Il Santo
Di Rhoma G.
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Anteprima del libro
Il Santo - Rhoma G.
Self-Publishing
Presentazione
Kodiac è la mia città, nessuno osa respirare se non sono io a concederlo. Controllo tutto e tutti, pianifico nell’ombra ma agisco alla luce, così che tutti conoscano il mio potere. Questo è un luogo pericoloso, ma io lo sono di più.
Sono un Jensen.
Willow ha vissuto per otto anni protetta dalle suore del convento del Santa Misericordia, non immaginava come fosse il mondo al di fuori, l’ha scoperto quando suo padre l’ha offerta come pagamento per un debito di gioco, e il palco del Desnuda è diventato la sua casa, mentre io sono diventato il padrone della sua esistenza.
So che brividi le percorrono la schiena perché, questa sera, la mia presenza è stata tutt’altro che discreta. Si sta chiedendo dove sia nascosto, che intenzioni abbia, quanto sia pericoloso… ma non è me che deve temere.
Chiunque oserà toccarla morirà.
Lei è un giglio, ed io l’ho trascinato nel fango, per questo sarò maledetto e brucerò tra le fiamme dell’inferno.
Sasha ha il compito di riscuotere il debito, Willow di restare in vita per saldarlo. Vita e morte, sacralità e abominio, saranno al fianco dei protagonisti, intrecceranno le loro storie e daranno vita a una girandola di emozioni avvincenti e dai contorni sensuali. Una corsa all’ultimo respiro, sul filo del sacrificio.
All’ amore segreto,
perché sua è la colpa
di questa struggente
felicità.
Le gioie violente hanno violenta fine, e muoiono nel loro trionfo, come il fuoco e la polvere da sparo, che si distruggono al primo bacio. Il più squisito miele diviene stucchevole per la sua stessa dolcezza, e basta assaggiarlo per levarsene la voglia. Perciò ama moderatamente: l'amore che dura fa così.
Romeo e Giulietta
William Shakespeare"
0 Il Santo
Willow
Nove mesi prima dell’inizio
Le mie mani sono legate in alto sopra la testa, il fiato è stretto in gola.
Tremo.
Il petto si alza e si abbassa, mettendo in risalto ciò che sta per essere svelato. Il Tirapiedi si avvicina, afferra i lembi della camicia e li strattona in direzioni opposte fino a quando una pioggia di bottoni raggiunge il pavimento.
Sorride, ha denti gialli e piccoli che sbucano da gengive sanguigne, rabbrividisco quando stringe le dita a coppa sui miei seni. Voglio urlare, voglio piangere, voglio fuggire, ma non posso permettermi di proferire alcun suono o fare un passo. Trattengo le lacrime perché, a dispetto della camicetta bon ton e delle stupide calze a righe, non sono così ingenua.
«Jag vill se dem» nell’ombra qualcuno impartisce ordini al Tirapiedi, è sprofondato in una poltrona dalla seduta alta, la sagoma mostra spalle curve, mani sul pomello di un bastone troppo lungo per la sua statura. Il Tirapiedi non si fa ripetere l’ordine, afferra le coppe del mio bustino e le tira giù. I capezzoli svettano, color porpora e latte, incolpevolmente turgidi. Il Tirapiedi si lecca le labbra e a me viene da vomitare, penso il peggio, mi aspetto il peggio, specie quando una mano scivola fin sotto la gonna di tweed e afferra il bordo delle mutandine.
«Kan räcka» l’ordine è imperioso, seguito da uno schiocco di bastone sul pavimento.
La mano del Tirapiedi si ferma e si sposta verso l’interno delle cosce, che stringo con un gesto disperato. «Verrò a trovarti» dice in un inglese stentoreo, e con una cadenza straniera. Mi palpa il pube rudemente, volto il viso prima che la sua bocca puzzolente di alcol mi raggiunga. Emette una risata sguaiata, si allontana ed io inspiro ed espiro così a fondo e rapidamente che la vista si appanna, per qualche istante non vedo altro che buio trapunto da lampi di terrore.
Non sono sicura di essermela cavata.
