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Anime perse
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E-book512 pagine7 ore

Anime perse

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Info su questo ebook

Emily è una giovane studentessa la cui vita scorre tranquilla finché non inizia a sognare una donna misteriosa, che invade i suoi ricordi e i suoi pensieri ogni notte.
Disorientata, cerca dapprima di placare le sue inquietudini isolandosi dagli amici, fino a trascorrere un’intera estate in solitudine. Poi, con la ripresa della scuola, la routine giornaliera la illude che tutto possa sistemarsi, che gli incubi finiranno e che lei potrà tornare a essere la ragazza spensierata che era. Fino a quando, un pomeriggio d’autunno, inoltratasi nel parco per leggere alcune pagine di un libro appena iniziato prima di rientrare a casa, viene aggredita da uno sconosciuto che mormora una strana litania. Nel tentativo di difendersi, Emily risveglia un arcano potere dormiente che le consente di impossessarsi della forza vitale dell’anima di qualsiasi essere, vivente oppure no. Senza averne contezza, è appena diventata una Raccoglitrice. E un altro Raccoglitore è nel parco quello stesso pomeriggio, erede di una delle più antiche e prestigiose casate di Irlanda: i Blawick.
Insieme dovranno fronteggiare e contrastare l’Ordine dei Cacciatori e l’Ordine della Rosa che temporaneamente alleati mirano a impossessarsi della Raccoglitrice e del suo potere.
Costretta a dover scegliere cosa è giusto e cosa è sbagliato, se vivere e assecondare un potere misterioso. È un’anima sola, incerta sulla strada da seguire, perché non si ha modo di ripararsi da una battaglia quando l’unico scudo, in realtà, è l’arma che sta per trafiggerti il cuore.
LinguaItaliano
Data di uscita31 ott 2020
ISBN9788832927412
Anime perse

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    Anteprima del libro

    Anime perse - Claudia Jeraci

    2016.

    Prologo

    Aprii gli occhi e mi ritrovai in un bosco.

    Fissai le cime degli alti alberi che mi circondavano, illuminati in parte da una flebile luce giallastra. Inalai il profumo della terra bagnata sotto il mio corpo stanco, incapace di muoversi e ascoltai il battito del mio cuore in crescendo. Qualcosa appesantiva la mia anima, come se un enorme masso mi fosse stato posto sul petto, spingendomi verso il basso, intrappolandomi nelle mie angosce e nelle mie paure. Quello strano presentimento mi costrinse a guardarmi intorno, timorosa e titubante, tormentandomi a tal punto da ansimare e tremare.

    Osservavo e respiravo.

    Pensavo e respiravo.

    Che cosa mi succede? Perché mi trovo qui?

    Imposi a me stessa di chiedersi se ciò che vedeva fosse reale, se ciò che pensava potesse essere frutto della paura. Costrinsi me stessa a muoversi, a reagire. Nella mia mente aleggiavano strane idee, ma una fra tutte era quella che più mi faceva rabbrividire: stava per accadermi qualcosa!

    Poi lo sentii, in mezzo ai cespugli, quel rumore che mi faceva scattare annientando ogni briciola di buonsenso, ogni supposizione. Tastai il terreno con le mani sino a raggiungere la corteccia di un tronco e, reggendomi a esso, mi rimisi in piedi.

    Un piccolo cerchio luminoso mi circondava, formato da alcune fiaccole conficcate nel terreno. Esse erano disposte in modo da aprirsi, delimitando un sentiero fra gli alberi di cui non vedevo la fine. Il buio avvolgeva ogni cosa, impedendomi di scorgere oltre ciò che era illuminato dalle fiamme delle fiaccole. Affondai le dita in quella corteccia ruvida, in parte ricoperta da muschio verde, e aspettai.

    Aspettai di sentirlo ancora, che qualcosa sbucasse dal nulla e mi attaccasse

    Aspettavo e respiravo.

    Percepivo solo il silenzio e il battito del mio cuore.

    Quando avvertii nuovamente lo stesso crepitio alle mie spalle, iniziai a correre, seguendo il sentiero tracciato davanti a me. Avrei voluto essere più veloce, potermi muovere con maggiore agilità, ma le mie gambe erano così pesanti e leggere allo stesso tempo che facevo fatica a metterne una davanti all’altra. Mi sentivo stanca e vuota, mi sentivo niente…

    Il buio che stava oltre quel fuoco fatuo mi faceva paura, eppure, continuai a porre il mio sguardo al suo cospetto, come se ne fossi attratta. Cercai invano qualcosa di famigliare, qualcosa che potesse condurmi nuovamente a casa o che mi facesse sentire al sicuro. Arrancai alla ricerca di un rifugio, con la paura costante che nel bosco ci fosse nascosto qualcosa e che presto sarebbe saltato fuori.

    Tutto a un tratto, sentii un brivido percorrermi la schiena, seguito da un rumore agghiacciante che mi costrinse a fermarmi. Avvertii il mio respiro farsi sempre più irregolare, sentii il mio cuore salire e scendere lungo il petto, mentre mi voltavo lentamente, guardandomi le spalle.

