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Come orizzonte tutto: Storia di don «Berna» e dei suoi amici
Come orizzonte tutto: Storia di don «Berna» e dei suoi amici
Come orizzonte tutto: Storia di don «Berna» e dei suoi amici
E-book461 pagine6 ore

Come orizzonte tutto: Storia di don «Berna» e dei suoi amici

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Info su questo ebook

Don Bernardino ebbe modo di notare un gruppo di giovani che, con fedeltà ostinata, stazionava al fondo della chiesa, ogni martedì sera, alla messa delle 18,30. Si vedeva che erano amici; ma perché la loro amicizia doveva esprimersi in quel modo? «Chissà chi sono?», si era domandato diverse volte. Poi, però, le attività dell'oratorio, l’insegnamento di religione nella scuola media, il suo appassionato legame con i ragazzi avevano fatto affievolire quella curiosità. Che riprendeva di vigore ogni volta che li notava al fondo della chiesa e li vedeva fermarsi a chiacchierare sul sagrato, una buona mezz’ora, con allegria e familiarità. Un martedì sera, al termine della messa, li avvicinò domandando loro: «Chi siete?».
Da quella domanda ebbe inizio la sua avventura in Comunione e Liberazione, movimento che egli contribuì a diffondere e sostenere nell’ambiente torinese e oltre...

«Queste pagine serviranno non solo a scoprire l’appassionata, breve, ma intensa avventura di un prete a tutto tondo; ma anche, attraverso i suoi atti e le sue parole, a rendersi conto ancora meglio di quale sia la prospettiva cristiana, anzi cattolica, per guardare al mondo d’oggi e riproporgli il kérygma di salvezza del Vangelo» (dalla Prefazione di Vittorio Messori).

LinguaItaliano
Data di uscita9 mar 2021
ISBN9788869297144
Come orizzonte tutto: Storia di don «Berna» e dei suoi amici
Autore

Adriano Moraglio

Giornalista e scrittore, si è specializzato nel racconto di storie di imprenditori e di imprenditoria. Per Rubbettino dirige (con Florindo Rubbettino) la collana di romanzi che hanno per soggetto storie di imprenditori dal titolo "La bellezza dell'impresa" e la collana “L’avventura dell’esperienza – Storie, testimonianze e memorie per far ripartire l’Italia”.

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    Come orizzonte tutto - Adriano Moraglio

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    Colophon

    Adriano Moraglio

    Come orizzonte tutto

    Storia di don «Berna» e dei suoi amici

    Prefazione di Vittorio Messori

    Effatà Editrice logo

    Prefazione

    C’è una domanda che mi ha accompagnato nella lettura delle prime bozze di questo libro. Mi chiedevo, cioè, se mi fosse capitato di incontrare don Bernardino Reinero. È probabile, anche se, in ogni caso, deve essersi trattato di una presentazione affrettata, in gruppo con altre persone: tale, cioè, da non restare impressa nella memoria. Ciò che, invece, ricordo bene è l’impressione che mi fecero i suoi ragazzi quando, durante il praticantato a «La Stampa», seguivo tra le altre cose (per l’edizione del pomeriggio, l’ormai scomparsa «Stampa Sera»), le cronache scolastiche torinesi.

    Erano gli anni di piombo, esporsi come redattori del «giornale della Fiat» significava rischiare grosso. Come quando, aggirandomi in un liceo occupato, dalle parti di Porta Susa, travestito con l’eskimo d’ordinanza e fingendomi giovane professore gauchiste, il fotografo scattò imprudentemente un lampo per immortalare una coppia che faceva l’amore in un sacco a pelo, nella palestra. Ci trovammo subito catturati e costretti a sfilare per le vie del quartiere con un cartello al collo sul quale gli studenti (oggi, naturalmente, tutti maturi e rispettati professionisti o benpensanti dirigenti) avevano scritto: «Lecca c... dei padroni». Ci andò bene perché, dopo la gogna da 25 aprile, ce la cavammo con «l’esproprio proletario» delle attrezzature — giapponesi, modernissime e costosissime — del collega fotoreporter. Era roba de «La Stampa», dunque il prelievo a beneficio dei capi della contestazione era più che legittimo... A me, non sequestrarono il portafoglio: mi imposero di aprirlo — qualcuno, attorno, faceva girare minaccioso le grosse chiavi inglesi — e si limitarono a prelevare il tesserino dell’Ordine dei giornalisti. Chissà, forse credevano ancora alla leggenda metropolitana secondo la quale con quel documento si entrava gratis al cinema e, magari, allo stadio.

