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Attacchi di panico
Attacchi di panico
Attacchi di panico
E-book332 pagine3 ore

Attacchi di panico

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Info su questo ebook

Un conduttore televisivo ha un incidente di macchina.

Tornato al lavoro comincia a soffrire di terribili attacchi di panico e la sua vita implode.

Una crisi irreversibile lo porta sull'orlo della disperazione, ma gli offre anche l'opportunità di fare un viaggio dentro se stesso, alle origini dei traumi dell'adolescenza, ai tempi dell'abuso di droghe, alle prime esperienze con il sesso, ai vecchi tempi del rocknroll.

Si può guarire dagli attacchi di panico.

Ma bisogna guardarsi dentro, nel profondo dell'abisso.
LinguaItaliano
Data di uscita19 giu 2012
ISBN9788863699333
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    Anteprima del libro

    Attacchi di panico - Cecco Santopietro

    IL GARAGE

    DI FABRIZIO LUPI

    Di Francesco Manzitti

    "Quando mi sedevo sull’orlo della strada

    per racimolare i coglioni necessari a passare il limite,

    il confine mi arringava con l’assoluta certezza

    di non sapere dove mi trovassi".

    PRIMO TEMPO

    L’UFO

    Sono appena uscito da un locale dove ho recitato la

    parte della star. Ho sempre voluto essere una star,

    perciò se mi ubriaco riesco abbastanza bene. Cadono i

    freni, la musica incalza e favorisce l’alcol che scorre e

    si mischia al sangue, fraternizzano e scoprono di avere

    molte cose in comune. Tipo la capacità di far uscire di

    testa un povero idiota trentenne frustrato da un lavo-

    ro che lo fa star male.

    Così succede che conosco Sara, una ragazza che mi

    piace, glie lo dico e lei ricambia, usciamo insieme da un

    ristorante dove lei lavora ed io ho appena mangiato e

    ce ne andiamo in un locale rinomato patinato della

    notte milanese. Entriamo e ci sbronziamo, poi balliamo

    e Sara gioca a far uscire la popstar libidinosa che vor-

    rebbe essere in me.

    In poco più di un’ora sono completamente trasformato

    nella sintesi fra John Travolta e John Belushi con pa-

    recchia latenza di Rocco Siffredi e qualche punta di

    bambino vergine alla resa dei conti. Mentre lei si stru-

    scia come una ballerina di lapdance usando le mie

    gambe come palo capisco che questa sarà un’altra oc-

    casione per tradire me stesso. Il cervello mi implora

    per la quarta volta di spegnerlo e Sara chiede se ho

    una casa.

    Si. Certo che ho una casa! Vuoi che ci andiamo?

    Buona idea, dice il mio cervello.

    Ottima idea, risponde lei.

    Usciamo dal locale con le orecchie tappezzate dal fra-

    stuono della musica, un fischio continuo, ovatta diabo-

    lica su sbornia dilagata.

    Accendo la macchina e scopro subito di non essere in

    grado di guidare. Naturalmente si parte.

    Naturalmente la musica è alta.

    I Red Hot Chili Peppers non sbagliano un disco ormai,

    piacciono anche a Sara e così cantiamo mentre au-

    menta la velocità.

    E’ a questo punto che il regista fuori scena si risveglia

    e libera i sensi di colpa. In un attimo fermo la macchi-

    na e scendo. Vomito, mi pulisco con la manica del cap-

    potto e guardo Sara - "senti, io sono sposato. E’ meglio

    che ti accompagni a casa. Dove abiti?".

    Non ti preoccupare, faccio due passi a piedi.

    Passano forse cinque minuti, mi sembra un film di

    Woody Allen e così fischietto allegro ribalzando sul se-

    dile. La ragazza è già sparita all’orizzonte di lampioni.

    Alla fine non sono così sbronzo.

    Ma bastano due curve e l’alcol torna in circolo pesan-

    te.