    Percepii uno strano calore risalire il mio corpo sino al petto, quando scorsi fra gli alberi una specie di ombra scura, senza volto... senza arti. Indietreggiai lentamente, osservandola con sgomento. Strinsi i pugni lungo i fianchi sino a farmi male, mentre il mio corpo era scosso dai tremori e pervaso dalla paura. Con scatto fulmineo essa mi oltrepassò, sollevando una nuvola di terra e foglie. Di colpo, altre figure come quella sferzavano nell’aria, costringendomi a voltarmi. Da ogni lato, esili macchie nere mi precedevano, seguendo il percorso tracciato dalle fiaccole. Le inseguii, arrancando sul terreno ricoperto da rami secchi e foglie ingiallite. Nel silenzio che mi circonda, avvertii solo il fruscio degli arbusti e il suono dei miei passi. A centinaia sfrecciavano nell’aria, facendo ondeggiare le fiamme, come se danzassero. La voglia di fermarmi, di nascondermi, m’indusse a esitare sui miei passi, ma l’impulso irrefrenabile di seguirle era troppo forte perché io potessi ignorarlo. Una gamba dopo l’altra e il vento gelido sul mio viso, mentre continuavo ad andare avanti.

    Tutto a un tratto, un rantolio si fece spazio in quel silenzio, facendomi accapponare la pelle: Rosaly.

    Un nome.

    Vidi una luce in lontananza, che si espandeva a ogni mio passo verso di essa, attirandomi. Qualcosa, però, mi bloccava il passaggio, impedendomi di andare avanti e facendomi quasi cadere. Abbassai lo sguardo per scoprire la ruvida corteccia di un tronco, ricoperta da edera verdastra e muschio. Questo era soffice fra le mie dita e fresco, per un attimo mi dette sollievo dal calore estenuante che sentivo sottopelle. Mi guardai intorno e scorsi altri tre grandi tronchi d’albero adagiati sul terreno in modo da formare tre semicerchi nei quali, al loro interno, delle foglie ingiallite disegnavano tre croci. Facendo attenzione a non inciampare scavalcai l’arbusto che giaceva sul terreno e le oltrepassai esitante. Ero catturata da quella luce, ammaliata dal suo calore che si univa al mio, rigenerandomi. Attirata oltre la coltre del bosco, mi ritrovai al cospetto di una radura ricoperta da rose color cremisi. Le fiaccole si allungavano per chilometri, tracciando un perimetro circolare e illuminando l’intero terreno. La luna alta in cielo sovrastava ogni cosa, risplendendo fiera. Dinanzi a me qualcos’altro però catturava la mia attenzione: le ombre erano disposte in cerchio dinanzi a quella luce. Quando mi accorsi di cosa esse stessero guardando in realtà, era tardi perché io potessi fuggire. Ero scossa dai singhiozzi, mentre le lacrime iniziavano a rigarmi il viso e le gambe a tremare. I miei occhi e la mia mente si erano presi gioco di me, facendomi sperare che la luce altri non fosse che un qualcosa di confortante al quale aggrapparsi e finalmente uscire dalle tenebre. Dinanzi a me, invece, non vi era altro che una pira in fiamme, alla quale era stato legato il corpo di una giovane donna. Non sarei riuscita a resistere ancora per molto a questo orribile scenario e in cuor mio sapevo di dover fare qualcosa per aiutarla, me lo sentivo fin dentro l’anima. Non potevo star lì ad aspettare che le fiamme la divorassero, così mi feci coraggio e m’inoltrai fra le ombre. Si erano disposte a centinaia lungo tutto il perimetro della radura e, al mio passaggio, si dissolvevano nell’aria, come se qualcosa in me le turbasse a tal punto da farle scomparire. Quando arrivai ai piedi della pira, sentii i lamenti strazianti della donna fin dentro le ossa, rabbrividii a ogni sua fitta di dolore. Il suo corpo, esile e fragile, s’intravedeva attraverso l’abito bianco che indossava, ormai tinto di nero e in parte consumato dalle alte fiamme che le danzavano intorno, cingendola quasi come se fossero delle braccia. Era stata legata dalla testa ai piedi a un tronco d’albero, al quale era affisso un fiore d’iris bianco latte, ancora intatto. I lunghi capelli biondi le si erano attaccati al viso e al collo, mentre goccioline perlate di sudore le grondavano sulla fronte e sulle braccia scoperte. Le fiamme non la stavano bruciando, bensì, la consumavano dall’interno, prosciugandola finché non avesse più avuto la forza per lottare. Non potevo far altro che assistere a quell’orrore, impotente e inorridita. Non vi era niente in quella radura che poteva aiutarmi a spegnere un fuoco così innaturale, così spaventoso.

    Fra i suoi lamenti strazianti, udivo un nome, lo stesso che avevo sentito nel bosco: Rosaly.

    Poi, un lampo di luce squarciò il cielo e fui investita da una vampata di calore che mi costrinse a indietreggiare e a coprirmi il viso con le braccia. In un istante calò il silenzio e il forte bagliore che mi aveva accecata cessò d’illuminare la radura. Quando tolsi le braccia dal viso scrutai il terreno in cerca della pira e della sua vittima.

    Vidi la donna riversa sul prato... immobile.

    Il suo corpo era intatto: nessuna bruciatura sulla pelle, nessun segno lasciato dalle fiamme, come se tutto ciò che avevo visto non fosse mai avvenuto.

    Mi avvicinai con cautela, senza far rumore.

    Il desiderio di sfiorarla, di assicurarmi che fosse ancora viva, m’impose d’ignorare l’istinto che mi suggeriva di scappare, di fuggire via. Allungai una mano per toccarla e quando le mie dita stavano per sfiorare la sua pelle pallida, quasi cerulea, ella mi afferrò per il polso con forza e rabbia, facendomi sobbalzare. I suoi occhi erano freddi e vacui, di un azzurro che sembrava quasi ghiaccio.

    Mi spinse con forza verso di sé, strattonandomi finché il suo viso non fu accosto al mio.

    Rimasi pietrificata.

    Vi ucciderò tutti!

