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E-book143 pagine2 ore

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Info su questo ebook

Non di certo un libro di facile lettura, rimane ermetico nei primi capitoli e man mano si scioglie divenendo più fluido, e questo perché rimane fedele alla sua filosofia di lettura che si traduce in un arduo viaggio che al termine sarà in grado di premiare. Un libro che potrà cambiarti la vita, perché con me lo ha fatto.
LinguaItaliano
Data di uscita3 ott 2021
ISBN9791220853033
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    Anteprima del libro

    Inedia - Mattia Bertoldi

    INEDIA

    Mattia Bertoldi

    A te

    A te,

    centro dell'effimero perpetuo;

    a te,

    singolarità.

    Alla tua rivoluzione.

    .INTRODUZIONE

    Quel momento

    Mars Lubert, questo è il mio nome. Il mio aspetto è quello di un giovane e florido ragazzo, spesso tradito dalla piccola statura. Ciò che la natura non mi aveva donato in apparire sembrava però averlo espresso nell'essere. I miei capelli al sole suggerivano il colore dell'ambra e, come essa nascondeva il codice atavico della vita, il mio crine celava tenacia nell'inseguire l'Intelletto. Mi ero messo in cammino da ben sette lunghi anni alla ricerca di Circubovum, luogo che pochi uomini si imponevano di sognare con leale bramosia ed ancor meno si prefiggevano come meta.

    Volevo andare in fondo, in quel fondo ove la caparbietà nel raggiungerlo stride in faville nelle strettoie che bloccano l'uscita, mentre s'illumina con il suo fuoco.

    CAPITOLO I

    Il Palazzo del Re

    Lampi accecanti e tuoni violenti mi esplodevano intorno. Scappavo. Non è una bella cosa fuggire, ma dovevo scappare. Pensavo solo a correre e correvo. In mezzo a quel frastuono potevo comunque sentire il mio respiro strozzato, pesante e veloce che singhiozzava forte quanto il tempo che aggrediva il bosco. Lo scorrere irrompeva la foresta, disperato quanto me. La pioggia mi menava contro ed era fitta e violenta, e così materiale. I tuoni erano cattivi, ma io continuavo a correre. Sentivo i rami, i rovi e miriadi di uncini che cercavano di fermarmi, ma correvo e correvo, e strattonavo tutto. Scivolavo e mi riprendevo, sentivo e non sentivo i dolori dei muscoli e dei nervi, dei tendini e delle ossa, del mio corpo che si lacerava e si muoveva istintivamente e senza risparmiarsi verso l’esistenza. Mani aguzze cercavano di arpionarmi, uncini affilati volevano affondarsi nella mia carne e gingillarsi nella mia angoscia. Quel cielo primaverile era oscuro e il suo buio si scagliava in quel labirinto di foglie tumefatte e viscide. Sentivo la mia tunica essere preda di agguati, si incagliava e si sdruciva. Un tuono vibrò, secco. Imboccai un sentiero, era diritto davanti a me. Ero più veloce, ma un disturbo mi pervase. Sentivo una voce in quel trambusto che mi diceva di fermarmi, di lasciare perdere, di lasciarmi perdere. C'era tanto, tanto rumore e odore di fradicio, di paura, di selvaggio e, all'orizzonte, timida e dura libertà. Non questa volta, no; mi diceva di interrompere il tutto, mi diceva: E' follia.

    Un altro tuono deflagrò. Mi girai e vidi il bosco che si chiudeva dietro di me, voleva inghiottirmi e allungò la presa. Scattai con un colpo di spalle ed iniziai con foga a percorrere il sentiero. Una scarica di rombi mi premette vicino. Ero accecato e disperato, e il fiato mi si troncava. Mi rigirai e vidi un groviglio di rami taglienti che si ritirò divorandosi da solo.