    Poi mi sembra di sentire un urlo.

    Un’astronave si schianta sulla mia auto a velocità su-

    personica.

    Lo schermo dissolve a nero.

    Tutto è sepolto dalla neve. C’è molta gente vestita ele-

    gante. Mentre la processione di corpi deambulanti ac-

    compagna la bara al camposanto mi si riempono gli

    occhi di lacrime. Un macigno mi si scioglie in gola di

    schianto e un’esplosione di rabbia mi invade. Piango

    nascondendomi dal resto della banda, li lascio andare e

    mi appoggio contro un muro in un cortile di una casa

    a urlare. Chiedo a Dio il perché. Perché Fabrizio deve

    morire a vent’anni, poteva conquistare il mondo. Poi

    arriva Maurizio e mi prende per un braccio. La bomba

    era già esplosa, ero abbastanza calmo per riprendere a

    marciare. Abbiamo guardato la cassa entrare nella

    tomba in un muro, tra diecimila altri sconosciuti depo-

    siti di corpi. Abbiamo guardato i becchini coprire col

    cemento la pietra di marmo con la foto di Fabrizio,

    non ci siamo avvicinati. Abbiamo seguito tutta la ceri-

    monia mentre cadevano fiocchi grossi come pietre e il

    dolore era attutito da quell’atmosfera infinitamente

    triste, fredda e silenziosa, coi nostri piedi coperti dalla

    neve fresca. Sembrava cadesse anche dentro, a coprir-

    mi il cuore, in silenzio.

    Gli occhi si riaprono molto lentamente.

    Ricordo la fatica insopportabile che ho fatto per sve-

    gliarmi. Dopo l’urto che non ho vissuto e neppure so-

    gnato.

    Dopo essere svenuto.

    Qualche E.T. samaritano mi trascina fuori dalla mac-

    china distrutta.

    Sdraiato con le spalle a una saracinesca cerco di aprire

    gli occhi e riprendere il controllo ma faccio una fatica

    impossibile. Annaspo nella semi coscienza biascicando

    qualche frase: "cos’è successo? Dove sono? Dio, aiuto,

    sto male."

    Poi l’apparizione.

    Ricordo bene la sua voce e le luci dell’astronave da cui

    spunta: prova a muovere le gambe e le braccia!.

    Allora capisco tre cose: è un’ambulanza, ho avuto un

    incidente, io sto bene. Due medici provano a sollevarmi

    e a mettermi sulla barella, io invece provo a urlare ma

    non viene fuori niente. Non riesco a respirare. Tremo

    come attraversato da una scarica di diecimila volts.

    In ospedale arrivo non so come. Mi piazzano sdraiato

    su un letto di ferro duro come pietra senza un cuscino

    ed io continuo a tremare. Sono terrorizzato. Vorrei

    chiamare mia moglie ma non posso svegliarla con que-

    sta notizia alle cinque del mattino. Resto fermo ad

    aspettare in quella saletta del pronto soccorso e non

    potendo muovermi guardo il soffitto. E’ talmente brut-

    to che farebbe schifo anche come pavimento.

    Dietro di me una macchina emette un suono che indica

    il battito cardiaco. Techno hardcore. Sembra impossi-

    bile che un cuore umano vada così veloce eppure, mol-

    to lentamente, il sonno mi accoglie.

    Qualche ora dopo mi sveglio in una camera da solo.

    Non riesco a parlare, ho addosso una maschera ad os-

    sigeno. Un polmone è perforato. Dalla cassa toracica

    mi sorride un tubo cui è attaccata una specie di botti-

    glia. Serve a rigonfiare il polmone collassato in attesa

    che la ferita cicatrizzi. Dall’altro lato del letto una fle-

    bo di antidolorifico, un oppiaceo, simpatizza col mio si-

    stema nervoso. Amore a prima vista.