    Poi il nulla e la luce fioca del mattino che entrava dalla finestra della mia camera.

    Di nuovo quell’incubo, pensai, spingendo i palmi delle mani sui miei occhi stanchi per la nottata trascorsa.

    1

    L’invito

    Irlanda.

    Terra di fuoco e magia, di antiche culture e tradizioni tramandate nei secoli. Luoghi incantati e storie sussurrate fra le pietre di castelli diroccati o di quelli che ancora resistono alle intemperie del tempo.

    È qui che sono nata e cresciuta, è qui che ho ascoltato vecchie leggende facendole mie parola, per parola sino a diventarne un tutt’uno.

    I verdi prati incontaminati, le scogliere a sud e le montagne nel freddo nord, i cavalieri e le fate dei boschi: non potrei vivere in un’altra isola se non questa. Casa è dove ti porta il cuore, dove sei felice sempre comunque vadano le cose.

    In quel freddo pomeriggio di fine ottobre, ricordai una vecchia leggenda che la nonna materna amava raccontarmi. Narrava di una donna, forte e coraggiosa, in grado di controllare il tempo. Ogni notte ella si recava in un vecchio cimitero abbandonato, fermava lo scorrere delle lancette e la caduta delle foglie, richiamando a sé creature che non conoscevano né tempo né luogo, solo eternità e solitudine: le anime dei defunti. Una in particolare a cui lei era profondamente legata e che non avrebbe mai abbandonato, anche a costo d’impedire all’eternità il suo corso: sua figlia. La piccola era una gioia per i suoi occhi e un assaggio di felicità per il suo cuore frantumato dalla perdita che aveva subito. Un dono e una maledizione, una lama a doppio taglio, poiché l’avrebbe potuta osservare per sempre, senza che la morte gliela portasse via ancora una volta, ma non l’avrebbe mai più potuta toccare o abbracciare, poiché di lei non era rimasto altro che cenere. Così come accade in un sogno, sei costretto a convivere con una realtà che non vorresti, che si beffa di te, servendosi delle tue forze per annientarti e delle tue debolezze per far breccia nei tuoi pensieri. Il tempo non fermerà quello che senti, anche se pensi di poterlo controllare, anche se pensi di poterlo fermare per goderti quegli attimi di felicità che ti vengono donati.

    Quel giorno io divenni quella donna, quel giorno capii che ciò che desideravo per la mia vita non si sarebbe mai avverato e che l’avrei osservata come se fosse stata un fantasma di me, un’ombra.

    Fa’ sì che non ti trasformino in polvere, impediscilo a ogni costo, anche se a chiedertelo è la persona che più ami al mondo. Tu sei forte, tu sei caparbia, tu sei l’unica a poter controllare il tuo destino.

    Si sbagliava, la nonna, aveva torto.

    Perché di me non ne sarebbe rimasto nulla.

    Perché non hai modo di ripararti dalla battaglia quando il tuo unico scudo, in realtà, è l’arma che sta per trafiggerti il cuore.

    Dalla finestra accanto al mio banco in aula, entrava un piccolo spiffero di aria fredda che mi avvolgeva il corpo con fare delicato. Mi ritrovai imprigionata in uno stato di trance, quasi cullata da quella brezza che mi cingeva, nulla a che vedere con la sensazione di rigidità con cui convivevo ogni mattina, al risveglio dal mio incubo. Per tutta l’estate non avevo fatto altro che sognare la donna sulla pira in fiamme e i suoi occhi di ghiaccio fissi nei miei. Come se volesse scavare in profondità sino a raggiungere la mia anima e impossessarsene, come se in realtà le appartenesse. Ogni notte m’imbattevo in quello sguardo e ogni mattina un piccolo pezzo di me ne rimaneva intrappolato. Ero terrorizzata all’idea di riaddormentarmi, così come temevo la sua vicinanza. La certezza che qualcosa di cattivo potesse vivere dentro di me mi angosciava a tal punto da darmi la nausea, ma, come la donna della leggenda, sentivo il bisogno di rivivere ancora e ancora quell’agonia, per stabilire un contatto, per comprenderne il significato, anche se a fine sogno non mi rimaneva altro che vuoto da colmare e incertezze. Ero schiava di quell’andirivieni, sepolta sotto un cumulo di paure e desideri, decisa ad andare oltre ma ancora ferma allo sparo iniziale.

    Il professore di letteratura andava avanti con la sua lezione sugli autori irlandesi da circa mezz’ora ormai, con i suoi eufemismi e le sue citazioni preferite tratte dai libri che avevo letto e riletto innumerevoli volte, assaporandone ogni frase. Si dice che nella vita bisogna scegliere il male minore, perciò io avevo scelto di rinchiudermi in me stessa, nei miei libri, non raccontando a nessuno ciò che mi tormentava.

    Perché continuavo a sognare quella donna? A chi apparteneva il nome Rosaly? Cos’erano in realtà le ombre?

    Una miriade di domande vorticavano nella mia mente come un tornado, ma io non ero riuscita a dare una risposta concreta a nemmeno una di esse.

    Distolsi lo sguardo dalla piccola lavagna nera appesa alla parete e circondata dai ritratti degli autori più importanti della letteratura, sulla quale il professor Rupert stava trascrivendo gli argomenti del prossimo test preparatorio agli esami di fine semestre. Lo sguardo mi cadde sul libro aperto che giaceva sul banco sopra quello di testo. Ne ammirai la rilegatura vecchio stampo e la copertina erosa dal tempo, giocando con gli angoli delle pagine ingiallite. Avevo intravisto Dracula, di Bram Stoker nella libreria in camera dei miei, per poi trafugarlo in un caldo pomeriggio d’estate, facendolo mio. Mi sentivo particolarmente vicina a Mina e al suo dolore nel venire a conoscenza che il suo amato, in realtà, la desiderava solo perché in lei giaceva un’altra donna. Se in me ci fosse stata lei, la donna dallo sguardo di ghiaccio, cosa avrei potuto fare per impedirle di prendere il mio posto, invadendo il mio corpo, colmando i miei vuoti? Se in me ci fosse stato il male...