    Se quello era il clima generale, c’era un’eccezione; una sola, che io sappia. Quella di un gruppo di giovani kamikaze che, tra tanti coetanei già frequentatori di oratori e divenuti «marxisti immaginari», non esitavano a dire la loro fede, ad opporsi alla violenza (e anche per questo, spesso e volentieri la subivano su di loro), a volantinare fogli ciclostilati dove si proclamavano apertamente cattolici, pur usando un linguaggio che mi sembrava singolare. Non conoscevo ancora, insomma, il genere letterario «ciellinese». Né, in verità, conoscevo ancora i ciellini anche se, da cronista, li vedevo quasi ogni giorno rischiare grosso agli ingressi di Palazzo Nuovo o in altre occasioni non di tutto riposo.

    Avvenne, tra l’altro, che un giorno mi giunse (non ricordo da chi, comunque lo stile era riservato, un po’ carbonaro) l’invito a incontrare quel prete sul quale correvano notizie contraddittorie, quel tal don Giussani che faceva un salto a Torino. Incuriosito, andai. Era in collina, in quella specie di colosseo in miniatura, tutto in mattoni scuri, che si vede bene da piazza Vittorio, dietro la Gran Madre e che — dicono le vecchie cronache torinesi — era il basamento di un grande tempio ottocentesco al sacro Cuore che restò incompiuto. Una sorta di basilica di Montmartre subalpina. Quel rudere era stato adattato (credo lo sia ancora) ad anfiteatro di una comunità religiosa e lì don Giussani aspettava un gruppetto di invitati un po’ furtivi, qualcuno con occhiali scuri e bavero alzato. Quel prete, in effetti, era nelle liste di proscrizione di un certo progressismo che, naturalmente, si guardava bene dal capire chi fosse e come davvero la pensasse. Comunque, farsi riconoscere in sua compagnia significava mettere a rischio la reputazione, per il politically correct del tempo. Io non avevo di questi problemi, a «La Stampa» non nascondevo certo la mia prospettiva di cattolico ed ero tollerato per questo, con compatimento, da qualche collega che mi pensava un po’ subnormale. E ogni volta si stupiva nel constatare che uno che aveva ancora di queste anacronistiche e alienanti manie religiose era in grado di scrivere degli articoli leggibili. E la cosa, beffardo come sono, invece di dispiacermi mi divertiva. Insomma, andai (e senza baffi finti) e constatai che questo don Giussani parlava proprio così come scrivevano i volantini dei suoi giovani: rimasi affascinato e, al contempo, perplesso, per la novità di quanto sentivo. Bene: se un incontro con don Berna c’è stato, deve essere stato in quella occasione; sarebbe stato singolare che proprio lui non fosse presente in quella sorta di prima, seppur riservata, uscita di Cl tra subalpini estranei al movimento.

