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Notte di sangue (eLit): eLit
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E-book328 pagine4 ore

Notte di sangue (eLit): eLit

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Info su questo ebook

Wings in the night 13

Lilith non ricorda altro se non che la sua vita è in pericolo. Qualcuno le sta dando la caccia per eliminarla. Quando Ethan la trova nascosta nel suo ranch, capisce subito chi o meglio che cosa è. Non l'ha mai dimenticata come non ha mai dimenticato il luogo in cui entrambi erano reclusi: una struttura segreta della CIA dove esseri umani vengono trasformati in vampiri pronti a uccidere a comando. Ethan si è ribellato ed è riuscito a fuggire diventando una leggenda per chi è rimasto prigioniero. Anche per lei. Perché a poco a poco Lilith riacquista la memoria e ricorda come il governo abbia cercato invano di piegare la sua volontà per costringerla a collaborare. E ora tutti e due sono braccati da sicari senza volto, ma non possono rinunciare a una missione suicida: tornare a liberare i compagni di prigionia. Per fortuna in aiuto di Lilith e Ethan arrivano proprio le creature che tutti temono.
LinguaItaliano
Data di uscita31 ago 2018
ISBN9788858990193
Notte di sangue (eLit): eLit
Autore

Maggie Shayne

RITA Award winning, New York Times bestselling author Maggie Shayne has published over 50 novels, including mini-series Wings in the Night (vampires), Secrets of Shadow Falls (suspense) and The Portal (witchcraft). A Wiccan High Priestess, tarot reader, advice columnist and former soap opera writer, Maggie lives in Cortland County, NY, with soulmate Lance and their furry family.

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    Anteprima del libro

    Notte di sangue (eLit) - Maggie Shayne

    978-88-5899-019-3

    1

    La prima cosa che pensai, appena sveglia, fu che forse ero morta. Non passò molto tempo prima che mi rendessi conto di quanto fosse veritiera quella prima intuizione apparentemente irrazionale. Ne divenni consapevole nel momento stesso in cui ripresi conoscenza. Non aveva senso. Non era basata sulla razionalità. Era semplicemente lì.

    Devo essere morta.

    E rapidamente com'era venuto, il pensiero svanì.

    Non ero morta. Avevo freddo. Ma era uno strano tipo di freddo, perché non mi faceva rabbrividire o sentire a disagio, era solo un dato di fatto. Ero fredda. E anche bagnata.

    Aprii lentamente gli occhi e battei le palpebre per liberarmi degli ultimi residui di sonno, perché dovevo aver dormito. Era buio, ma non era notte fonda. Avevo questa sensazione, anche se in quel momento non sapevo bene come potessi distinguere un buio dall'altro. Non era qualcosa che ritenevo naturale per una persona normale e di certo non mi era mai capitato prima.

    O invece sì?

    Stranamente, non riuscivo a ricordare, ma ignorai il vago senso di malessere che mi procurava quel pensiero e mi concentrai invece sugli immediati dintorni. Sotto di me c'era della terra. Solida, umida ma non fangosa. Qua e là qualche chiazza di sanguinella e tarassaco lottava per sopravvivere e sembrava orgogliosa del proprio successo in quelle condizioni avverse. D'accordo, ero stesa su un terreno. Non un terreno piatto, ma un pendio che digradava in modo irregolare verso una strada asfaltata. E dall'altro lato della strada, un altro terreno che risaliva, speculare a quello su cui giacevo. E al di sopra di entrambi... un soffitto?

    Un ponte.

    Ero su un terreno inclinato, sotto un ponte.

    Ai due lati del ponte, la pioggia si riversava dai rubinetti aperti del cielo, allagando la strada a eccezione della parte coperta.

    Perché, mi chiesi, sono stesa all'aperto, sulla terra nuda, al riparo di un ponte, sotto la pioggia, di notte?

    Nuda.

    Riportando l'attenzione sugli oggetti nelle immediate vicinanze, notai i cartoni umidi che mi coprivano come una coperta di fortuna e mi resi conto che, a parte questi, non indossavo nulla. Avvertivo un odore di cartone bagnato e, quando me ne liberai, sentii lo stesso odore sulla mia pelle.