    Il cellulare sepolto sotto i libri e i quaderni per gli appunti cominciò a vibrare, richiamando l’attenzione di qualche mio compagno di classe, ma, fortunatamente, non quella del professore. Approfittai del fatto che fosse ancora girato di spalle per leggere il messaggio inviatomi dalla mia amica Nataly, seduta qualche banco più in là.

    A cosa stai pensando?

    Non importunarmi e segui la lezione!

    Appena finì di leggere la mia risposta sfoderò uno dei suoi sorrisi, di quelli che le illuminavano lo sguardo. La mia migliore amica, la persona su cui facevo affidamento e a cui ero legata da un profondo affetto, quasi fraterno. Avevamo entrambe otto anni quando la sua famiglia si trasferì qui, a Fethard. Da allora eravamo inseparabili.

    La noia ha preso il sopravvento su di me! Mi ci vorrà una dose doppia di caffè per riprendermi.

    Sono d’accordo!

    Premetti il tasto invio e mi voltai verso la cattedra prestando attenzione al signor Rupert, intento ad assegnare un saggio breve sugli autori che avevano fatto breccia nelle nostre menti.

    Entro mercoledì prossimo pretendo di vedere i vostri saggi sulla mia cattedra, con annesse le vostre considerazioni personali sull’autore che avete scelto. Badate bene a ciò che scrivete e a come lo scrivete!

    Guardò l’intera classe di sottecchi alzando gli occhi sopra gli occhiali rotondi e maculati, in tinta con la giacca beige che era solito portare. Non era una persona noiosa, tutt’altro, lo consideravo uno dei docenti migliori dell’istituto. Era tuttavia quel tipo di persona che dedica la propria vita ai libri e al lavoro, senza concedersi neanche un momento di svago, anche di quelli più semplici. Forse con il tempo mi sarei trasformata anche io in una specie di topo da biblioteca, rinchiudendomi nel mio guscio, come fanno le tartarughe per proteggersi dai pericoli.

    Sul vostro libro di testo troverete una scheda con elencati i punti da seguire per svolgere correttamente questo compito.

    Iniziai a cercare la pagina a cui si riferiva il professore, per poi appuntarla con una graffetta. I punti da seguire erano allineati uno sotto l’altro in una specie di grafico colorato di arancio. Più che una guida da seguire per svolgere un saggio sembrava una lista della spesa.

    Leggete con attenzione i documenti che il signor Benner passerà fra i banchi.

    Indicò lo studente seduto al primo banco, invitandolo ad alzarsi.

    Non fateci delle barchette come l’ultima volta, giusto Keith? si rivolse nuovamente a questo mentre gli porgeva una pila di fogli destinati alla classe.

    Sì, signor Rupert. E iniziò a distribuirli sotto gli sguardi divertiti dei compagni.

    Il cellulare vibrò nuovamente fra le mie mani, distraendomi.

    Pensavo che per oggi potremmo fare una cosa solo noi ragazze.

    Che genere di cosa?

    Una chiacchierata.

    Che genere di chiacchierata?

    Io e Sam volevamo parlarti del ballo. Lo ha organizzato Molly, a fine lezione ti darò l’invito.

    Molly Sanden, la nostra rappresentante d’istituto, nonché presidentessa di almeno sei club a scuola. La tipica ragazza dedita alla ricerca continua di due cose nella propria vita: bei ragazzi dal fisico atletico che le portassero la borsa e grandi sale da ballo dove poter organizzare feste pompose a tema. Feci un risolino di scherno all’idea di andarci, agghindandomi come erano solite fare le ragazze che la frequentavano.

    La smetterà mai di prendere certe iniziative? Insomma, non siamo in un film americano per teenager!

    Io e gli altri vorremmo andarci...

    Keith raggiunse il mio banco e vi poggiò sopra i documenti che mi sarebbero serviti per svolgere la traccia. Gli rivolsi un breve sorriso nello stesso momento in cui il suono stridulo della campanella segnò la fine della penultima lezione della giornata.

    Raccolsi le mie cose e le gettai alla rinfusa nello zainetto blu che ero solita portarmi dietro. Oltrepassai l’aula per raggiungere il banco di Nat, vicino alla porta d’ingresso. Quando mi avvicinai a lei, la vidi legare i suoi lunghi capelli color miele in una crocchia, mentre alternava il suo sguardo fra me e l’uscita.

    "Che ne è stato del non sosteniamo le iniziative della fanatica Molly di una settimana fa?"

    Agitai una mano davanti al suo viso per richiamarne l’attenzione.

    Aveva dei lineamenti delicati e due occhi azzurri come il mare. La sua carnagione era chiara, tipicamente inglese, mentre il suo corpo era esile ma al contempo muscoloso. Riusciva a mantenersi in forma anche se il suo sport preferito era starsene seduta sul divano di casa a guardare film e trangugiare patatine al formaggio.

    Non ti far prendere dal panico Emi! mi canzonò.

    Cominciò a frugare nella tasca della giacca blu, la nostra divisa scolastica, tirandone fuori una piccola busta bianca con sopra disegnato il simbolo della scuola: un quadrifoglio verde smeraldo. La scartai e ne estrassi un piccolo cartoncino nero adornato con cornici color argento.

