombazzavano.

    Se davvero lavori pure di domenica e, nonostante l’assenza di traffico in una piccola città, sei comunque in ritardo, allora sei TU mio caro ad avere un problema di organizzazione, NON chiunque a cui tu stia facendo saltare i timpani.

    Con determinazione, tirai la cerniera della giacca su fino al collo. Quel soprabito mi arrivava solo a metà delle cosce. L’unica cosa che separava il resto delle mie gambe dalla secca brezza d’inverno erano i pantaloni del pigiama. Scossi ripetutamente le ginocchia, per scaldarmele, e continuai a camminare.

    Quale pigiama mi ero messa, ieri notte?

    Quale decorazione poteva essere notata sulle mie gambe da eventuali passanti?

    Poco importa. Potrei anche aver messo quella con i cuoricini, che mi frega.

    Mamma aveva insistito nel voler comprare almeno tre pigiami dello stesso identico tessuto e forma, ma con disegni diversi, impercepibili al tatto. Contenta lei, pensavo. Tanto ci dormo solo, mica ci devo andare in giro, pensai al tempo. Scema me. Ben mi sta per non aver messo in conto la possibilità che, un giorno, avrei potuto ritrovarmi a vagare per le strade, nel mio pigiama, d’inverno.

    Feci una leggera pressione in avanti, segnalando a Bianca di accelerare. Dovevamo andare via e lontane dal chiasso e, soprattutto, da chiunque si permettesse di chiamare la mia Bianca "inutile cagna".

    Sentendo il debole sole d’inverno sulla parte destra del volto, procedetti dritta, a nord della città, verso il fiume, dove di solito era tutto più calmo. Se non avessi trovato quiete neanche lì, avrei continuato a camminare. E se neppure allora avessi trovato silenzio, sarei andata avanti ancora. E ancora. Fino a trovarlo. Mi ci fosse voluto tutto il giorno.

    2

    Bianca proseguiva al mio fianco con passo sicuro. La mano aggrappata a lei mi si intorpidiva dal freddo. Il vento d’inverno è molto più freddo e pungente quando non c’è la neve. Stavo già perdendo il conto di quanti inverni fossero passati senza che nevicasse. Da rara eccezione che era, l’inverno senza neve diveniva sempre più la norma. Non solo qui al nord d’Italia dove vivevo, ma sempre più nel mondo, nelle diverse città; eccetto che per alcune, poche aree selezionate, secondo quanto mi dicevano.

    La neve? Una cosa del passato o di cui si parla solo nei film. Se in un film si parla di neve, allora è praticamente un film d’epoca, ormai.

    Mi manca la neve?

    Non saprei. Forse un po’, in quanto parte della mia infanzia, ma neanche tanto, alla fine. Come molte altre cose ormai, che ci fosse o non ci fosse, non mi faceva né caldo né freddo (in senso metaforico, s’intende).

    Feci fermare Bianca un attimo per stringermi ancora di più nel giaccone. Il vento portava un po’ del suo caldo respiro affannoso fino alle mie gambe. Cambiai posizione così da mettere la mano infreddolita in tasca e tenere la maniglia con l’altra. Se Bianca faceva bene il suo lavoro, il bastone non sarebbe servito e potevo tenere almeno una mano alla volta al riparo. Scema me per non aver preso i guanti, nella fretta.

    Camminando nell’arco di mezz’ora (e già mettevo in conto una camminata molto più lunga di così) avrei cambiato mano e posizione almeno sei volte, una ogni cinque minuti, senza affidarmi al bastone. Rischiavo di confonderla, facendo così? Di inciampare? Poco importava. Tornare a casa a riprendermi i guanti era fuori discussione. Non restava che affidarsi alle esperienze cui io e Bianca eravamo sopravvissute assieme.

    Bianca... Bianca... Bianca...

    Nome un tantino ironico per un cane guida.

    Non glielo avevo scelto io.

    ‘Bianco’: Per definizione, il colore dato dalla sintesi additiva di tutti i colori dello spettro visibile... Qualsiasi cosa voglia dire.

    Non potei fare a meno di pensare che, tra i litigi e la fretta di uscire, non le avevo ancora dato una carezza. Lei ora era in modalità lavoro, e quando era in quello stato, non andava distratta con coccole.

    Te le faccio non appena ci fermiamo in un posto tranquillo.

    Affidandomi completamente a lei, nell’illusione di non dovermi concentrare o stare allerta, come spesso capitava, mi ritrovai a vagare altrove con la mente.

    Ripensai a quando e come incontrai quel cane per la prima volta.

    In un giorno qualunque a metà del primo anno delle superiori, quando mamma non c’era più da almeno nove mesi... Ricevetti una chiamata inaspettata.

    «Il suo cane è pronto».