La vista torna e adesso davanti a me c’è l’uomo col bastone. È di età avanzata, sembra più vecchio di papà che di anni ne ha cinquantacinque. È smilzo, di statura normale, indossa un pesante cappotto col collo di pelliccia, pantaloni eleganti, in testa porta un cappello con la tesa larga. L’antipatia è istantanea, il ribrezzo fulmineo. Alza il bastone e me lo ficca in mezzo alle cosce, lo usa per sollevare la gonna fino a mostrare le mutandine.
«Carnosa e soda» dice, nella parlata colgo la stessa cadenza del Tirapiedi.
Sembra tutto irreale, almeno fino a quando chiede, «Sei vergine?» sono talmente sorpresa dalla domanda che faccio fatica a mettere insieme le parole per dare vita a una risposta.
L’uomo si spazientisce e col bastone mi colpisce un ginocchio, stringo i denti, il dolore è forte, lancinante al punto che il pianto sale subito agli occhi. «Ti conviene rispondere, e con la verità» Oppure posso accertarmene
intende. Scuoto il capo per riprendere lucidità, costringo le lacrime a tornare indietro, il dolore a nascondersi dietro un velo di afflizione.
«Sì, sono vergine» la mia voce è ferma, benché il terrore faccia defluire il sangue dal viso e mi inumidisca le ascelle.
Davvero non capisco cosa possa implicare la faccenda.
Papà mi ha parlato di un night club, di balli su un palco in abiti succinti, di gente che si ubriaca dopo aver terminato il turno al porto, ma niente di tutto questo ha a che fare con me.
Sono ore che mi trovo legata a un pilone della rimessa Van Hoffen, con questi individui che tutto sembrano tranne persone raccomandabili.
L’uomo col bastone si lecca le labbra, muove il tubo di legno verso il pube, lo sfrega, sferra piccoli colpetti.
«Sono indeciso se scoparti o prendere una discreta somma da un altro. Le vergini sono preziose, da queste parti ci sono solo puttane» ghigna una risata paglierina, il Tirapiedi lo imita, esce la lingua e con la mano fa un gesto chiaro quanto osceno.
Sono fottuta, in un modo o nell’altro.
Il bastone sale fino ai fianchi, si spinge sui seni, raggiunge la bocca.
«Aprila» dice il vecchio, obbedisco mentre le lacrime tornano, copiose e ribelli, mi offuscano la vista.
Sto vivendo un incubo. L’uomo spinge il bastone in bocca, «Lo hai mai succhiato?» chiede e sembra rabbrividire dal piacere al pensiero. «No? Guarda che belle labbra» scuoto la testa mentre le lacrime bagnano il legno di quel bastone che, fino a poco fa, era a contatto col pavimento lurido. «Penso che ti scoperò io, dopo tutto. Il segreto sta nel non usurarti troppo» emette un gemito di piacere mentre continua a muovere il bastone nella mia bocca. Se lo ficca più giù, darò di stomaco.
«Far!» una voce profonda arriva dalla penombra e spezza i miei singhiozzi. «Det är affärer.» C’è qualcuno nell’anticamera, la sua sagoma si staglia oltre metà della parete. Faccio un respiro, poi un altro, poi un altro ancora, i polmoni bruciano per lo sforzo di non rigettare anche l’anima.
Il vecchio pare risentito da questa intrusione, ma smette. Estrae il bastone dalla mia bocca e lo picchia con forza sul pavimento. «Perfekt timing, son.»
La sagoma nella penombra fa un passo in avanti, ne serve qualche altro perché possa vederlo in faccia, sono così provata che mettere a fuoco è un’impresa.