    " Ballo d’inverno anni Venti. Sabato 21 novembre, siete invitati a prendere parte all’evento che si svolgerà al Palazzo D’Argento a Fethard-on-Sea. Al corpo studentesco della Cross. Molly Sanden, la vostra rappresentante." Lessi il contenuto ad alta voce, scritto con una calligrafia ottocentesca, palesemente ricavata al computer e non attinente al tema della serata.

    Nat infilò in borsa il libro di letteratura e si avviò a passo spedito verso la porta, oltre la quale gli studenti avevano affollato il corridoio per recarsi ognuno nelle prossime rispettive aule.

    Non ne farò un dramma se ci darai buca, ma qualcun altro potrebbe farlo!

    Si voltò un attimo prima di varcare la soglia per rivolgermi un sorrisetto divertito: non prometteva nulla di buono.

    Nat, non ci vengo al ballo. La supplicai con lo sguardo, anche se sapevo non sarebbe servito a molto. Quando lei e Sam si mettevano in testa una cosa era difficile persuaderle a cambiare idea.

    Ne riparliamo tutti insieme all’uscita, divertiti a matematica.

    Afferrò la sciarpa lilla che portava al collo, tirandola verso l’alto e strizzando gli occhi in una smorfia. Mi lasciò in aula con l’invito fra le mani e gli studenti dell’ora successiva che mi fissavano come se avessero visto un fantasma.

    Con mia grande sorpresa, anche l’ultima ora di lezione finì in fretta, senza che me ne accorgessi. Stare fra la gente mi faceva sentire meglio, come se le nottate passate in bianco o gli incubi non facessero parte della mia vita. Dopotutto accettare l’invito e trascorrere una serata tranquilla in compagnia dei miei amici non era una cattiva idea e, magari, sarei riuscita a dimenticare o perlomeno a non pensare a ciò che mi stava accadendo. Continuavo a tentare di convincere me stessa che in realtà erano solo sogni, che non vi era nulla di oscuro o maligno in ciò che viveva nella mia mente.

    In cuor mio speravo potesse esserci una soluzione al mio problema, speravo di poterlo superare, di riuscirci, ma non ero a conoscenza di ciò che il destino aveva in serbo per me; la mia vita stava inesorabilmente precipitando e io, ignara d’ogni cosa, rimanevo ferma a guardare.

    Il corridoio era gremito da studenti intenti a raggiungere l’uscita, spingendosi fra di loro e chiacchierando a gran voce. L’aula di matematica era situata al piano terra, perciò, quando uscii, mi ritrovai circondata dalla folla e fui spintonata più volte. Mi avviai verso l’entrata secondaria, che dava sul parcheggio, seguendo il corridoio luminoso dinanzi a me, evitando la marea di gente restando vicina alla parete.

    La Cross era un edificio nuovo e ben organizzato, con le giuste procedure di evacuazione in caso d’incendio o terremoto affisse a ogni porta e l’impianto per la fornitura di energia elettrica a pannelli fotovoltaici. Ogni anno venivano stampate delle brochure contenenti le caratteristiche della scuola e, anche se usavano parole diverse a periodi alterni, il succo del discorso era sempre lo stesso: un posto sicuro dove far crescere i vostri figli e istruirli. Nulla a che vedere con le antiche case nobiliari adibite a liceo e finanziate dai monaci o da qualche fanatico religioso. Quel genere di scuola ormai era superato e accantonato, ma io che preferivo di gran lunga la bellezza dei vecchi edifici tradizionali detestavo la sorte per avermi fatta capitare in un liceo come quello, privo di storie da raccontare.

    L’istituto si ergeva su due piani e le aule erano divise in base ai cicli di studio degli studenti. Le pareti erano state dipinte di bianco e rosso, per richiamare i colori del nostro stendardo nonché di quello della nostra squadra di nuoto. Gli armadietti, disposti su entrambe le pareti del corridoio, profumavano ancora di nuovo, anche dopo essere stati usati da una miriade di studenti in ben otto anni di attività. L’azzurro sgargiante rifletteva la luce dei neon appesi al soffitto, facendo risplendere continuamente il pavimento come se fosse stato appena lucidato. Accanto a ogni uscita si allungavano due grandi scalinate che portavano al secondo piano e al terrazzo, proibito a noi studenti. La nostra era una scuola statale, molto rara in Irlanda e una delle poche finanziate da benefattori laici. Di tanto in tanto venivano organizzate delle assemblee per celebrare questi gentili donatori, obbligando noi studenti a scrivere discorsi colmi di gratitudine accompagnati da lauti banchetti pomeridiani. Una cerimonia in pompa magna che celebrava il progresso.

    Raggiunsi la porta a vetro che dava sul parcheggio e mi avvicinai al mio armadietto, sulla parete di sinistra. Riposi alcuni libri al suo interno e lo richiusi. Quando mi voltai e feci per proseguire, venni bloccata dalla mia amica Samantha, che mi si parò davanti guardandomi in cagnesco.

    Come sarebbe a dire che non ci vieni!

    Il caschetto castano le incorniciava il volto minuto, mettendo in risalto i suoi occhi scuri e tondi ora fissi nei miei. Le sopracciglia corrucciate disegnavano una linea a gomito sulla sua fronte, incattivendo ancora di più il suo sguardo. Mi guardai intorno alla ricerca di Nat, senza però riuscire a scorgerla.

    Te ne stai sempre rinchiusa nei tuoi noiosissimi libri! Per una volta potresti divertirti con i tuoi amici! Non ricordo l’ultima volta che abbiamo passato del tempo tutti insieme e tu vorresti negarci questa possibilità? Non se ne parla mia cara, verrai a quella festa costi quel costi!