    Cominciai a tremare. Non per il freddo, perché il freddo non mi dava fastidio e questo mi preoccupava. Forse i miei nervi non erano del tutto a posto, in ogni caso ero spaventata e sentivo il panico scorrermi nelle vene come acqua gelida. Chiusi gli occhi, raddrizzai la spina dorsale, trattenni il fiato e mi dissi: «Calma. Stai calma e cerca di venirne a capo. Non può essere così difficile».

    Annuendo in risposta a quel consiglio, aprii nuovamente gli occhi e questa volta guardai il mio corpo. Ero alta e magra. Atletica addirittura, pensai. O forse ero solo malata. Eppure non mi sentivo malata e il mio corpo sembrava snello più che patito.

    In effetti mi sentivo...

    Forte.

    Distesi le dita per vedere se funzionavano, poi le richiusi. Osservai le mie braccia asciutte, le gambe lunghe, la vita sottile, i fianchi quasi delle stesse dimensioni e i piccoli seni, tondi e sodi, come se non li avessi mai visti. Poi notai una ciocca di capelli che mi scendeva sulla spalla e l'afferrai, sollevandola per guardarla e annusarla.

    Era color rame, il tipo di capelli che si definisce castano ramato, pensai, ed erano ondulati e lunghissimi, proprio come tutto il resto di me. Ma, così come il resto di me, avevo la sensazione di non averli mai visti prima.

    Mi alzai per verificare quanto fossero lunghi i capelli e anche per muovermi un po'. Forse, se mi fossi svegliata del tutto, la nebbia si sarebbe diradata dalla mia mente e avrei saputo chi ero e che cosa ci facevo lì, nel mezzo del nulla, alle soglie della notte, nuda e sola.

    Così mi misi in piedi, notando che la chioma mi arrivava fino ai fianchi, finché un rumore distolse la mia attenzione. La testa mi scattò verso quel suono, il mio naso si arricciò e mi resi conto che fiutavo l'aria umida. Gli occhi si socchiusero e la mente pensò: coniglio. E allora lo vidi che saltava da un cespuglio all'altro, in lontananza. Forse a ottocento metri da me.

    Non era possibile che riuscissi a vedere un coniglio a quella distanza, al buio, sotto la pioggia, e men che meno che potessi identificarlo dall'odore.

    Eppure era così e, mentre i miei sensi si risvegliavano a uno a uno, mi resi conto che potevo udire molte cose e fiutarne ancora di più: il frullio d'ali di un uccellino, l'odore delle foglie nel suo nido, il volo silenzioso di una falena e l'odore della polvere sottile che rivestiva il suo corpo, il gorgoglio di un ruscello da qualche parte, nascosto alla vista, l'odore dell'acqua e perfino i pesci che vivevano nelle sue profondità. Fiutai l'autunno. La fragranza delle foglie in decomposizione era così pungente, meravigliosa e suggestiva da coprire quasi tutto il resto. Era una fragranza confortante. Udivo il rumore di auto che non erano ancora in vista e sentivo l'odore dei gas di scarico.

    Mi accigliai e mi premetti le dita sulla fronte. «Che cosa sono?» mormorai.

    Poi scorsi le luci, fari d'automobile, mentre un veicolo si avvicinava sulla strada sottostante. Cominciai a scendere con cautela lungo il pendio. I miei piedi sembravano estremamente sensibili a ogni sassolino, aspiravo l'aria attraverso i denti, assaporando tutti gli odori che recava.

    Mi fermai a metà strada, proprio mentre l'auto passava sotto il ponte, e udii lo stridio dei freni quando il veicolo si fermò bruscamente, a circa tre metri dal punto in cui mi trovavo.

    Non le andai incontro. Rimasi lì, nuda, in attesa. Provavo un formicolio alla nuca, una sensazione di disagio. Come d'allarme.

    L'auto era nera, grande e nera. Un SUV, pensai, uno di quelli costosi. Il mio sguardo scivolò sullo stemma frontale e vidi una corona d'alloro che circondava uno scudo con bande colorate. Pensai che dovevo conoscerlo, anche se non sapevo bene perché. Mentre guardavo, indecisa se avvicinarmi o fuggire, il finestrino dalla parte del guidatore, che era oscurato, si abbassò leggermente. Una voce maschile ordinò: «Sali».