«Ake» è il nome del Tirapiedi, e risuona in un silenzio sinistro. L’uomo alza le spalle, è rigido, assorbe il messaggio celato nel tono della voce del nuovo arrivato, poi si mette sugli attenti. «Coprila, dalle dell’acqua, quando hai finito…» anche il suo inglese ha un’inflessione strana. Ake si muove verso di me, lo vedo che trattiene il respiro, ciò che sta per sentire non gli piacerà. «Riporta il vecchio nella sua camera, e vieni a cercarmi.» La voce nell’ombra dà l’impressione di aver comunicato un’aspra sentenza. Ake è terreo, a grandi passi si avvicina, mi abbassa la gonna, tira su il bustino e fa un goffo tentativo di chiudere la camicetta, ma è rimasto un solo bottone al suo posto. Spazientito rinuncia, prende sottobraccio il vecchio e si allontana con lui. Anche la sagoma nell’ombra è sparita. Io resto lì, con le mani legate dietro la testa. Probabilmente trascorrerà un’eternità prima che Ake torni a liberarmi. Per ingannare il tempo, prego e snocciolo la litania, cado in un sonno senza sogni e senza pace.
«Hai un santo nel tuo inferno» Ake è tornato, mi scuote con forza, scioglie la corda, e cado in terra come una mela dall’albero.
So che non sarò mai più la Willow di qualche ora fa.
1 La Discendenza
Sasha
Nove mesi prima dell’inizio
In Alaska l’inverno non ha fine, in dicembre e in gennaio il vento diventa la punta affilata di un coltello. Si esce da casa consapevoli che imbottirsi di strati e strati di abiti caldi e impermeabili, ci preserva dal congelamento. Nevica tanto, e le giornate muoiono a distanza di poche ore dalla nascita.
In una di queste giornate, tanto fredde e tanto nevose, sono venuto al mondo io. Mia madre dice sempre che partorirmi fu facilissimo perché piccolo al punto da temere per la mia sopravvivenza. Mio padre fece la prova del nove. Un Jensen non conosce debolezza, così mi strappò dalle mani di mia madre, spalancò la finestra, e mi depositò sul davanzale, coperto soltanto di una pelle d’orso. Se fossi sopravvissuto all’inclemenza del gelo, per l’intera notte, sarei stato degno del nome della famiglia.
Esistono uomini venuti al mondo per grandi scopi: imprese epiche, degne di memoria per i posteri. Uomini disposti a sacrificare la propria esistenza per il raggiungimento di uno scopo supremo, del benessere comune, della pace e della libertà fra i popoli.
Ho conosciuto le loro mirabili gesta sui libri di scuola.
Li ho evocati, giudicati, derisi, perché, da dove vengo io, esiste un unico bene da perseguire, a qualunque costo, a qualunque prezzo: la sopravvivenza della famiglia Jensen.
Non importa quante teste spaccherai, quante dita schiaccerai, ne sarà valsa la pena, sarai nel giusto, poiché rispetterai le sacre regole della casata.
La nostra razza è in continuo evoluzione, sempre più individui di sangue puro vengono al mondo senza problemi fisici. L’estinzione non sarà mai contemplata nel nostro destino poiché la società ci alleva come figli prediletti.
Quelli di noi che se ne vanno, tornano più determinati e forti di quando sono andati via, pronti a distruggere chiunque abbia la disposizione d’animo di mettersi sulla loro strada.
Ordiamo nell’ombra, ma agiamo alla luce, così che tutti conoscano il nostro dominio.
I nostri antenati dalla Svezia si spinsero in questo sperduto angolo d’Alaska, e da allora qualsiasi tentativo di dar vita a una società pulita, onesta, coesa è stato sabotato. I geni vichinghi hanno sempre avuto il sopravvento su qualsiasi tentativo di asservimento alla società civile. Un barbaro non lo assoggetti; un barbaro lo contieni e basta. Ed è quello che da sempre la popolazione di questa terra ha cercato di fare con noi: contenerci. Ma i Jensen non li contieni, non obbediscono, non soccombono. A un Jensen obbedisci o soccombi.
Tuttavia, in questo quadro drammaticamente oscuro, io rappresento una pennellata di rossa luce divina. Per la mia famiglia, sono un’ anomalia
nella sequenza genetica, e grazie a tale eccezione mi sono guadagnato il titolo de Il Santo
.
Questa è la mia storia.
Apprezzo i valori sacri dei cattolici ortodossi, non sopporto i soprusi fini a se stessi, la violenza sui deboli o gli indifesi.