    Incrociò le braccia sopra il petto, mettendo in risalto la scollatura, mentre mi fissava corrucciata. Era solita lasciare i primi bottoni della camicia aperti, non sopportando tutto ciò che le stringesse il collo sottile. Il gilet grigio, in tinta con la gonna a pieghe, dava luce alla sua pelle olivastra e le assottigliava la vita, allungandola. Avevano permesso a noi ragazze di non indossare il pantalone largo e informe che era toccato ai ragazzi, purché avessimo rispettato gli standard dettati dal consiglio scolastico mantenendo la gonna a un’altezza non superiore al ginocchio. Per Sam le regole erano sempre state un ostacolo e amava sfidare gli insegnanti ogni qualvolta ne aveva l’occasione, anche con dei gesti semplici, come accorciare la propria gonna un centimetro per volta.

    Non noteresti la mia assenza...

    Certo che sì! mi urlò contro, richiamando l’attenzione di alcuni studenti.

    Detestavo doverla contraddire in pubblico, soprattutto perché non era mai semplice farlo. Conoscevo già le conseguenze che ne sarebbero derivate e ciò non prometteva nulla di buono. Ero ancora indecisa se andare o meno a quella ridicola festa e lei, con il suo temperamento, non mi aiutava affatto. Nat l’aveva scelta per questo: sapeva che non sarei riuscita a resisterle e che, in un modo o nell’altro, Sam mi avrebbe convinta ad andarci.

    Lo sai che non è il genere di cose che amo fare. Mi avvicinai, rivolgendomi a lei quasi sottovoce in modo da mantenere quella conversazione privata. La folla di studenti cominciava a smaltirsi, creando degli spazi vuoti tra un gruppo e l’altro.

    Ogni giorno siamo costretti a fare cose che non amiamo fare! Si appoggiò con la schiena all’armadietto accanto al mio, lasciando cadere lo zaino ai suoi piedi.

    Non viviamo in un paese libero?

    Mi abbandonai alla rassegnazione, attendendo che qualcuno accorresse in mio aiuto. Vagai con lo sguardo in cerca del resto del gruppo finché non vidi John svoltare l’angolo, scendendo le scale.

    Cavolo Emi! Per una volta potresti mettere da parte il tuo orgoglio e unirti al resto del mondo! riprese a gesticolare, alzando la voce. È una festa a tema, niente di più!

    Non capivo perché ci tenesse così tanto, anche se in cuor mio sapevo che quella era solo una banale scusa per trascorrere del tempo insieme. Tra i test di preparazione all’università e i miei incubi, mi ero allontanata dal resto del gruppo, tracciando una linea netta fra me e loro. La verità era che non volevo confessare ciò che stavo passando. Loro erano miei amici, gli unici che avessi mai avuto. Non ne conoscevo la ragione, ma sapevo di doverli tenere al sicuro e ciò sarebbe stato possibile solo se fossero rimasti all’oscuro di ogni cosa.

    Una volta ci saresti venuta senza battere ciglio. Con uno scatto si allontanò dall’armadietto, fissandomi dispiaciuta.

    È solo che... non mi va. Non sapevo cosa inventare per rifiutare.

    State bene fanciulle?

    Ci voltammo entrambe quando sentimmo la voce di John. Si avvicinò a noi sorridendo, mostrando i denti bianchi e allineati. Ai lati della sua bocca comparvero due fossette che misero ancor di più in risalto i suoi zigomi alti, facendo risaltare gli occhi verdi e luminosi. Portava i capelli lunghi e ondulati sino alle spalle e per la maggior parte del tempo legati in un codino basso. Era alto e muscoloso, con le spalle larghe, tipico di chi pratica nuoto. Camminava come se si trovasse su una passerella di moda, sotto gli sguardi affascinati di alcune ragazze del terzo anno, radunate in un piccolo gruppetto accanto all’uscita. Con quell’aria spavalda e la sua bellezza esotica, era uno dei ragazzi più ambiti della scuola, se non di tutta la contea.

    John, è una gioia vederti! mi rivolsi a lui speranzosa, stringendo il suo braccio come per proteggermi.

    Perfetto, è arrivata la cavalleria!

    Sam non sembrava esserne entusiasta. Si lasciò andare nuovamente a ridosso dell’armadietto, rivolgendo il suo sguardo tagliente alle ragazze che ci osservavano, confabulando a gran voce su quanto il nostro amico fosse affascinante.

    Andiamo Sam, sapevamo ne avresti fatto un dramma! John amava prendersene gioco, stuzzicandola ogni qualvolta ne avesse avuto l’occasione.

    Smetterò di farlo non appena Emi avrà accettato!

    Ti sta obbligando a venire al ballo? Sul suo viso si formò un sorrisetto divertito.

    Ci ha provato, non lo nego. Strizzai un occhio, sorridendogli di rimando.

    In quell’istante Nat ci raggiunse stringendo fra le mani un pesante libro scuro, dalla rilegatura decorata in oro. Cosa mi sono persa?

    Ci sorrise raggiante, com’era solita fare. Sprizzava allegria e spensieratezza da tutti i pori, contagiando chiunque le stesse vicino. Quel pomeriggio, Sam, però sembrava esserne immune.

    Fronte comune! Indicò me e John con un gesto della mano.

    Cavolo, sarà difficile da abbattere! Nat sgranò gli occhi, scuotendo la testa.

