Attacchi di panico
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Anteprima del libro
Attacchi di panico - Cecco Santopietro
IL GARAGE
DI FABRIZIO LUPI
Di Francesco Manzitti
"Quando mi sedevo sull’orlo della strada
per racimolare i coglioni necessari a passare il limite,
il confine mi arringava con l’assoluta certezza
di non sapere dove mi trovassi".
PRIMO TEMPO
L’UFO
Sono appena uscito da un locale dove ho recitato la
parte della star. Ho sempre voluto essere una star,
perciò se mi ubriaco riesco abbastanza bene. Cadono i
freni, la musica incalza e favorisce l’alcol che scorre e
si mischia al sangue, fraternizzano e scoprono di avere
molte cose in comune. Tipo la capacità di far uscire di
testa un povero idiota trentenne frustrato da un lavo-
ro che lo fa star male.
Così succede che conosco Sara, una ragazza che mi
piace, glie lo dico e lei ricambia, usciamo insieme da un
ristorante dove lei lavora ed io ho appena mangiato e
ce ne andiamo in un locale rinomato patinato della
notte milanese. Entriamo e ci sbronziamo, poi balliamo
e Sara gioca a far uscire la popstar libidinosa che vor-
rebbe essere in me.
In poco più di un’ora sono completamente trasformato
nella sintesi fra John Travolta e John Belushi con pa-
recchia latenza di Rocco Siffredi e qualche punta di
bambino vergine alla resa dei conti. Mentre lei si stru-
scia come una ballerina di lapdance usando le mie
gambe come palo capisco che questa sarà un’altra oc-
casione per tradire me stesso. Il cervello mi implora
per la quarta volta di spegnerlo e Sara chiede se ho
una casa.
Si. Certo che ho una casa! Vuoi che ci andiamo?
Buona idea, dice il mio cervello.
Ottima idea
, risponde lei.
Usciamo dal locale con le orecchie tappezzate dal fra-
stuono della musica, un fischio continuo, ovatta diabo-
lica su sbornia dilagata.
Accendo la macchina e scopro subito di non essere in
grado di guidare. Naturalmente si parte.
Naturalmente la musica è alta.
I Red Hot Chili Peppers non sbagliano un disco ormai,
piacciono anche a Sara e così cantiamo mentre au-
menta la velocità.
E’ a questo punto che il regista fuori scena si risveglia
e libera i sensi di colpa. In un attimo fermo la macchi-
na e scendo. Vomito, mi pulisco con la manica del cap-
potto e guardo Sara - "senti, io sono sposato. E’ meglio
che ti accompagni a casa. Dove abiti?".
Non ti preoccupare, faccio due passi a piedi
.
Passano forse cinque minuti, mi sembra un film di
Woody Allen e così fischietto allegro ribalzando sul se-
dile. La ragazza è già sparita all’orizzonte di lampioni.
Alla fine non sono così sbronzo.
Ma bastano due curve e l’alcol torna in circolo pesan-
te.
Poi mi sembra di sentire un urlo.
Un’astronave si schianta sulla mia auto a velocità su-
personica.
Lo schermo dissolve a nero.
Tutto è sepolto dalla neve. C’è molta gente vestita ele-
gante. Mentre la processione di corpi deambulanti ac-
compagna la bara al camposanto mi si riempono gli
occhi di lacrime. Un macigno mi si scioglie in gola di
schianto e un’esplosione di rabbia mi invade. Piango
nascondendomi dal resto della banda, li lascio andare e
mi appoggio contro un muro in un cortile di una casa
a urlare. Chiedo a Dio il perché. Perché Fabrizio deve
morire a vent’anni, poteva conquistare il mondo. Poi
arriva Maurizio e mi prende per un braccio. La bomba
era già esplosa, ero abbastanza calmo per riprendere a
marciare. Abbiamo guardato la cassa entrare nella
tomba in un muro, tra diecimila altri sconosciuti depo-
siti di corpi. Abbiamo guardato i becchini coprire col
cemento la pietra di marmo con la foto di Fabrizio,
non ci siamo avvicinati. Abbiamo seguito tutta la ceri-
monia mentre cadevano fiocchi grossi come pietre e il
dolore era attutito da quell’atmosfera infinitamente
triste, fredda e silenziosa, coi nostri piedi coperti dalla
neve fresca. Sembrava cadesse anche dentro, a coprir-
mi il cuore, in silenzio.
Gli occhi si riaprono molto lentamente.