Ho riscritto le tavole delle leggi divine.
Picchio i figli di puttana, uccido gli assassini.
Fotto le donne che vogliono farsi fottere.
Guai a toccare un bambino.
O un vecchio.
Mia madre si chiama Irina Kostadinova, è nata a Krasnojarsk, in Siberia, e per tutta la vita ha pregato incessantemente, anche quando mio padre la rapì, e il suo ricevette in cambio una cassa di kalashnikov e una pista sicura tra i monti Džugždur. Mio padre approfittò di lei, bellissima e innocente, e la tenne con sé quando rimase incinta. Non la sposò mai, ma le consentì di crescermi, amarmi e accudirmi. E lei lo fece, con fervore mi tirò su, nutrendomi di amore e inesauribile fede.
Accadde così che l’erede di Runa Jensen, svedese ateo, fosse cresciuto tenendo a mente i precetti ortodossi osservati dalla brava gente di Krasnojarsk.
Ho lavorato duramente per dare vita alla mia rete di discepoli, ho sempre dovuto primeggiare per non essere considerato un bastardo. Questo ha fatto sì che mi indurissi più di quanto avrei voluto. Alle volte sono proprio un despota crudele, ma mi ritengo un uomo retto, perfino magnanimo se necessario. Mia madre ha sempre avuto ragione; la mia indole barbara è ingentilita dalla bonaria linea dei Kostadinov. E, dopotutto, c’è un motivo se credo in un Dio ~ che dall’alto dei cieli ci osserva e al momento opportuno tira le conclusioni della nostra esistenza ~ tutti mi hanno sempre riferito il contrario, ma io conosco la verità: sono unico.
Rappresento la perfetta fusione tra il ghiaccio artico del genoma scandinavo, e l’ardente rappresentativa del devoto fervore siberiano. I miei tratti sono induriti dai miei avi barbari, ma il mio animo è addolcito dalla religiosità ortodossa. Il mio cuore può apparire gelido, ma all’interno è insito un magma ribollente derivante dai sentimenti cristiani.
Adesso capite perché ho spaccato la faccia ad Ake?
Quel viscido figlio di puttana ha continuato a guardare la ragazza come se la volesse scopare legata a quel palo. Lo avrebbe fatto se ne avesse avuto la possibilità. È risaputo che ha gusti di un maiale per le questioni di letto. Non mi frega molto; a patto che non lo becchi a picchiare una donna, o prenderla contro la sua volontà. Solo un pidocchio senza palle si comporta in questo modo. Esistono diversi modi di possedere una donna, alcuni prevedono gesti rudi, pratiche più o meno gentili, l’uso di attrezzi, come dire, inusuali. Ma se la donna non sta al gioco, se devi usare il tuo attributo come una catena da stringerle attorno ai polsi, non c’è gusto.
A me piace che goda, magari soffrendo, guaendo, ma deve piacerle; e devo compiacermi del fatto che sia tutto merito mio. Ad Ake interessa solo fottere, che la donna sia umida o asciutta come la tundra, ancor più consenziente, poco gli frega.
La ragazza era spaventata, ma ha tenuto duro. Dovrà imparare presto perché non c’è tempo qui.
Ha il viso pulito di chi è stato tenuto lontano dal fango, lo sguardo di chi, per la prima volta, ha visto quegli animali che nel fango ci sguazzano: i porci.
Indossava ancora la divisa di un collegio quando lo scagnozzo di mio padre l’ha legata a quel palo. Ho pensato Dio benedetto, a cosa cavolo ho acconsentito?
. Era tardi per cambiare le mie disposizioni. Sarebbe stato visto come sintomo di debolezza, un’altra defezione causata dalle mie regole
estrapolate dai personali Dieci Comandamenti.
Forse sono stato pazzo ad accettare la proposta di Weeping perché, diciamo le cose come stanno, non rivedrò mai quei soldi.
Un uomo disperato agisce senza raziocinio pur di salvarsi il culo e se non fossi il fottuto Santo, a quest’ora di lui non resterebbe traccia.