    Il formicolio alla nuca si fece gelido. Rabbrividii, e ogni fibra del mio essere si tese. Mi sentivo come se dentro di me si stesse caricando una molla prima che potessi spiccare il volo, anche se non sapevo perché provassi l'urgenza di fuggire. Ignorai l'impulso e rimasi immobile.

    Poi, attraverso la fessura del finestrino, vidi spuntare la canna nera di una pistola puntata verso la mia testa. La voce questa volta suonò gelida. «Ho detto sali.»

    La molla che si era caricata dentro di me scattò di colpo. Il mio corpo si mise in moto come se fosse azionato da una forza esterna. Mi voltai e spiccai un balzo, volando dalla banchina al selciato oltre il ponte, alle spalle dell'auto, dove la pioggia scrosciava. I miei piedi avevano appena toccato il manto stradale che già mi rimettevo in moto, lanciandomi in una corsa sfrenata, a una velocità che mi lasciò attonita.

    Udii gli pneumatici girare dietro di me, poi gli spari, tre, così forti che pensai mi si spaccassero i timpani, ma non avvertii alcun dolore. I proiettili, sicuramente diretti contro di me, avevano mancato il bersaglio. E quando arrischiai un'occhiata oltre la spalla, vidi i fari dell'auto allontanarsi sempre di più mentre continuavo a correre.

    Tutto questo non aveva alcun senso. L'auto mi dava la caccia, accelerando alle mie spalle sullo stesso tratto di strada. E io ero a piedi e correvo sotto la pioggia battente, eppure la stavo distaccando.

    Poi, istintivamente, svoltai a sinistra, lontano dalla strada asfaltata, e corsi sul terreno accidentato, attraverso un campo aperto, rigoglioso d'erba e molto più morbido sotto i piedi. Corsi finché l'auto non sparì alla vista e poi continuai a correre perché provavo un'euforia che non riuscivo a spiegarmi.

    Superai massi e grossi tronchi caduti che incontravo sulla strada. Saltai un ruscello che avevo udito da lontano, aspettandomi di atterrare nel mezzo, invece misi piede sulla riva opposta. Mi affiancai a una cerbiatta che avevo spaventato e, mentre lei dilatava le narici e fuggiva agitando la corta coda bianca, la superai e continuai a correre.

    Dio, che cosa stava succedendo? Com'era possibile?

    Alla fine, quando cominciai a sentirmi stanca, mi fermai e cercai nuovamente di ricordare chi e che cosa fossi, ma non ci riuscii.

    Tabula rasa. La frase echeggiò nella mia mente. Una lavagna vuota. Era come se tutto quello che sapevo e che ero stata prima fosse stato cancellato.

    Così, invece di cercare le risposte dentro di me, mi guardai intorno, pensando che avrei avuto bisogno di cibo, di un riparo e probabilmente di vestiti, se volevo sperare di sopravvivere abbastanza a lungo da scoprire qualcosa di più. Queste erano esigenze immediate ed erano più facili da affrontare del vuoto che regnava nella mente. Solo pensarci mi portava sull'orlo del panico e avevo la sensazione che, se avessi ceduto, non sarei tornata indietro.

    Ero arrivata nel mezzo di una foresta, un piccolo paradiso boscoso, con il suolo cosparso di foglie cadute e gli alberi ammantati di ruggine, rosso e oro. Mi incamminai, seguendo i miei sensi fino al margine, dove potevo scorgere quello che c'era oltre.

    Un altro tratto di strada che curvava verso quella che sembrava una piccola città. Vidi un alto campanile a punta. Vidi diversi fienili smisurati e una miriade di piccole case. In alcuni punti erano raggruppate insieme, in altri più distanziate. Il fumo s'innalzava dai camini e fiutai l'odore della legna che bruciava e dell'olio delle lampade. Ma lo sguardo mi cadde su un luogo particolare, un luogo situato ben oltre un gruppo di case. Non sapevo perché. Era lontano. Una casa rossa con le imposte bianche. Aveva un granaio rosso e una distesa di terra verde tutt'intorno, recintata da uno steccato di legno bianco.