Ricordo la fatica insopportabile che ho fatto per sve-
gliarmi. Dopo l’urto che non ho vissuto e neppure so-
gnato.
Dopo essere svenuto.
Qualche E.T. samaritano mi trascina fuori dalla mac-
china distrutta.
Sdraiato con le spalle a una saracinesca cerco di aprire
gli occhi e riprendere il controllo ma faccio una fatica
impossibile. Annaspo nella semi coscienza biascicando
qualche frase: "cos’è successo? Dove sono? Dio, aiuto,
sto male."
Poi l’apparizione.
Ricordo bene la sua voce e le luci dell’astronave da cui
spunta: prova a muovere le gambe e le braccia!
.
Allora capisco tre cose: è un’ambulanza, ho avuto un
incidente, io sto bene. Due medici provano a sollevarmi
e a mettermi sulla barella, io invece provo a urlare ma
non viene fuori niente. Non riesco a respirare. Tremo
come attraversato da una scarica di diecimila volts.
In ospedale arrivo non so come. Mi piazzano sdraiato
su un letto di ferro duro come pietra senza un cuscino
ed io continuo a tremare. Sono terrorizzato. Vorrei
chiamare mia moglie ma non posso svegliarla con que-
sta notizia alle cinque del mattino. Resto fermo ad
aspettare in quella saletta del pronto soccorso e non
potendo muovermi guardo il soffitto. E’ talmente brut-
to che farebbe schifo anche come pavimento.
Dietro di me una macchina emette un suono che indica
il battito cardiaco. Techno hardcore. Sembra impossi-
bile che un cuore umano vada così veloce eppure, mol-
to lentamente, il sonno mi accoglie.
Qualche ora dopo mi sveglio in una camera da solo.
Non riesco a parlare, ho addosso una maschera ad os-
sigeno. Un polmone è perforato. Dalla cassa toracica
mi sorride un tubo cui è attaccata una specie di botti-
glia. Serve a rigonfiare il polmone collassato in attesa
che la ferita cicatrizzi. Dall’altro lato del letto una fle-
bo di antidolorifico, un oppiaceo, simpatizza col mio si-
stema nervoso. Amore a prima vista.
CONSEGUENZE
Tocchi una foglia e provochi un orgasmo all’albero,
forse a un’intera foresta. Può succedere. Una piccola
pietra causa una valanga e ho sentito che una bestem-
mia può causare un temporale. E infatti nelle valli ber-
gamasche sono quasi sempre tuoni e fulmini. Basta un
piccolo gesto e per emanazione nell’universo si scate-
nano migliaia di reazioni. Così è stato per me. Avevo
dentro l’anima qualcosa che non mi piaceva ammette-
re, qualcosa che mi fa paura ancora adesso, ora che fi-
nalmente è uscito allo scoperto e ha cominciato a par-
lare. Il semaforo mancato e tutto quel che ne è seguito
sono solo il tocco sulla foglia, poi ci sono almeno cento
avvenimenti e miliardi di possibili combinazioni per
ogni secondo di tempo trascorso prima e dopo l’inci-
dente. Il lato oscuro prima o poi viene alla luce, non lo
si può evitare a lungo. Se avete qualche segreto nasco-
sto, una bugia che raccontate solo a voi stessi e non vi
piace ammettere davanti allo specchio, se state na-
scondendovi qualcosa, prima o poi questa riemerge
dalle acque del subconscio per esplodervi davanti agli
occhi. Lo scontro con l’UFO è solo l’inizio, la svolta, il
tappo tolto dalla bottiglia giunta all’apice della fermen-
tazione. Ma la sera dell’incidente il mio palinsesto per-
sonale prevedeva altri sviluppi: doveva essere il giorno
della festa di fine produzione di un programma tv. Lo
avevo condotto insieme a una brillante coppia di sou-
brette vj, strano ibrido televisivo fra scimmie urlatrici
e bambole gonfiabili. Ottima la risposta del pubblico: in
seconda serata facevamo concorrenza a reti molto più
seguite e i produttori avevano ottenuto la conferma
per altre otto puntate estive.
Dopo l’incidente sono rimasto convalescente a casa
per due mesi, poi mi hanno chiamato per la nuova edi-
zione del programma e il primo giugno ho ripreso a la-
vorare. Le registrazioni sono entrate subito nel vivo.
Tornavo quasi sempre a Genova dalla mia famiglia, al-
l’inizio. Poi ho dovuto cedere al fatto che per esser lu-
cido al mattino dovevo fermarmi a Milano a dormire.