    Se, comunque, un incontro c’è stato, fu irrilevante, limitato a una presentazione, a una stretta di mano. Così come non mi aiutarono a capire la sua statura e il suo ruolo le voci che ogni tanto mi giungevano di lui. Per scoprire (con lieta sorpresa) chi sia stato davvero quest’uomo ho dovuto aspettare le pagine di Adriano Moraglio. Il quale, da buon giornalista, ci ha dato un libro estremamente leggibile, con un taglio narrativo, spesso con doverosi artifici del mestiere per risvegliare l’attenzione del lettore e indurlo a continuare. Ma, sotto le apparenze accattivanti, c’è un serio lavoro di biografo che ha lavorato in modo sistematico e il più possibile completo, raccogliendo centinaia di testimonianze e investigando negli archivi. Lavoro tanto più arduo, e dunque meritorio, perché, come sa qualunque storico, è spesso più difficile lavorare sul passato prossimo (quando il tempo non ha ancora compiuto la sua opera di decantazione) che su quello remoto. Il racconto della vita di don Berna diventa così un quasi inedito spaccato della società religiosa — e civile — del Piemonte degli ultimi decenni, dando un contributo che sarà certamente prezioso agli studiosi futuri.

    Incontrando Moraglio quando questo libro era ancora poco più che un progetto, gli suggerii di non tacere il clima della Chiesa torinese del dopo Concilio, non temendo — se del caso — di ricordare anche qualche risvolto che, a futura memoria, sarebbe bene non dimenticare. Un clima del quale io stesso — seppure «libero battitore», cattolico senza appartenenze, poco o niente coinvolto dal mondo clericale — ero stato testimone, spesso sconcertato. Vedo ora che Moraglio ha ricostruito il tempo di don Berna senza nascondere le difficoltà ma senza attardarsi in polemiche. Credo che abbia fatto bene. Ha fatto opera costruttiva e, perché no?, di vera carità cristiana, puntando sulla ricostruzione del positivo che anche allora viveva nella Chiesa torinese e di cui la vita di questo singolare sacerdote è stata parte non secondaria. Senza cedere a tentazioni di denuncie, lontane da ogni ricerca di «regolamento di conti», oggettive ma serene e pronte alla comprensione, queste pagine compiono opera davvero costruttiva. Si propongono come «edificanti», nel senso etimologico. Anche nelle numerose occasioni in cui non temono di essere addirittura «pedagogiche» : Moraglio, infatti (e anche qui la sua scelta è stata felice) inserisce una sorta di catechesi, con ampi brani dell’insegnamento di don Berna ma anche di quel don Giussani al quale il biografato guardava come a interprete provvidenziale dell’insegnamento evangelico e della sua incarnazione nel nostro tempo.

    Il mio augurio, naturalmente, è per una diffusione il più ampia possibile di queste pagine, anche al di fuori non solo del movimento di Comunione e Liberazione ma della Chiesa stessa. In certi ambienti sedicenti «laici» (afflitti in realtà da dogmatismi e clericalismi ben più robusti di quelli cattolici), la storia qui raccontata potrebbe servire almeno a incrinare troppe sicurezze, troppi pregiudizi che nascono non solo dal settarismo ma anche dalla non conoscenza. Naturalmente, non mi faccio soverchie illusioni, cercando di coltivare la virtù cristiana del realismo. Tra i credenti, comunque — soprattutto tra i giovani — queste pagine serviranno non solo a scoprire l’appassionata, breve ma intensa avventura di un prete a tutto tondo; ma anche, attraverso i suoi atti e le sue parole — qui così ben ricostruite e riportate — a rendersi conto ancor meglio di quale sia la prospettiva cristiana, anzi cattolica, per guardare al mondo d’oggi e riproporgli il kérygma di salvezza del Vangelo.

    Vittorio Messori

    A don Giussani, senza il quale non ci sarebbe questa storia;

    a Bianca, che ha condiviso questa avventura;

    ai «nostri» genitori, perché possano ringraziare;

    ai «nostri» figli, perchè possano imparare;

    agli oltre duecento testimoni, legittimi coautori di questo libro;

    a te Primo, mio grandissimo amico.

    Quando un popolo non ha più un senso vitale del suo passato si spegne. La vitalità creatrice è fatta di una riserva di passato. Si diventa creatori — anche noi — quando si ha un passato. La giovinezza dei popoli è una ricca vecchiaia.