    Di nuovo quella voce, ondulata, che mi chiamava per nome: Mars... lascia perdere... Allora accelerai. Continuava a seguirmi, ma oramai il suo eco era lontano. Un tuono distante esplose. Mi sentii libero, mi sentii uscito da qualcosa, ma continuavo comunque a correre. Le gambe non mi reggevano più, cedevano di vigore, ma con la stessa incontrollabile decisione continuai la fuga, preda della cecità frettolosa. Sterzai. Sentii il piede scontrarsi con qualcosa e poi la gravità sembrò lasciarmi. Precipitai. Massi apparivano davanti a me e mi colpivano. Ero in un turbine di vuoto e botte. L'ultimo però lo vidi bene, in fondo, stabile e levigato e pronto ad accogliermi. Picchiai la testa. Un suono acuto, ma fine, mi distaccò da me. Il mio corpo era lì, disteso, a terra, immobile. Un'infinita vastità di cime arboree mi sovrastava e la pioggia, incessante, cadeva. Quella dove mi trovavo era la terra di Chaintrus, possedimento di Ombra.

    Ero svenuto e un quarto di faccia era immerso in una pozzanghera, dove il mio sangue ci scivolava dentro assieme ai miei capelli. Ricordo che quando rinvenni tossii con forza e sputai. Realizzai che ero fuggito, fuggito a caro prezzo. La testa mi faceva male e il corpo era dolente e gelido. Respiravo lentamente, muovendo la superficie di quella pozza, costretto ad assaporarne il suo gusto ferruginoso. Il cielo era più luminoso e il grigiore si era diluito; era mattina. Cercavo di rimirare lo scorcio del mio viso riflesso che veniva manomesso dalla pioggia. Mi domandavo quanto fossi evidentemente cambiato agli occhi del cielo e se, chi da tempo non mi viveva, potesse convenire con ciò che mi chiedevo. Nello specchio nel quale mi osservavo, tenevo in mano le carte che il tempo mi aveva distribuito e con le quali ero conscio di essere riuscito ad arrivare alla manche in cui ogni secondo non lasciava presagire il successivo. Comunque, ero andato avanti, apparentemente non interessandomi di come lo avessi fatto, mi ero confrontato con le vie impervie riservatemi dal cammino, e spesso, e volentieri, ero vacillato nella consuetudine della ritirata, ma prontamente, e fortunatamente, l'avevo respinta. Mi ricordai di cosa mi disse un anziano dagli occhi luminosi:

    Ragazzo, sarà un'impresa alquanto dispendiosa e mutevole, e ricorda che solo allorquando renderai luce alla vera natura che determina la giusta causa, scorgerai Circubovum, una grande corazza che grava su di un tappeto circolare. La giusta causa, è difficile sapere ciò che è giusto. Di certo rimanendo lì, fermo, non lo avrei scoperto, dovevo riuscirmi ad alzare. Così puntai palmi e ginocchia, ed iniziai ad issarmi. Anche questo era difficile. Con fatica riuscii a mettermi in ginocchio. La testa mi pulsava, e portando la mano in volto sentii un grosso bernoccolo, ma il sangue pareva essersi fermato. Rincuorato da ciò, mi alzai lentamente su due piedi inarcando la schiena, e mi spinsi con il pugno. Mi faceva male, mi faceva male un po' tutto. Inspirai e sbuffai via il dolore. Funzionò leggermente. Era stata una corsa da matti, ma era stata anche necessaria. Mi ripresi stando alzato e mi tastai per controllare se tutto fosse a posto. Nulla di grave. Le precipitazioni stavano diminuendo gradualmente insieme alla sensazione di rigido, che si sciolse pian piano, nonostante ero fradicio e a brandelli.

    Mossi qualche passo in avanti, ma sentii il bisogno di poggiare un braccio su un tronco. Mi tolsi tunica, maglia, uose, stivali e pantaloni, rimanendo quasi nudo. I vestiti erano stralciati e di un corvino sbiadito. Mi rimproverai di essermi buttato con troppa incoscienza nella precedente fuga. Avevo sperato nella buona riuscita chiedendo solo aiuto alla sorte. In quell'occasione, si, si era rivelata amica, ma pagai in pegno dolorosi lividi. Strizzai gli indumenti come meglio potei e mi rivestii in fretta.

    Cercai di concentrarmi sullo scorrere del sangue nelle vene per darmi una sensazione di caldo. Dovevo continuare a camminare, così, quando necessario, mi appoggiavo ai tronchi degli alberi per poi continuare a muovermi. Più andavo avanti e più diventava facile. Smise pure di piovere. Circubovum, volevo trovarlo.