Chi mi ha preceduto ha lasciato dietro di sé una scia di sangue densa e scura, io non voglio essere ricordato per il sangue, piuttosto per l’impero che sono riuscito a creare senza sopprimere più vite del necessario.
La proposta di Weeping non mi era parsa stravagante all’inizio, considerato l’andazzo di Kodiak. Almeno fino a quando non si è presentato qua, con sua figlia.
È chiaro che l’ha prelevata direttamente dal collegio.
Ma che razza di padre è quello che vende la figlia per saldare un debito?
Feccia che fa apparire il mio genitore un po’ meno carogna.
Runa Jensen ha usato un metodo particolare per educare i suoi figli: dopo le cinghiate usava spargere sale sulle ferite; rimedio infallibile per una rigida educazione.
Adesso che Runa è un vecchio rimbambito ho seppellito i rancori pensando a quando tirerà le cuoia ed io mi ritroverò a capo di ciò che mi appartiene per diritto di nascita. Sono il primo dei suoi figli, anche se bastardo.
È afflitto da una forma di demenza senile, agli occhi dei suoi fratelli, e dei luogotenenti sparsi nel circondario, è ancora il capo, ma nell’isola di Kodiak tutti sanno che sono io a prendere le decisioni e impartire gli ordini. Se mio zio Gunner, che porta avanti gli affari dalla terra ferma, fiutasse l’inganno, farebbe il diavolo a quattro per prendere in mano le redini della corsa. È lui l’erede designato dai capi dei nostri affiliati. Ha leccato i loro culi per anni, offrendo una parte dei guadagni dei club, delle puttane, dei fiumi di vodka e delle autostrade di polvere d’angelo.
Questa sera, ho lasciato che fosse mio padre a visionare la merce, anche se non ci sta più con la testa.
Quando si è avvicinato alla ragazza, sapevo che quello che stavo per vedere non mi sarebbe piaciuto.
È malato, ma gli impulsi da bestia sono ancora radicati in lui; ha giocato con lei, l’ha colpita col bastone per il puro sadico gusto di farlo. Ho resistito al desiderio di uscire dall’ombra, e spaccargli la testa con quel fottuto pezzo di legno, grazie alla volontà di perseguire il mio scopo.
Ho stretto i pugni mentre Ake guardava e sorrideva, ma quando il vecchio le ha ficcato il bastone in bocca…
Quel figlio di puttana pensava al momento in cui avrebbe ricevuto l’osso, mangiucchiato dal suo padrone, e finire di spolparlo.
L’ha pagata cara.
2 La Promessa
Willow
Presente
Traccio un solco nel sentiero lastricato di neve fresca e arrivo a casa.
La notte è candida, nell’aria si respira l’odore pungente di pini. Sopra le montagne di Pick Put, il riflesso di una luna pallida rende il buio meno assoluto. Il sentiero sembra fluttuare davanti ai miei occhi, mi ci vuole qualche minuto per orientarmi. Sarebbe opportuno che mi procurassi una torcia, ma renderebbe la vita facile a qualche bastardo vendicativo, cui ho rifiutato un lavoretto di bocca sul retro del locale. Mi fermo un istante per prendere fiato, la gola mi brucia, ho corso come se il diavolo mi stesse alle calcagna. Mi accascio sul fianco di una quercia, fa freddo, butto fuori il fiato e il gelo lo addensa in una nuvola grigia. Il bosco è dello stesso colore del petrolio e serba in sé lo stesso guadagno. L’inverno è duro a Kodiak Island e la gente pensa a scaldarsi con due dita di whisky, una tazza di brodo e un corpo caldo. Tante di noi del Desnuda danno calore, altre respiri tiepidi, altre ancora l’uno e l’altro. Poi ci sono io che non do niente, perché quel poco che ho me lo tengo stretto.
Tendo l’orecchio e non sento nient’altro che il mio respiro affannato.
«Eppure dovrebbe piacermi» mi dico, considerato che il fracasso alcolico del Desnuda prima o poi mi renderà sorda.
Il silenzio questa notte mi inquieta.