    C. Pavese, Il mestiere di vivere

    Prologo

    Il penultimo banco sulla sinistra, poco discosto dall’acquasantiera, rimase vuoto quella mattina. Don Bernardino, infreddolito, aveva rinunciato alla consuetudine di recitare il breviario da quella posizione, che prediligeva, consentendogli di inquadrare l’intero panorama della sua chiesa. Da lì, infatti, poteva ammirare lo slancio delle colonne neogotiche, le cinque arcate della navata centrale, le altre cinque in ognuna di quelle laterali e, sullo sfondo, lo stagliarsi del transetto e dell’abside. Amava quelle linee architettoniche forse più di qualsiasi altre, perché gli ricordavano le cattedrali di Francia dove ogni particolare è concepito per il tutto, perché il tutto sia perfetto.

    Nella sua «cattedrale» la luce del mattino, penetrante dai finestroni di destra, era solita apparirgli come un faro sfumato che ridà vita a ogni cosa, rianimando i colori terrei delle colonne — mischiati nella calce — e svelando la varietà di forme disegnate: croci e stelle a ripetizione. Già, le stelle! Quante volte don «Berna» — così lo chiamavano tutti — aveva potuto goderne la visione da quella postazione defilata, incastonate nel blu lapislazzolo racchiuso nelle novanta vele delle arcate gotiche della sua chiesa. Sono quasi seimila le stelline che Giovanna, la sua giovane amica restauratrice, aveva ridipinto d’oro in polvere, una ad una.

    Ma quella mattina, no. Il parroco aveva lasciato vuoto il suo punto panoramico, e si trovava — stranamente — nella sacrestia, con il breviario aperto e il volto e le labbra immerse nella preghiera. Piergiorgio, il sacrestano, con la cordialità, la stima e il rispetto che serbava per don Berna, lo notò passeggiare e pregare insolitamente nella grande sala, dominata dal legno degli armadi per i paramenti e per tutto ciò che serve all’ufficio religioso. Ogni tanto il prete si appoggiava al bancone e si strofinava le braccia e il petto per scaldarsi.

    «Don Berna», domandò il sacrestano, facendo la sua comparsa nella grande stanza, «ha freddo?».

    «No... non è niente», rispose, senza dargli grande retta.

    La scena si ripetè una seconda volta, e la risposta del parroco fu la stessa; la terza volta il cenno di don Berna fu quasi di stizza. Sbuffò, come a chiedere di essere lasciato in pace, poi riprese a pregare.

    Il breviario, dopo la consolante invocazione «Cristo, sapienza eterna, donaci di gustare la tua dolce amicizia... sii tu la nostra forza, la roccia che ci salva dagli assalti del male», proponeva la «preghiera nella malattia», e il commento, a capo dell’orazione, che suggeriva: «anche noi gemiamo aspettando la redenzione del nostro corpo».

    Don Berna non stava bene. Ma, recitando il breviario aveva almeno trovato uno spunto da seguire, come un’illuminazione proveniente dal Cielo! «La mia voce sale a Dio e grido aiuto», pronunciava leggendo il salmo, mentre in strada, e nella piazza retrostante la chiesa, il mercato si animava dei soliti banchi degli ambulanti.

    «Nel giorno dell’angoscia io cerco il Signore, tutta la notte la mia mano è tesa e non si stanca..., tu trattieni dal sonno i miei occhi...».

    Infatti, il parroco, quella notte, proprio non aveva chiuso occhio. La luce nella stanza del sacerdote era rimasta accesa fin verso le due. Era stato a cena fuori casa, ma era rientrato neanche troppo tardi. Nessuno potrà mai dire che cosa avesse fatto, come avesse trascorso quelle ore. Quel che è certo è che al mattino il letto fu trovato intatto. Il parroco non se n’era servito.

    «Chi ci separerà dall’amore di Cristo?», lesse percorrendo ancora una volta l’intero perimetro della sacrestia, «forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati».