    A un tratto ebbi un flash: un uomo mi baciava. Fui percorsa da emozioni sconosciute, potenti e meravigliose. Le sue labbra sulle mie; le mie mani tra una massa di capelli scuri.

    Poi, altrettanto rapida quanto era arrivata, l'immagine scomparve.

    Volevo che tornasse. Ne volevo di più. Ma si era ritirata nelle acque nere e profonde della mia mente.

    Con un sospiro di delusione riportai l'attenzione sulla piccola fattoria rossa. Era quello il luogo che mi attirava, pur non sapendo perché. Un altro posto sarebbe stato più facile da raggiungere. Quello che mi aveva colpito e che mi teneva nella sua morsa era ben oltre il paese, situato su una collina e visibile solo dall'angolazione in cui mi trovavo. La cittadina era a portata di mano. Quel posto... quel posto era lontanissimo. Isolato. Solitario.

    Eppure mi chiamava.

    Dovevo andare. E non avevo idea del perché mi sentissi costretta.

    Non avevo idea nemmeno del perché avessi provato una sensazione di panico quando l'auto si era fermata, riflettei. Eppure si era rivelata giusta. Quindi il buonsenso mi diceva che dovevo fidarmi delle mie sensazioni. Se i miei sensi si erano in qualche modo acuiti oltre la norma – come sembrava certo, dal momento che ero in grado di vedere, udire e annusare cose che prima non coglievo – e se anche la mia velocità era aumentata, tanto da poter superare un cervo e una Cadillac...

    Sì. Una Cadillac Escalade, ecco che cos'era l'auto. Sorrisi, leggermente soddisfatta di riuscire a ricordare piccoli frammenti del mio passato.

    E forse, se gli altri sensi e la forza fisica erano in qualche modo potenziati, allora anche il mio intuito poteva essere più acuto del solito. Anche se in quel momento non avrei saputo dire quale fosse stato il mio solito.

    Così mi incamminai lungo il declivio erboso, lontano dalla magnificenza autunnale dei boschi, verso la strada di campagna e poi, tenendomi sul terreno più morbido, continuai a camminare, nuda, verso la piccola città. E mentre camminavo, cominciai a prendere coscienza di una fame urgente, spasmodica, quale non avevo mai provato prima.

    Ventun anni prima

    Serena batté le palpebre per liberare la mente dalla nebbia indotta dai farmaci e guardò l'uomo in camice bianco, con lo stetoscopio al collo, che stava leggendo la cartella clinica.

    «Dov'è la mia bambina? Posso vederla, ora?» Poi sorrise attraverso la nebbia. Dio, devono avermi dato un bel po' di droghe, pensò. «Ho detto bambina anche se non lo so di sicuro, ma mi aspettavo che fosse una femminuccia. È sana e bella? Quanto pesa? Perché non me l'hanno ancora portata?»

    Il medico abbassò la cartella, la rimise al suo posto sul gancio ai piedi del letto, poi si avvicinò e le diede un colpetto sulla mano. Non stava sorridendo.

    Serena provò una stretta allo stomaco e a un tratto non voleva ascoltare quello che stava per dirle.

    «Era una bambina, sì. Ma... mi dispiace molto, Serena. La sua bambina è nata morta.»

    Fu come se una mazzata la colpisse al petto, prosciugandole tutta l'aria dai polmoni mentre ricadeva contro i cuscini. Si strinse una mano al petto perché le pareva di non riuscire più a inspirare e il medico le premette una mano fredda sulla nuca, spingendole la testa in avanti.

    «Tenga giù la testa e respiri. Respiri.» Premette un pulsante sulla parete dietro il letto e ordinò: «Qualcuno venga subito», dopodiché tirò fuori qualcosa dalla tasca e lo mise sotto il naso di Serena.

    L'odore dell'ammoniaca l'assalì, bruciante, costringendola ad ansimare e a distogliere bruscamente il capo. Dopo un istante respirava regolarmente. Dentro, fuori. Respirava. Come se non fosse successo nulla.