Riprendo il sentiero guardandomi le spalle, schiacciando la neve sotto le suole degli stivali, violenta e determinata ad arrivare a casa tutta intera. Mi getterò sul letto a corpo morto e mi addormenterò all’istante, dopo aver desiderato di non sognare.
I sogni sono bugie, ti ficcano strane idee nella testa. Ti illudono che quello che vedi sia la realtà, cieli azzurri, calore del sole, profumo del mare. Poi ti svegli e ti rendi conto che sei ancora nel tuo bugigattolo senza colore tanto meno calore.
I sogni sono il male del mondo.
Lo scricchiolio di rami che si spezzano mi fa arrestare di colpo.
Tendo l’orecchio.
Nulla.
Trattengo il respiro.
Ancora nulla.
Mi agito, guardo in tutte le direzioni, il buio è oppressivo e la luna sembra essersi ritirata per la notte, lasciando un leggero bagliore a illuminare la distesa di alberi del National Wildlife Refuge. Una volpe salta fuori da un cespuglio, mi scruta con i suoi occhi gialli. Forse ha il manto rosso, forse grigio. «Togliti dai piedi!» la scaccio con un gesto della mano, lei sembra fregarsene, resta ferma col muso puntato nella mia direzione. Scrollo le spalle, mi volto e riprendo il cammino con la netta sensazione che mi stia seguendo. «Sei fortunata, ragazza» mormoro, continuando a marciare. «Se avessi incontrato qualcun altro, a quest’ora penzoleresti già a testa in giù». Qua, le pelli di volpe valgono ancora più di un essere umano. «Dovresti ringraziarmi.» L’animale, dietro di me, pesta la neve con grazia silenziosa.
Sfioro il coltello con la mente, lo tengo nello stivale, una lama sottile dall’impugnatura anatomica. È stato Laurent a regalarmelo. Mira allo stomaco
mi ha raccomandato. Ho annuito con sicurezza, tuttavia non sono certa che al momento opportuno sarò in grado di usarlo. A fine turno, ho solo la forza di trascinarmi verso casa. Uno strano ardore, però, mi fa credere che sarei in grado di usarlo per difendere la volpe.
Un passo avanti all’altro, non fermarti!
Ho scelto questa sistemazione perché è vicina al locale, sebbene il quartiere sia poco raccomandabile. Il complesso di palazzine al centro di La Rua è simile a un enorme container, di quelli che scaricano giganteschi pallet provenienti dalla Russia, o dalla Scandinavia. Al porto ce n’è sempre qualcuno che resta alla chiglia per qualche giorno, poi riparte, di solito a notte fonda. In qualche occasione ho pensato di imbucarmi a bordo e vedere dove mi porterebbe il destino.
Sogno il Messico, da sempre. Trascorro in bikini gran parte delle mie nottate, eppure non sono mai stata in spiaggia senza essere coperta da strati di abiti.
Mi volto, la volpe è ancora dietro di me.
C’è tanto movimento in questa zona, è abituata alla presenza umana, ma se spera di rimediare qualche avanzo di cibo, con me casca male. Ho il frigo vuoto, e anche se avessi qualcosa, non penserei certo a sprecarlo per un animale destinato a morire.
«Le nostre strade si dividono, Foxy. Sei una bella rossa» esclamo, quando ci immergiamo nella luce di un lampione al neon. La volpe si ferma, sbatte la coda per terra, poi si dilegua. Non mi resta che scrollare le spalle e sperare che se la cavi per un po’.
Il mio appartamento si trova al terzo piano, l’ascensore è guasto da quando mi sono trasferita, e naturalmente mi sono ben guardata dal chiedere spiegazioni all’amministratore. Spesso è ubriaco o strafatto, mi guarda con occhi lascivi, ragione per cui lascio sempre la porta aperta quando viene a incassare l’affitto. Spero che prenda i soldi e sparisca in fretta.
L’androne è immerso nell’oscurità e nella puzza di urina stagnante.
Pigio nervosamente sull’interruttore, la lampadina si anima, gracchia per alcuni istanti, infine esala l’ultimo raggio di luce.
Merda!
Sono già a metà della prima rampa, ricordo che