    Ehi, Carlo! John prese ad agitare le braccia in direzione delle scale, dove il nostro amico si era fermato per riporre un piccolo quaderno nel suo zaino. Ci raggiunse a lunghe falcate, oltrepassando alcuni studenti ancora fermi in corridoio a chiacchierare. Mise un braccio sulle spalle di Nat, stringendola dolcemente a sé e posandole un casto bacio sulla guancia. Avevano iniziato a essere più che semplici amici tre anni fa. Un po’ ero invidiosa del modo in cui loro si amavano, come lui la guardava... il loro era un amore vero, di quelli che non si vedono spesso, di quelli che fanno paura e che sono destinati a durare in eterno. Allo stesso tempo, però, ero felice per loro, si meritavano a vicenda.

    Se avete finito di sbaciucchiarvi… Sam s’intromise punzecchiandoli e i due arrossirono come peperoni.

    Carlo faceva parte della squadra di nuoto insieme a John e a qualche altro ragazzo dell’ultimo anno. Le ragazze della scuola lo consideravano una specie di principe azzurro, per via dei suoi lineamenti delicati e del suo modo di fare, diverso rispetto a quello di John.

    Sam ti ha già obbligata a venire al ballo? si rivolse a me sfoderando un sorriso.

    Perché volete andarci, insomma, non è la prima volta che quella svitata di Molly ne organizza uno. Incrociai le braccia al petto, appoggiandomi al mio armadietto.

    Svitata non è la parola adatta per descriverla, John mi schernì, lasciandomi intendere che ne conosceva di peggiori.

    È un ballo a tema in uno dei palazzi più belli della contea!

    Sam gesticolò con entrambe le mani, stringendo Nat per un braccio come per avere il suo consenso.

    Ci sarà la musica dal vivo e da bere.

    Bere può essere la soluzione a ogni tuo problema.

    John mi diede una spallata, facendomi ondeggiare in avanti. Risi consapevole che se non avessi preso in fretta una decisione non mi avrebbero lasciata andar via.

    Vorrei pensarci.

    Potresti non averne il tempo.

    Carlo mi rivolse un sorrisetto compiaciuto mentre passava il suo zaino a John. Li osservai curiosa, senza capire cosa avessero in mente. Quando mi ritrovai a testa in giù sulle sue spalle, compresi a pieno il loro intento.

    Fammi scendere così posso prenderti a calci!

    Con una mano stringevo la sua giacca mentre con l’altra arruffavo i suoi capelli chiari, perfettamente pettinati e allineati da un lato. Sapevo quanto desiderasse apparire ordinato e quanto quel gesto potesse dargli fastidio.

    Solo se dirai di sì!

    Iniziò a volteggiare su se stesso, facendomi girare la testa. Alcuni studenti che assistevano alla scena presero a filmarci e a ridere di gusto. Mi sentii improvvisamente imbarazzata e furiosa.

    Carlo! urlai a gran voce, richiamando ulteriormente l’attenzione su di noi.

    Mi fece scendere, reggendomi per le spalle. Nel farlo, però, il mio zainetto cadde fra le mani di John.

    Guarda cosa ho trovato!

    Ridammelo!

    Iniziai a saltellare come una scimmia, mentre venivo fotografata da Nataly.

    Non lo so, forse dovrei tenermelo e ridartelo al ballo.

    Lo lanciò a Carlo, senza che riuscissi a riprenderlo.

    Ma se ha appena detto che non ci viene con noi al ballo, Sam intervenne canzonandomi di rimando e sorridendomi furbamente.

    Incrociai le braccia al petto e misi il broncio. Avevo capito a che gioco stessero giocando e l’avrebbero portata avanti ancora per molto se non avessi fatto qualcosa.

    Ti prego Emi, di’ di sì! Nat si avvicinò a me, stringendomi in un tenero abbraccio. La guardai per un istante di sottecchi. Ovviamente lei voleva che ci andassi, così come tutti gli altri. Non era contemplata una decisione diversa.

    Ci vengo, sbruffai rumorosamente, facendo una smorfia.

    In quell’istante, le braccia di Sam si unirono a quelle di Nat ed entrambe mi strinsero felici. Mi sfuggì un risolino al solo pensiero di dover indossare degli abiti pomposi e di dover acconciare i capelli con delle piume.

    Bravi i nostri baldi giovani, Sam si rivolse a Carlo e John, intenti a darsi il cinque.

    Non esultare Sam, dovrai acconciarmi i capelli. Indicai i miei indomabili capelli rossi, facendole una smorfia. Erano lunghi fin sotto la schiena e formavano delle piccole onde sulle punte, mentre alla radice mantenevano ancora il liscio di quando ero bambina. Li avevo sempre portati lunghi e non immaginavo il mio viso paffuto con un taglio corto, come quello che portava Sam.

    Lascia fare a me carotina! rise.

    Non chiamarmi carotina! La spintonai.

    Alla fin fine ero felice di avere accettato. Stare in loro compagnia mi avrebbe distratta da quella che stava diventando un’idea fissa. Avevo fatto delle ricerche sui sogni e sulle persone che soffrivano di insonnia, ma non ero riuscita a trovare nulla di concreto che potesse aiutarmi. Quello che mi spaventava di più, era la consapevolezza di stare cambiando. La mattina allo specchio, quella che vedevo era una ragazza diversa... Il mio viso, una volta tondo e colorito, ora era pallido e scarno, privo di vitalità. I miei occhi erano più grandi e sempre più incavati, di un azzurro-grigio spento e perennemente circondati da profonde occhiaie violacee. Gli abiti mi andavano larghi a causa dei molti chili che avevo perso. Mi stavo prosciugando lentamente, dall’interno, proprio come la donna del mio sogno e non potevo fare nulla per impedirlo. Mi terrorizzava l’idea che qualcosa di cattivo si celasse dentro di me, che potesse prendere il sopravvento su quella che ero e che sarei voluta diventare. La consapevolezza di non poter più controllare la mia vita, di non poter più desiderare niente che non fosse una semplice nottata tranquilla mi faceva rabbrividire. Mi stavo trasformando in un involucro di sangue e ossa, nulla di più.