    «Così va meglio.» Il medico sollevò lo sguardo quando la porta si aprì ed entrò un'infermiera. Giovane e bionda, graziosa.

    Serena le lanciò una rapida occhiata prima di riportare lo sguardo sul medico. «È una bugia» protestò. «È una bugia. La mia bambina non è nata morta.»

    L'infermiera si avvicinò. «So quant'è difficile. Mi dispiace tanto.»

    «La mia bambina non è nata morta» ripeté Serena, fissando il medico negli occhi. «L'ho sentita piangere. L'ho sentita piangere.»

    «Era sotto sedativo» replicò lui, senza alcuna traccia di comprensione nel suo tono pragmatico. «Non è raro che ci si illuda di sentir piangere il neonato. So che è difficile da capire, ma è piuttosto normale.»

    «L'ho sentita piangere» ripeté Serena. Allora si accorse che l'infermiera bionda evitava di incontrare il suo sguardo.

    «Le prescriverò un sedativo» disse il medico, come se lei non fosse presente nella stanza, poi tornò ai piedi del letto, prese la cartella e vi scrisse qualcosa. «Dateglielo subito.»

    Serena si raddrizzò sul letto. «Non ho bisogno di un fottuto sedativo! Ve l'ho detto, ho sentito la mia bambina che piangeva. L'ho sentita!» Lanciò un'occhiata disperata all'infermiera. «Non voglio un sedativo. Voglio un telefono. Voglio la polizia. Voglio sapere che cos'avete fatto di mia figlia.»

    «Sua figlia è nata morta» ripeté il medico.

    Incontrando lo sguardo di Serena, l'infermiera scosse il capo in modo così impercettibile che lei temette di averlo solo immaginato.

    «Prenda il Valium» ordinò il medico.

    L'infermiera – la targhetta con il nome diceva Maureen Keenan, infermiera diplomata – si affrettò verso la porta. Serena si chiese se avesse visto davvero il silenzioso messaggio che le aveva trasmesso e se il medico se ne fosse accorto.

    Non c'era modo di saperlo. Subito dopo uscì anche lui.

    Non appena la porta si fu richiusa alle sue spalle, Serena ispezionò la stanza d'ospedale, ma non vide telefoni. Dopo essere scesa dal letto, trasalendo per il dolore che avvertiva in tutto il corpo, andò alla finestra e aprì le imposte per guardare fuori.

    Il sole era basso nel cielo. Il parcheggio era proprio sotto la finestra. Si trovava al secondo piano.

    Dio, dov'era la sua bambina?

    Udendo la porta che si apriva, si affrettò a tornare a letto.

    L'infermiera Keenan era tornata con una siringa nelle mani coperte dai guanti. Si avvicinò al letto, si chinò e afferrò il braccio di Serena.

    «Davvero, non ne ho bisogno, infermiera Kee...»

    «Maureen. So che non ne ha bisogno» sussurrò la giovane donna. «Ma adesso ascolti e faccia esattamente come le dico. Voglio che aspetti un'ora. Finga di dormire, perché questa roba dovrebbe stenderla, capito?»

    «Ma che cosa sta succedendo? Dov'è la mia bambina?»

    «Non lo so. So solo che deve andarsene al più presto da qui. Tra un'ora, si cali dalla finestra. Si appenda al davanzale e si lasci andare, così non sarà un grande salto. Poco più di un metro e mezzo. Troverà uno zaino con tutto quello che le occorre tra i cespugli. Un'ora, poi vada. Fino ad allora finga.»

    Si udirono dei passi in corridoio e Maureen conficcò l'ago nel cuscino, premendo lo stantuffo. «Adesso è sedata. C'è un orologio laggiù.» Inclinò leggermente il capo. «Un'ora, poi vada. La sua vita dipende da questo.»

    La porta si aprì e il medico entrò nella stanza. Serena chiuse gli occhi e lasciò ricadere la testa sul cuscino come se fosse completamente rilassata, sforzandosi di respirare in modo lento, profondo e regolare.

    «Le ha dato problemi?»