    Mi sa che ‘sto tizio ha sbagliato numero.

    «Pronto? È ancora lì?» un attimo di esitazione, seguito da un fruscìo di fogli «La signora... Pamela Assante?»

    «No» replicai con tono neutro «Sono sua figlia».

    Mi ci vollero ben trenta secondi prima di ricordare. Quindici mesi prima, mamma aveva richiesto per me un cane guida, tramite l’associazione dei ciechi e ipovedenti.

    «Potrebbe volerci anche un anno» le avevano detto, dopo aver compilato tutti i moduli.

    «Un anno?! Perché?!»

    «Eh... Così, signora... Sua figlia non è l’unica non vedente che c’è. Esiste una lista d’attesa. E poi, per addestrare un cane, ci vuole il tempo che ci vuole».

    «No, no chiaro, capisco... La ringrazio... Avessi saputo, mi sarei mossa prima».

    «Sì... Ecco» fece il tipo, restituendole distrattamente un pezzo di carta per poi rivolgere la sua attenzione ad altre cose.

    Dopo un anno e solo tre mesi di ritardo (notevole, data la leggendariamente lenta burocrazia italiana), il cane era pronto.

    Il bello: era pure gratis. Fornito gratuitamente dalla scuola di addestramento. Un’ultima premura postuma di mia madre; un regalo a consegna ritardata. O almeno, un regalo per me, e una malgradita scocciatura in più per Laura. Praticamente l’ennesima (postuma) manifestazione di riguardo a mio beneficio e a discapito della figlia maggiore. Così deve averla vissuta Laura.

    Quando mi presentai alla scuola per cani, accompagnata dalla mia cara amica Amina (mia sorella voleva saperne il meno possibile del cane), potei conoscere a fondo Bianca a suon di carezze.

    «Ha già due anni; praticamente un’adolescente» disse l’addestratore, mentre Bianca si lasciava studiare dalle mie mani.

    Non riuscivo a identificarne la razza: le orecchie flosce facevano pensare a una Labrador o una Golden, ma la peluria e la coda mi confondevano.

    «È un incrocio tra un Golden Retriever e un Pastore Tedesco» proseguì «A dir la verità, beh... La madre forse aveva anche un po’ di Doberman, di Rottweiler... E il padre magari anche un po’ di Alano o Alano Fulvo, credo... C’è un po’ di tutto...»

    «Un ‘cane fantasia’, insomma» dissi, un po’ distrattamente.

    «Precisamente».

    Pur avendo il cane fra le mani, ricordo che la mia mente era concentrata su un signore non molto distante da me, presumibilmente non vedente, con la voce resa rauca dal catarro, che continuava a starnutire.

    Spero per lui non sia allergia ai cani, pensai, altrimenti sì che avrà una vita difficile.

    La mia attenzione momentaneamente riposta su quel signore, che avrebbe potuto anche starnutire qualche metro più distante da me, fu scossa da quell’animaletto peloso che mi saltò addosso con insistenza. Distratta com’ero, con la guardia abbassata, era riuscita a rubarmi una leccatina sulla guancia.

    «Mamma mia, è un terremoto» dissi, quasi lasciandomi sfuggire un sorriso (insolito per me, specie in quel periodo) mentre Bianca continuava ad agitarsi, scodinzolare e leccarmi.

    «Già...» sospirò l’istruttore.

    Seguì un corso intensivo di due settimane. Trovai il modo di arrivare fin lì da sola. Non potevo realisticamente chiedere alla mia amica di accompagnarmi ogni volta. Io e Bianca dovevamo imparare a, testuali parole, "Diventare un unico essere".

    Scoprii che tenendola per il guinzaglio sciolto si comportava come un cane ‘normale’. Mentre impugnare la maniglia rigida della pettorina la metteva automaticamente in modalità ‘lavoro’. Imparai a ‘comunicare’ in silenzio con lei attraverso il modo in cui tenevo la maniglia. L’istruttore, un uomo molto in carne (lo capii stringendogli la mano), che oltre ad addestrare cani gestiva una scuola di danza, spiegava come la comunicazione tra la padrona e il cane fosse come in un ballo latino-americano:

    «Quando il ballerino prende la ballerina per mano, lui non la tira o la spinge mai. Quantomeno, non dovrebbe. Se lo fa, ballano da cani, senza offesa. Sarà che non ha avuto me come insegnante. Il ballerino non strattona così a forza... Ma ACCOMPAGNA. Mentre il partner si lascia accompagnare...»