    Prima di chiudere il libro e riporlo nella sua custodia incernierata, e dopo aver percorso ancora una volta l’intera sala ed essersi soffermato sotto le finestre per approfittare della luce esterna, recitò: «Resta con noi Signore, durante questo giorno, non tramonti mai nel nostro spirito il sole della tua grazia. Ti offriamo le azioni e le sofferenze di questa giornata... fa’ che viviamo il tempo che ci dai, come un dono della tua bontà».

    «Il tempo che ci dai»: aveva letto; e don Berna era parroco nella chiesa dedicata a santa Giulia, vergine e martire, da quasi otto anni. Il suo desiderio era di rimanervi per almeno un altro paio. Poi, si sarebbe anche messo da parte, magari in una piccola parrocchia di collina. Come un guerriero che ripone l’armatura.

    Che freddo quella mattina di ottobre! Una sensazione di gelo, più di natura interna che esterna, percorse il corpo di don Berna che, scrollandosi, si strinse nel giubbotto di pile blu e calcò bene sul capo, con il consueto gesto, il notissimo berretto blu per coprirsi la testa da tanto tempo calva, ma circondata, ai lati e sulla nuca, da capelli bianchissimi. Chiuse il breviario e si preparò per la celebrazione della messa. Prima, però, per quasi un quarto d’ora, si fermò a scrutare il giardino.

    Quel giorno aveva rinunciato al suo tradizionale appuntamento con Bach. Era davvero una cosa rara non vederlo, la mattina, anche solo per poco, seduto alla tastiera dell’organo. Non passava giornata, infatti, senza che non dedicasse un po’ di tempo alla musica. E non semplicemente all’ascolto di brani musicali — cosa che faceva normalmente, appena gli era possibile, persino con la partitura a mano — ma all’esecuzione della musica. E così, Mille pezzi di Bach era diventato il suo libro preferito: ogni giorno un brano, e via daccapo. Ma quella mattina non si mise all’organo: non sarebbe risuonata nella chiesa di S. Giulia la musica del parroco.

    Fuori, intanto, l’autunno aveva assunto precocemente i connotati più decisi della stagione... Ciononostante, tutto intorno si era animato come sempre: i bambini erano andati a scuola, i negozi erano aperti, i bar distribuivano a pieno ritmo caffè e aromi dalle loro macchinette, brioches, panini, tramezzini, anche i primi bicchieri di vino e, intanto, si alzava il vociare del mercato. Tutto riprendeva vita, con affanno o con gioia, con sorpresa o con angoscia.

    Soprattutto negli ultimi tempi don Berna sentiva su di sé tutto il peso di questa umanità da aiutare... Voleva condividere la vita di tutti i suoi parrocchiani, come pure quella dei molti amici che lo avevano accompagnato nella sua avventura di parroco. La mattina, i pomeriggi, la sera, era sempre un via vai continuo di gente che gli voleva parlare e gli chiedeva consiglio.

    «Come fai ad essere così disponibile verso tutti? Mi piacerebbe essere come te», gli domandò un giorno incuriosita Elena, una ragazza che stava frequentando quello stesso liceo dove, lui, più di vent’anni prima, aveva annunciato ai giovani che l’esperienza cristiana rende più bella la vita.

    «Come si fa a vivere così, mi chiedi?», aveva detto cominciando a rispondere a quella ragazza, «celebro la messa, confesso, la gente mi viene a parlare, e io faccio loro compagnia. È tutto qui!».

    Era il 29 ottobre del 1997: un giorno come tanti altri, apparentemente, ma, nell’economia del Mistero, non sarebbe stato così. Il sacrestano osservava e accudiva il suo parroco: le luci erano state accese, così pure le candele, pronte a cantare la loro ordinaria lode a Dio, carica di calore e di movimento. La chiesa si era riscaldata un po’ (quanta preoccupazione per i costi del combustibile...), e ora tutto era pronto per la consueta funzione religiosa.