    «Solo un po', ma alla fine sono riuscita a convincerla. Credo di piacerle.»

    Gli occhi grigi, freddi e impersonali del medico erano fissi su di lei. Serena poteva sentirli anche se aveva le palpebre abbassate.

    «Non dovrebbe darci altri problemi per stanotte» disse il bastardo.

    «È dura per lei. Poverina, insiste nel dire di aver sentito piangere la bambina. Che cosa crede che ci sia dietro, dottore?» domandò l'infermiera.

    «Era presente anche lei, Maureen.»

    «Be', non nella stanza. Voglio dire, ero nel reparto ma non...»

    «E allora? Ha sentito piangere una bambina?»

    «No, dottor Martin» rispose in tono incolore. «Non ho sentito nulla.»

    Serena sapeva che era una bugia. Lo sapeva d'istinto. Maureen Keenan sapeva. Anche lei aveva sentito piangere la bambina e sapeva. E voleva aiutarla.

    Non si stava immaginando tutto. Non soffriva di allucinazioni, non si illudeva e non era sotto l'effetto di droghe. Sua figlia era viva. Era viva! E lei l'avrebbe trovata, a costo di impiegarci il resto della vita.

    2

    Oggi

    Ogni sera il primo compito di Ethan era accudire Scilla e Cariddi. I cavalli da tiro erano abbastanza grandi da poterli definire mostruosi, anche se forse era un po' esagerato chiamarli come due mostri marini.

    Sorrise all'idea di quei due animali che sorvegliavano la sua solitudine come i loro omonimi mitologici facevano la guardia allo stretto di Messina.

    Mentre avanzava nel buio che si stava infittendo, lungo il vialetto tortuoso che conduceva dalla casa alla stalla, udì il loro benvenuto dall'interno. L'avevano sentito arrivare. Allo stesso modo avrebbero avvertito un pericolo e avrebbero lanciato l'allarme scalpitando e sbuffando. Sembravano capire che c'era qualcuno – più d'uno in realtà – che lo voleva morto.

    Era quasi arrivato alla stalla, immerso nei suoi pensieri, quando si fermò e sollevò il capo, cogliendo distintamente l'odore di un'altra creatura della sua specie.

    Un altro vampiro. Vicino.

    Un Selvaggio o un Purosangue come lui? Uno addestrato per uccidere, inviato per ucciderlo, dato che tutti i fuggitivi venivano braccati ed eliminati?

    Rimanendo immobile, affinò i sensi per sondare la presenza e avvertire qualsiasi segno di minaccia. I cavalli non scalpitavano; non sbuffavano nervosi come avrebbero fatto in caso di pericolo. Perché?

    La presenza era femminile e l'unica emozione che veniva da lei era paura. Ethan sapeva che anche lei percepiva la sua presenza, ma non deliberatamente. Non analizzava le onde radio per cogliere la sua vibrazione. Si era imbattuta in lui per caso. E ora che l'aveva trovato, non stava sondando la sua mente come lui aveva imparato a fare sin da quando aveva rubato il sangue dai laboratori del Centro e si era trasformato, due anni prima.

    Sebbene non avvertisse alcun accenno di pericolo o di minaccia, staccò il forcone dal chiodo appeso al muro mentre entrava nel fienile. L'avrebbe conficcato a fondo e l'intrusa sarebbe morta dissanguata ben prima che l'alba le portasse il sonno e il suo potere terapeutico.

    Ethan avanzò, riempiendosi le narici del profumo gradevole di fieno fresco e di buona qualità, di quello dolce dell'avena e dell'odore carico e pungente dei cavalli.

    Scilla sbuffò dolcemente, agitando la coda. Non era un allarme, ma un segnale che qualcosa l'aveva irritata. Era eccitata. Ansiosa, forse, ma non spaventata.

    Tranquilla, bella, le comunicò con la mente Ethan. So già che c'è qualcuno qui. Solo non so esattamente... dove.

    Girò un angolo e incontrò gli occhi della giumenta, che scosse la criniera, poi spostò lo sguardo e mosse la testa su e giù.