    Ehi Emi, andiamo?

    La voce di Nat mi ricondusse alla realtà, distogliendomi dai miei pensieri. Presi il mio zainetto dalle sue mani, senza sapere come ci fosse finito, e insieme ci avviammo verso l’uscita, mentre John e Sam prendevano in giro Carlo per i suoi capelli spettinati.

    Stai bene?

    Nat mi prese a braccetto, sorridendomi. Qualche volta la sua fisionomia mi ricordava la donna dei miei sogni...

    Sì, va tutto bene.

    Le rivolsi il mio miglior sorriso e insieme ci avviammo al parcheggio. Niente avrebbe influenzato i miei sentimenti per lei.

    2

    Scelte

    Il caffè servito al punto di ristoro oltre i cancelli della scuola conservava da sempre un pessimo sapore. Ne bevvi all’incirca la metà, poi fui sopraffatta da un senso di nausea che mi diede alla testa, perciò poggiai la tazza sul tavolino dinanzi a me e sospirai rumorosamente.

    Sam fece altrettanto, rivolgendosi a me nel momento esatto in cui la cameriera saettò fra il nostro tavolo e quello che ci stava accanto. È decisamente orribile!

    Nat la imitò, poggiando a sua volta la tazza piena di caffè sul tavolino. Decisamente!

    Il Breet era un locale situato sul lato opposto al parcheggio della scuola, insieme a una schiera di altri piccoli negozietti di poco conto. Interamente costruito in legno, poi dipinto di bianco latte, con annessi due grandi parasole a strisce bianche e blu sul davanti.

    Sembrava una piccola barca, di quelle a vela, dalla quale potevi ammirare il panorama che si allungava ai piedi della collina da cui faceva capolino, insieme all’edificio della Cross. I tavolini, anch’essi in legno, erano disposti in modo da formare delle piccole file sul lato sinistro rispetto all’entrata, mentre, dall’altro lato, era stato costruito il bancone dove servivano il caffè. Seguivano poi tre piccoli gradini dai quali avevi accesso a un palchetto rotondo e perennemente illuminato, grazie alla luce proveniente dalle grandi vetrate che davano sul retro. Alle pareti avevano appeso dei vecchi dipinti raffiguranti la nostra città, ormai ingialliti a tal punto da non riuscire più a distinguere il nome dell’artista. Il posto riservato al nostro gruppo era accanto alle vetrate, in un piccolo tavolino sul lato sinistro del palchetto.

    Se sedevi a quel posto potevi ammirare l’intera città e i ritagli di verde smeraldo che si allungavano sino a raggiungere l’orizzonte. Se la giornata era buona, se il sole risplendeva alto in cielo, l’erba pareva scintillare, come se fosse ricoperta da uno strato perenne di rugiada. Penso che in realtà ciò che ci spingesse a trascorrere del tempo al Breet fosse quella vista. Questo perché consideravamo la nostra amicizia quasi come se fosse secolare, immutata nel tempo, esattamente come quel luogo e la storia che vi si celava al suo interno. Un po’ come quei racconti che non ti stanchi mai di ascoltare anche se conosci già il finale e pur avendoli sentiti milioni e milioni di volte.

    Dovrebbero limitarsi alla cucina, evitando così di avvelenare qualche malcapitato!

    Nat poggiò il volto su entrambe le mani, portandosi indietro il lungo ciuffo che aveva sulla fronte, lasciandola così scoperta.

    Potrebbero diluirlo con del latte o con qualcosa che in parte nasconda l’aroma del caffè.

    Sam faceva roteare il dito sul bordo della tazza, guardando con disprezzo il liquido scuro al suo interno.

    Ma così non sembrerebbe più caffè, aggiunsi.

    Qualunque cosa, purché non sia questa brodaglia!

    Si lasciò andare sulla sedia a cui aveva appeso la giacca, rimanendo così in camicia e gilet.

    Non capivo perché ci ostinassimo ancora a berlo pur sapendo a cosa stessimo andando incontro!

    Ordinerò una tazza di tè d’ora in avanti. Rimpiangevo di non averlo fatto quello stesso giorno.

    Sono d’accordo. Nat mi strinse il polso, arricciando le labbra sottili in una smorfia.

    Sam fece per stringermi a sua volta, lasciando però la mano sospesa a mezz’aria.

    È una specie di promessa?

    Oh sì! annuii convinta, sorridendole.

    Andata! Strinse le nostre mani fra la sua, suggellando quello strano e assurdo patto.

    Sussultai quando sentii una strana scossa pervadermi, arrampicandosi lungo il mio braccio sino a dentro al petto. Rimasi immobile per qualche secondo, osservando le mie amiche ridere, mentre quella leggera vibrazione si faceva spazio, richiamandomi a sé come un eco. La sentivo espandersi, come muoversi all’interno del mio corpo e della mia mente. Feci scivolare via la mano con lentezza, improvvisamente colta da un senso di appartenenza e possesso nei loro confronti. I loro occhi mi parvero diversi, più limpidi, e i loro sguardi decifrabili come mai prima d’ora. Assaporai quella strana sensazione sino al suo culmine, chiedendomi se l’avessero avvertita anche loro o fosse stato solo un caso. Mi

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