    CONSEGUENZE

    Tocchi una foglia e provochi un orgasmo all’albero,

    forse a un’intera foresta. Può succedere. Una piccola

    pietra causa una valanga e ho sentito che una bestem-

    mia può causare un temporale. E infatti nelle valli ber-

    gamasche sono quasi sempre tuoni e fulmini. Basta un

    piccolo gesto e per emanazione nell’universo si scate-

    nano migliaia di reazioni. Così è stato per me. Avevo

    dentro l’anima qualcosa che non mi piaceva ammette-

    re, qualcosa che mi fa paura ancora adesso, ora che fi-

    nalmente è uscito allo scoperto e ha cominciato a par-

    lare. Il semaforo mancato e tutto quel che ne è seguito

    sono solo il tocco sulla foglia, poi ci sono almeno cento

    avvenimenti e miliardi di possibili combinazioni per

    ogni secondo di tempo trascorso prima e dopo l’inci-

    dente. Il lato oscuro prima o poi viene alla luce, non lo

    si può evitare a lungo. Se avete qualche segreto nasco-

    sto, una bugia che raccontate solo a voi stessi e non vi

    piace ammettere davanti allo specchio, se state na-

    scondendovi qualcosa, prima o poi questa riemerge

    dalle acque del subconscio per esplodervi davanti agli

    occhi. Lo scontro con l’UFO è solo l’inizio, la svolta, il

    tappo tolto dalla bottiglia giunta all’apice della fermen-

    tazione. Ma la sera dell’incidente il mio palinsesto per-

    sonale prevedeva altri sviluppi: doveva essere il giorno

    della festa di fine produzione di un programma tv. Lo

    avevo condotto insieme a una brillante coppia di sou-

    brette vj, strano ibrido televisivo fra scimmie urlatrici

    e bambole gonfiabili. Ottima la risposta del pubblico: in

    seconda serata facevamo concorrenza a reti molto più

    seguite e i produttori avevano ottenuto la conferma

    per altre otto puntate estive.

    Dopo l’incidente sono rimasto convalescente a casa

    per due mesi, poi mi hanno chiamato per la nuova edi-

    zione del programma e il primo giugno ho ripreso a la-

    vorare. Le registrazioni sono entrate subito nel vivo.

    Tornavo quasi sempre a Genova dalla mia famiglia, al-

    l’inizio. Poi ho dovuto cedere al fatto che per esser lu-

    cido al mattino dovevo fermarmi a Milano a dormire.

    In quei primi giorni di ritorno alla normalità, più che

    ad un uomo, assomigliavo a un tavolo del cinquecento

    prima del restauro e cominciavo anche a pensare di

    propormi come effetto speciale per un film di Dario Ar-

    gento, magari come macchina per scricchiolii e rumo-

    rame vario. Alla fine della seconda settimana di lavoro

    ho avuto la rivelazione che ha cambiato la mia vita.

    Durante tutto il giorno respiravo a fatica ma l’aria

    condizionata riusciva a farmi sopportare quella sensa-

    zione. Verso le otto sono uscito dagli studi e ho preso

    un taxi. Arrivato a casa mi sono preparato una bistec-

    ca e dopo averla mangiata ho cominciato a respirare

    male, poi sempre peggio finché ha preso a girarmi la

    testa, le mani a formicolare, il cuore a sbattere violen-

    temente contro la cassa toracica come un subwoofer

    siderale. Stavo preparandomi ad accogliere gli amici ic-

    tus ed infarto svenendo, poi mi sono deciso a chiamare

    la guardia medica e una mezz’ora dopo è arrivato un

    dottore a cui ho raccontato tutto. Mi ha detto che l’afa

    milanese aveva fatto ritornare la sensazione del respi-

    ro mozzo causato dall’urto in macchina. "Questo è un

    tipico caso di attacco di panico post traumatico, si

    prenda un tavor e riposi. Domani vada da un buon

    neurologo e vedrà che tutto si aggiusta!".