    Continuai nel bosco e decisi di prendere prudentemente un pendio accompagnato dal sole che, pigro, si alzava dietro il manto nuvoloso assomigliando ad una gardenia. Avanzai parecchio nella discesa, fino a che giunsi ad una piana dove la vegetazione si faceva più fitta e, facendomici spazio, percorsi una lunga distanza fino ad arrivare ad un costone. Era scosceso, così mi fermai per riposare, sedendomi su una roccia che si affacciava sul panorama. Circubovum, per quanto non ne sapessi, pareva non essere in vista. Si vedeva un mare verde, solo foresta che saliva e scendeva fino all'orizzonte. In compenso, l'odore della clorofilla pervadeva e la temperatura iniziava a divenire gradevole. Ispezionai più minuziosamente vedendo nelle vicinanze una radura dove si innalzava una rarità. Doveva essere un biancospino, un biancospino diverso. Era come se fosse stato escluso dagli altri alberi. Solo, alto ed umile. Quello sarebbe stato il luogo ideale per riposare bene. Non era lontano.

    Tirai un sospiro di coraggio e ripartii. Scendendo ripensai alla fuga, a quella voce che mi rincorreva nella tempesta:

    Mars... non farlo... lascia perdere... non farlo... Mars... mi disorientava il ricordo. Continuai. Rivedevo quei lunghi rami che cercavano di avvinghiarmi; rivedevo la paura sotto i forti bagliori; in quella notte rivedevo finissime dita che volevano strozzarmi; quel buio, quell'essere preda, il fiato strozzato, di nuovo la voce, la pioggia violenta, i massi, la pozzanghera, il sapore di ferro in bocca, il freddo addosso, i miei pensieri, Circubovum... una visione mi salvò; il biancospino era bellissimo. La radura arrivò prima del previsto, rapendomi dolcemente dalle periferie del rimembro. Il cielo, seppur ancora folto di nubi, sembrava donargli qualche raggio audace. Le goccioline scendendo dalle foglie verdi lo accarezzavano, illuminandolo di cristallino. Mi avvicinai avidamente ad esso. Lisciai le foglioline stringendole affettuosamente tra le dita. Erano profondamente incise e dentellate, un po' come il mio animo. Dei rami fanciulli si proteggevano sotto altri, sorvegliando i loro germogli, e una gemma stava per sbocciare il bianco. Ne ero profondamente attratto. Allungai la mano, distendendomi in avanti, spingendo senza badare e flettendo i rami. Volevo solamente toccarla, arrivare a lei, alla gemma, ma l'albero non me lo permise. Una spina occulta si scagliò contro di me. Scivolò in obliquo tra la carne ed uscì di lato, penetrandomi il petto. Uscii a molla dalla chioma flessa ed imprecai. Non feci in tempo a realizzare l'entità del dolore che un suono appuntito, mi pervase la mente.

    Premendomi le tempie e urlando dal dolore, mi accasciai a terra. Quel fischio continuava a invadermi la mente e non smettevo di dimenarmi dal dolore. Smorfie inumane mi contorcevano il volto. Ero sfiancato, ma riuscii a mettermi supino e ad aprire gli occhi. A fatica credetti a cosa provocava quell'immane sofferenza. Un uomo, sulla cima del biancospino, faceva volteggiare nell'aria un flauto color perla, simile ad un bastone, che scintillava sotto i raggi. Stava come seduto su di una sedia invisibile, in equilibrio, con un piede sull'esatto apice della pianta, e con l'altra gamba accavallata. Portava delle bislunghe scarpe rosse, lucide, come fossero caramellate. Pantaloni arancio attillati e soprabito grigio piombo, da cui uscivano i pizzi a lama di una camicia cromata, coprivano quel corpo longilineo. Aveva un viso magro, dalla carnagione cadaverica, e labbra viola che sorridevano di sbieco. Gli occhi erano coperti da una frangia para e castana che cadeva rigonfia sotto un lungo cilindro nero, diritto sul suo capo.

    Smettilaa! Fallo smetteree! glielo vomitai addosso.

    Con una voce rauca, che sembrava soffiare via le parole, mi domandò:

    Peeer-cheeé?

    Impazzirò! Mi ucciderai! Mi uccideraii! rigridai, portandomi

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