In quei primi giorni di ritorno alla normalità, più che
ad un uomo, assomigliavo a un tavolo del cinquecento
prima del restauro e cominciavo anche a pensare di
propormi come effetto speciale per un film di Dario Ar-
gento, magari come macchina per scricchiolii e rumo-
rame vario. Alla fine della seconda settimana di lavoro
ho avuto la rivelazione che ha cambiato la mia vita.
Durante tutto il giorno respiravo a fatica ma l’aria
condizionata riusciva a farmi sopportare quella sensa-
zione. Verso le otto sono uscito dagli studi e ho preso
un taxi. Arrivato a casa mi sono preparato una bistec-
ca e dopo averla mangiata ho cominciato a respirare
male, poi sempre peggio finché ha preso a girarmi la
testa, le mani a formicolare, il cuore a sbattere violen-
temente contro la cassa toracica come un subwoofer
siderale. Stavo preparandomi ad accogliere gli amici ic-
tus ed infarto svenendo, poi mi sono deciso a chiamare
la guardia medica e una mezz’ora dopo è arrivato un
dottore a cui ho raccontato tutto. Mi ha detto che l’afa
milanese aveva fatto ritornare la sensazione del respi-
ro mozzo causato dall’urto in macchina. "Questo è un
tipico caso di attacco di panico post traumatico, si
prenda un tavor e riposi. Domani vada da un buon
neurologo e vedrà che tutto si aggiusta!".
Grazie e buonanotte.
Mi sono sciolto in bocca la pastiglia e dopo un’ora di
pensieri storti mi sono addormentato.
Le ultime quattro puntate del programma le ha con-
dotte un altro. Brutto smacco per la mia carriera. Un
duro colpo da assorbire ma evidentemente non impos-
sibile. Ho fatto una cura intensiva per tre mesi, ora
continuo a prendere due farmaci, un ansiolitico e un
antidepressivo. Mi aiutano a vivere una vita il più pos-
sibile normale. A volte sto bene, altre sento di essere
sul punto di impazzire. A volte riesco a fare dieci chilo-
metri in bicicletta, altre non riesco neppure a scendere
sotto casa per buttare la spazzatura, senza sentire
l’ansia saltare tra la gola e il cuore. E’ una ginnastica
sospesa tra follia ed equilibrio, uno sport davvero im-
pegnativo.
Ma la cosa più importante è che io trovi la forza per ri-
buttarmi nella mischia, per vincere la paura degli at-
tacchi e imparare a convivere con questo nuovo ami-
co. Altrimenti sono finito. In realtà della tv ne ho piena
la testa. Preferirei piuttosto aprire un bar, gestire un
piccolo stabilimento balneare in estate e scrivere d’in-
verno. Anche pulire i vetri alle automobili ai semafori
mi sembra ipotesi meno pesante di Milano. Forse è
solo neurodelirio, ma qualsiasi cosa io voglia fare della
mia vita, ora devo guardarmi dentro, devo affrontare
la verità faccia a faccia. Non può essere soltanto un in-
cidente a farmi sprofondare nel terrore di restare solo,
di non riuscire a respirare, di morire precipitando nel
vuoto. Ci dev’essere qualcosa d’altro, ne sono certo.
E’ arrivato il giorno di riaprire quella porta davanti a
me stesso, quella che ho chiuso la sera dell’ultimo trip.
L’ULTIMO TRIP
La prima volta che ho visto me stesso è stato dieci
anni fa, quando ne avevo venti. Mille volte avevo avuto
percezione di com’ero, dei difetti e delle mie armi parti-
colari, i cosiddetti pregi. Ma quella notte di giugno, al
Capolinea di Rapallo, quella notte ho avuto una visione
chiara così accecante che ho sbattuto la porta spalan-
cata su me stesso e ho chiuso coi trip.
Il Capolinea era un locale ricavato da alcuni vecchi
enormi autobus di chissà quale linea o agenzia, portati
sulle alture di Rapallo e sistemati ad ottenere una spe-
cie di teatro, un semicerchio al coperto composto da
vetture comunicanti fra loro attraverso stretti pas-
saggi. Un posto davvero originale e molto caldo. Ci si
arrivava già strafatti di canne, dopo mezz’ora di tor-
nanti che sembravano salire a chiocciola fino alla cima
dell’inferno, e quando scendevi, dopo aver cercato un
parcheggio curva dopo curva, barcollavi nell’oscurità
totale domandandoti se non avresti fatto meglio a sta-
re a casa, magari un cinema.