    Grazie e buonanotte.

    Mi sono sciolto in bocca la pastiglia e dopo un’ora di

    pensieri storti mi sono addormentato.

    Le ultime quattro puntate del programma le ha con-

    dotte un altro. Brutto smacco per la mia carriera. Un

    duro colpo da assorbire ma evidentemente non impos-

    sibile. Ho fatto una cura intensiva per tre mesi, ora

    continuo a prendere due farmaci, un ansiolitico e un

    antidepressivo. Mi aiutano a vivere una vita il più pos-

    sibile normale. A volte sto bene, altre sento di essere

    sul punto di impazzire. A volte riesco a fare dieci chilo-

    metri in bicicletta, altre non riesco neppure a scendere

    sotto casa per buttare la spazzatura, senza sentire

    l’ansia saltare tra la gola e il cuore. E’ una ginnastica

    sospesa tra follia ed equilibrio, uno sport davvero im-

    pegnativo.

    Ma la cosa più importante è che io trovi la forza per ri-

    buttarmi nella mischia, per vincere la paura degli at-

    tacchi e imparare a convivere con questo nuovo ami-

    co. Altrimenti sono finito. In realtà della tv ne ho piena

    la testa. Preferirei piuttosto aprire un bar, gestire un

    piccolo stabilimento balneare in estate e scrivere d’in-

    verno. Anche pulire i vetri alle automobili ai semafori

    mi sembra ipotesi meno pesante di Milano. Forse è

    solo neurodelirio, ma qualsiasi cosa io voglia fare della

    mia vita, ora devo guardarmi dentro, devo affrontare

    la verità faccia a faccia. Non può essere soltanto un in-

    cidente a farmi sprofondare nel terrore di restare solo,

    di non riuscire a respirare, di morire precipitando nel

    vuoto. Ci dev’essere qualcosa d’altro, ne sono certo.

    E’ arrivato il giorno di riaprire quella porta davanti a

    me stesso, quella che ho chiuso la sera dell’ultimo trip.

    L’ULTIMO TRIP

    La prima volta che ho visto me stesso è stato dieci

    anni fa, quando ne avevo venti. Mille volte avevo avuto

    percezione di com’ero, dei difetti e delle mie armi parti-

    colari, i cosiddetti pregi. Ma quella notte di giugno, al

    Capolinea di Rapallo, quella notte ho avuto una visione

    chiara così accecante che ho sbattuto la porta spalan-

    cata su me stesso e ho chiuso coi trip.

    Il Capolinea era un locale ricavato da alcuni vecchi

    enormi autobus di chissà quale linea o agenzia, portati

    sulle alture di Rapallo e sistemati ad ottenere una spe-

    cie di teatro, un semicerchio al coperto composto da

    vetture comunicanti fra loro attraverso stretti pas-

    saggi. Un posto davvero originale e molto caldo. Ci si

    arrivava già strafatti di canne, dopo mezz’ora di tor-

    nanti che sembravano salire a chiocciola fino alla cima

    dell’inferno, e quando scendevi, dopo aver cercato un

    parcheggio curva dopo curva, barcollavi nell’oscurità

    totale domandandoti se non avresti fatto meglio a sta-

    re a casa, magari un cinema.

    Poi, dietro un tornante, intravedevi luci lontane, già

    rossastre di pareti di velluto e fiamme, cominciavi a

    sentire la musica farsi decisa, intensa, e quando arri-

    vavi davanti al teatro di autobus le orecchie erano già

    completamente avvolte dal blues elettrico, spesso

    sgangherato, che inondava il locale di note distorte.

    Durante l’inverno c’era un camino acceso, le varie stu-

    fe sparse sbuffavano e certi angoli erano pregni di un

    caldo soffocante. Ti ci scaldavi il posteriore ogni volta

    che rientravi dopo essere uscito a fumare con qualcu-

    no o per andare in bagno. Il cesso psichedelico!