    Lui annuì, poi guardò il box accanto, dove Cariddi stava masticando una manciata di fieno come se non avesse un pensiero al mondo. Mi sei di grande aiuto, pensò Ethan. Ma sapeva che, se ci fosse stata una reale minaccia, lo stallone avrebbe buttato giù a calci la porta del box. Invece si limitò a battere le palpebre prima di tornare al suo pasto.

    Ethan passò il forcone nell'altra mano e avanzò senza fare rumore verso la porta rossa del ripostiglio dei finimenti. Era chiusa. Lei era lì dentro. Più si avvicinava alla porta, più ne era sicuro.

    Guardò il forcone che impugnava e si chiese quali armi potesse avere con sé l'intrusa. Una pistola? Una sorta di dispositivo a elettroshock, come quelli che l'avevano costretto a usare contro altri prigionieri innocenti al Centro? Una lama, affilata come un rasoio e abbastanza grande da decapitarlo? Era una follia entrare nel ripostiglio armato solo di un forcone?

    Del resto, non vedeva altra scelta. Se uno dei Selvaggi l'aveva trovato, doveva ucciderlo prima che divulgasse la sua esistenza e quella del suo genere a tutti i suoi simili. E se era un assassino mandato dal Centro, valeva lo stesso ragionamento: uccidere o essere uccisi.

    Non dovevano trovarlo. Si era ricostruito una vita e intendeva mantenerla, almeno abbastanza a lungo da scoprire che cosa fosse successo a suo fratello.

    Perché James era sparito e ancora Ethan non sapeva come o perché. Alcuni dei prigionieri dicevano che era stato trasformato in vampiro e mandato in missione per conto dell'organizzazione a cui tutti dovevano la loro vita attuale, la Divisione per le Indagini Paranormali. Ma Ethan preferiva credere che suo fratello fosse fuggito e sopravvissuto, proprio come aveva fatto lui. E ora lo scopo della sua vita era trovarlo e assicurarsi che restasse libero e al sicuro.

    Ma in quel momento doveva vedersela con una vampira in agguato.

    Lentamente, aprì la porta del ripostiglio.

    Lo sguardo gli cadde proprio su di lei, infallibile come se quel suo senso extra si fosse sintonizzato automaticamente e all'istante con l'aura della vampira. Vide una massa di riccioli ramati e una pelle chiara, rosata. Sedeva sul pavimento, con la schiena premuta in un angolo e le ginocchia raccolte, la testa china, i lunghi capelli che coprivano tutto a eccezione di una porzione di natica, un frammento di ginocchio qui, uno stinco là, un piede nudo che sporgeva da sotto.

    Ethan aveva conosciuto una sola donna con i capelli di quel colore in tutta la sua vita. Allora lei non era una vampira, ma solo una dei Prescelti, un'altra prigioniera allevata al Centro. Proprio come lui. Una Purosangue.

    La donna alzò lentamente il capo. Sollevò una mano lunga e sottile per scostare gli splendidi capelli dal viso e lo trafisse con quegli smeraldi luminosi che erano i suoi occhi.

    Ethan sostenne quello sguardo, tentando di leggere i suoi pensieri aggrovigliati e confusi e infine parlò: «Sei venuta per uccidermi?».

    Le lunghe ciglia, folte come felci scure, si abbassarono a velare gli occhi. «Perché dovrei volerti uccidere?»

    Poi le ciglia si sollevarono e la donna incontrò il suo sguardo con un impatto che lo colpì al cuore. Sentì paura e anche un'infinità di altre sensazioni che vorticavano nelle profondità dei suoi occhi. Ma una cosa non c'era ed era il riconoscimento che si era aspettato.

    «Non ti conosco nemmeno» riprese. Poi, mordendosi il labbro inferiore, aggiunse: «Non conosco nemmeno... me. Né il mio nome».

    Mentre le parole rimanevano sospese tra loro, si alzò lentamente e rimase a osservarlo con le mani lungo i fianchi. Era nuda, bellissima e vulnerabile in tutti i sensi della parola. Non era la bambina selvatica che Ethan aveva conosciuto.

    Al Centro, era indomabile. Indistruttibile. Giorno dopo giorno contestava

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