    Pare però che mentre nel ballo sia solo uno dei due ad accompagnare (sempre il maschio, che noia...), col cane guida è una comunicazione a doppio senso. Bianca era addestrata ad ubbidire ai segnali ma, molto più importante, a disubbidire. Se le comunicavo di andare avanti, ma lei notava una macchina in arrivo, si fermava, indipendentemente da quanto le dicessi di darsi una mossa. Se l’accompagnavo in una direzione, ma lei invece mi accompagnava da un’altra, forse stava cercando di non farmi cadere in un tombino aperto. Se non mi ubbidiva, forse era per il mio bene. Dovevo imparare il giusto equilibrio fra affidarmi al suo giudizio ma, allo stesso tempo, capire che, per quanto invitante, non dovevo mai affidarmi "ciecamente" a lei (testuali parole dell’istruttore... ah, come se la rise alla sua stessa battuta). Passeggiando, nell’immediato futuro, c’erano volte in cui avrei semplicemente voluto lasciarmi guidare da lei dovunque volesse, senza pensare alla destinazione (come quest’ultima mattina d’inverno, per esempio). Ma era caldamente sconsigliato.

    Solitamente un cane guida si mette al lavoro dopo un anno di vita. Bianca ne aveva già due.

    Perché ci avete messo quindici mesi a darmela se era già pronta?

    Perché non lo era.

    Diversi potenziali padroni avevano provato per mesi a diventare un tutt’uno con lei, ma senza riuscirci. Pare fosse troppo giocherellona, poco disciplinata, poco affidabile, che la sua voglia di coccole influisse troppo sul lavoro. Capii allora quel sospiro dell’istruttore. Nessuno la voleva. La scuola stava cercando di liberarsene già da un anno. Da un lato, capivo il perché. In effetti, si distraeva facilmente. Girava la testa, si agitava, si voltava verso altri cani che abbaiavano. Così come Bianca cominciava a guardarsi intorno, distraendosi, la mano aggrappata alla sua imbracatura tremava con lei.

    Mamma non avrebbe approvato: affidarmi ad un cane inaffidabile, impossibile. Ma lei non era lì, quindi... Ormai mi ci ero affezionata e poi, sinceramente, non mi andava di aspettare un altro anno.

    «Mi raccomando, Bianca...» disse l’istruttore dopo le due settimane «...fa la brava, eh... prenditi cura di questa signorina, che se non lo fai... ti faccio nera...»

    Silenzio.

    Attesa.

    Poi se la rise per conto suo.

    Era come se avesse appositamente dato quel nome al cane per poi aspettare, due anni, per poter finalmente sfoggiare quella battuta di sua creazione. Altri nomi di cani da lui cresciuti includevano: Nerone, Bruno, Viola, Rosa, Celeste… Tutti nominati in modo tale da poterne ricavare colorite battute, un anno dopo.

    Dai, almeno ci prova.

    Come già accennato, Laura non fu contenta.

    «Hai preso il cibo per Bianca?» le chiesi un giorno, appena rientrata in casa.

    «No».

    Pausa.

    «Perché no?»

    «Te l’ho detto, fin dall’inizio. Cane tuo, problema tuo. Ci pensi tu».

    Il posto per comprare il mangime era letteralmente a due passi da dove lei aveva appena fatto la spesa. Ma vabbè, presi i soldi e andai a comprarlo. Unico problema: Laura letteralmente mi vietava di prendere più di una certa quantità di soldi dal suo portafoglio. Quindi non potevo prenderle il cibo adatto, quello apposito per cani guida, che costava un filino di più. Mi impedisce di prenderle il cibo giusto... E poi si incazza con me se le vomita in casa?! Certa gente andrebbe soppressa.

    «Ti servono più soldi? Usa i tuoi!»

    Solito discorso... Sì, sarò più che felice di usare i miei, non appena avrò l’età legale per lavorare.

    «Laura» le chiesi un’altra sera, con una bacinella vuota in mano «Non hai notato che Bianca è senza acqua?»

    «No».

    Dalla direzione della voce capii che non si era neppure girata.

    «Ti avevo chiesto di controllare, ogni tanto».

    «Mi hai forse sentito dire che lo avrei fatto? Ho forse detto: ‘Sì, va bene, Luna. Non preoccuparti. Ci penso io. Lo farò’?»

    «Quando te l’ho chiesto non hai detto di no».

    «Ma non ho neanche detto di ‘sì’».

    «Sono uscita per mezza giornata, maledizione. Ti avevo chiesto questa gentilezza. Vuoi dirmi che Bianca è rimasta per ore senz’acqua?!!»

    La sua unica risposta fu il silenzio.

    Esige tanto che stia ad ascoltarla, e poi...

    Da allora capii che, in casa, l’incolumità di Bianca dipendeva tanto da me, quanto io dipendevo da lei per le strade. Mi sentii quasi in colpa per aver portato un’altra innocente creatura nelle vicinanze di una come Laura. Ma potevo forse rimandare indietro il regalo postumo di mia madre, soprattutto dopo che Bianca era stata rifiutata per oltre un anno da ciechi meno

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