    Era composto da una cabina singola semisfasciata da

    stabilimento balneare dentro cui, non so neppure im-

    maginare come, avevano installato un gabinetto e un

    micro lavandino per lavarsi. Proprio uscendo dalla ca-

    bina, con le mani ancora ibernate dall’acqua gelida,

    una sera che avevo mangiato un trip, un fresco viola

    bambulé appena giunto d’Amsterdàm, proprio quella

    sera ho imboccato una serie di pensieri velocissimi

    come soltanto l’acido e l’anfetamina insieme, o un

    esaurimento molto grave, possono causare, e mi sono

    trovato davanti alla porta dell’autobus centrale con

    davanti a me la chiara immagine di tutti i miei difetti,

    così, come riflessi in uno specchio, in una sola immagi-

    ne, tutti insieme intrippatissimi. La visione più reali-

    stica e mostruosa che abbia mai avuto. Insostenibile!

    Come se qualcuno ti buttasse in faccia, elencandoteli

    freddamente, tutti i lati deboli del tuo carattere mo-

    strandoli in un’unica visione, come un quadro di te

    stesso in negativo. Non ho avuto il coraggio di afferra-

    re la maniglia e sono tornato di corsa indietro, prima

    verso il bagno, dove ancora qualcuno fumava, ma era

    come ripercorrere qualcosa di già visto. Sempre più in-

    quieto ho cercato di rientrare nel locale passando at-

    traverso un altro ingresso, ma non sono riuscito. Il

    trip ormai stava prendendo male, era innescato il mec-

    canismo sadico che porta una persona ad autocausar-

    si una serie di piccole crisi di panico, a far girare a

    vuoto in loop il sistema nervoso come in attesa di un

    pericolo che in realtà non c’è. L’unica vera paura è

    quella della morte, ma non ero e non sono stato abba-

    stanza lucido per arrivarci. Ho cominciato a vagare a

    piedi fra curve e tornanti, prima salendo verso la cima

    del monte, poi tornando sui miei passi in discesa, infi-

    ne entrando nella boscaglia che separava lo spazio in

    discesa fra un tornante e l’altro. Guardavo le stelle, ce

    n’erano tantissime e luminosissime e tutto il cosmo

    era un bestione enorme assetato di vita in movimento,

    a velocità infernale, impossibile da trattenere ed anche

    per un solo istante da considerare, almeno con la vi-

    sta. Un impossibile visibilissimo fiume rapida che spar-

    ge ovunque panico e migliaia di volts di elettricità, in-

    comprensibile e sadico, spaventosamente infinito e

    vuoto, potentissimo, lontano ma pronto a inghiottir-

    mi.

    Il migliore dei brutti trip.

    Un bell’attacco di panico per il mio curriculum.

    Da quella sera, durata molto più del solito e smaltita in

    camera, con il corpo sfinito che dormiva e la mente

    sveglia, follemente lucida e iperattiva, non ho mai più

    preso trip, e mi sono gradualmente staccato anche

    dalle canne, che per cinque anni, dai quindici ai venti,

    erano state praticamente il senso delle mie giornate.

    Da quella sera, molto lentamente ma con sempre più

    decisione, le canne hanno cominciato a darmi piccoli

    ritorni di fiamma dell’ultimo trip. Piccoli assaggi di pa-

    nico con un destino glorioso e un futuro pieno di sod-

    disfazioni davanti.

    Da cinque anni ormai ho chiuso con spinelli d’hashish

    e maria, ma ancora oggi il solo pensiero di fumare una

    cannetta mi raddoppia la velocità del sangue nelle ve-

    ne.

    ATTACCHI DI PANICO

    L’ultima volta che ho visto me stesso con la nettezza

    di quella prima visione è stato qualche mese dopo l’in-

    cidente, sul mio letto matrimoniale, nella

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