Poi, dietro un tornante, intravedevi luci lontane, già
rossastre di pareti di velluto e fiamme, cominciavi a
sentire la musica farsi decisa, intensa, e quando arri-
vavi davanti al teatro di autobus le orecchie erano già
completamente avvolte dal blues elettrico, spesso
sgangherato, che inondava il locale di note distorte.
Durante l’inverno c’era un camino acceso, le varie stu-
fe sparse sbuffavano e certi angoli erano pregni di un
caldo soffocante. Ti ci scaldavi il posteriore ogni volta
che rientravi dopo essere uscito a fumare con qualcu-
no o per andare in bagno. Il cesso psichedelico!
Era composto da una cabina singola semisfasciata da
stabilimento balneare dentro cui, non so neppure im-
maginare come, avevano installato un gabinetto e un
micro lavandino per lavarsi. Proprio uscendo dalla ca-
bina, con le mani ancora ibernate dall’acqua gelida,
una sera che avevo mangiato un trip, un fresco viola
bambulé appena giunto d’Amsterdàm, proprio quella
sera ho imboccato una serie di pensieri velocissimi
come soltanto l’acido e l’anfetamina insieme, o un
esaurimento molto grave, possono causare, e mi sono
trovato davanti alla porta dell’autobus centrale con
davanti a me la chiara immagine di tutti i miei difetti,
così, come riflessi in uno specchio, in una sola immagi-
ne, tutti insieme intrippatissimi. La visione più reali-
stica e mostruosa che abbia mai avuto. Insostenibile!
Come se qualcuno ti buttasse in faccia, elencandoteli
freddamente, tutti i lati deboli del tuo carattere mo-
strandoli in un’unica visione, come un quadro di te
stesso in negativo. Non ho avuto il coraggio di afferra-
re la maniglia e sono tornato di corsa indietro, prima
verso il bagno, dove ancora qualcuno fumava, ma era
come ripercorrere qualcosa di già visto. Sempre più in-
quieto ho cercato di rientrare nel locale passando at-
traverso un altro ingresso, ma non sono riuscito. Il
trip ormai stava prendendo male, era innescato il mec-
canismo sadico che porta una persona ad autocausar-
si una serie di piccole crisi di panico, a far girare a
vuoto in loop il sistema nervoso come in attesa di un
pericolo che in realtà non c’è. L’unica vera paura è
quella della morte, ma non ero e non sono stato abba-
stanza lucido per arrivarci. Ho cominciato a vagare a
piedi fra curve e tornanti, prima salendo verso la cima
del monte, poi tornando sui miei passi in discesa, infi-
ne entrando nella boscaglia che separava lo spazio in
discesa fra un tornante e l’altro. Guardavo le stelle, ce
n’erano tantissime e luminosissime e tutto il cosmo
era un bestione enorme assetato di vita in movimento,
a velocità infernale, impossibile da trattenere ed anche
per un solo istante da considerare, almeno con la vi-
sta. Un impossibile visibilissimo fiume rapida che spar-
ge ovunque panico e migliaia di volts di elettricità, in-
comprensibile e sadico, spaventosamente infinito e
vuoto, potentissimo, lontano ma pronto a inghiottir-
mi.
Il migliore dei brutti trip.
Un bell’attacco di panico per il mio curriculum.
Da quella sera, durata molto più del solito e smaltita in
camera, con il corpo sfinito che dormiva e la mente
sveglia, follemente lucida e iperattiva, non ho mai più
preso trip, e mi sono gradualmente staccato anche
dalle canne, che per cinque anni, dai quindici ai venti,
erano state praticamente il senso delle mie giornate.
Da quella sera, molto lentamente ma con sempre più
decisione, le canne hanno cominciato a darmi piccoli
ritorni di fiamma dell’ultimo trip. Piccoli assaggi di pa-
nico con un destino glorioso e un futuro pieno di sod-
disfazioni davanti.
Da cinque anni ormai ho chiuso con spinelli d’hashish
e maria, ma ancora oggi il solo pensiero di fumare una
cannetta mi raddoppia la velocità del sangue nelle ve-
ne.
ATTACCHI DI PANICO
L’ultima volta che ho visto me stesso con la nettezza
di quella prima visione è stato qualche mese dopo l’in-
cidente, sul mio letto matrimoniale, nella