    Nei banchi i fedeli aspettavano di sentire la parola del loro parroco: un uomo, un amico, molti ne erano rimasti affascinati. Sì, affascinati: non era un’esagerazione... Eppure, aveva dovuto affrontare qualche resistenza don Berna, otto anni prima, nei giorni della sua presa di possesso della parrocchia. Ma adesso pressoché tutto era passato: egli era diventato il loro parroco e di questo, i suoi parrocchiani, si mostravano contenti.

    Quella mattina, le letture della messa furono misteriose. Sembrava che tutto, ogni frase della liturgia, quasi parlasse per lui, quasi che in ogni parola ci fosse il suggerimento per uno sguardo definitivo sulla sua vita: «Rendiamo grazie a Dio, perché voi eravate schiavi del peccato, ma avete obbedito di cuore a quell’insegnamento che vi è stato trasmesso; e così, liberati dal peccato, siete diventati servi della giustizia», diceva San Paolo nella prima lettura.

    In quella frase era racchiusa l’intera esistenza di don Berna fino a quell’istante. Sì! Era vero: nel suo cammino di sacerdote aveva obbedito a un insegnamento, e che insegnamento!

    Un momento decisivo nel suo cammino di discepolo era avvenuto nell’estate del 1970, a Selva di Val Gardena. Era arrivato in ritardo a un appuntamento, un corso di esercizi spirituali per preti. La macchina, la sua «Fiat 500» color caffelatte, gli aveva dato qualche problema durante il viaggio da Torino. Una volta arrivato, tutto trafelato, era scivolato nella sala, solo, in mezzo a gente che non conosceva. Fidandosi dei nuovi amici che aveva cominciato a frequentare assiduamente da oltre un anno aveva accettato di partecipare a quell’incontro. Ma in quella sala aveva avvertito un disagio: non riusciva a capire nulla di ciò che il relatore stesse dicendo. C’era voluto l’intervento di un certo don Luigi, un prete milanese, a toglierlo dall’imbarazzo: era rimasto letteralmente impressionato da come quell’uomo parlava di auto‐conoscenza. Era rimasto conquistato dal suo modo appassionato di descrivere il fatto cristiano. E dire che già altre volte l’aveva ascoltato, proprio a Torino; ma mai come quella era stato così colpito dalle sue parole.

    Circa un anno e mezzo prima di quell’incontro — il terzo sabato di ottobre del 1968 — don Berna aveva percepito lo stesso fascino della fede scorgendolo negli occhi, nelle parole e nell’unità di uno sparuto gruppo di studenti universitari che aveva conosciuto, da viceparroco, sul sagrato della chiesa dei SS. Pietro e Paolo. All’epoca era un giovane prete: 27 anni, pieno di entusiasmo, con molto ascendente sui ragazzi dell’oratorio della sua parrocchia. A loro voleva un gran bene: non aveva certo bisogno di una carica, ce l’aveva già! Eppure aveva percepito che quegli universitari — sentendoli parlare, vedendoli — erano per lui la Chiesa che gli veniva incontro con una persuasività mai provata fino a quel momento.

    Erano passati quasi trent’anni da quegli avvenimenti e don Berna era rimasto fedele, si era lasciato divorare da quell’insegnamento, che ancora era il fuoco ardente della sua passione umana. E intanto, la prima lettura della messa di quel giorno era ormai conclusa. La Liturgia scorreva; il parroco dovette alzarsi. Il freddo gli attanagliava le membra e l’assalto non dava segni di cedimento.

    Il suo sguardo, però, si posò affettuosamente sul piccolo gruppo di fedeli, tra i quali intravide la sua cara amica Adriana, e poi sulla pagina del lezionario, dove lesse questa frase del vangelo di Luca: «In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: Sappiate bene questo: se il padrone di casa sapesse a che ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. Anche voi tenetevi pronti, perché il Figlio dell’uomo verrà nell’ora che non pensate».

    La «Parola del Signore» era misteriosa, ma esplicita. A quel punto avvenne qualcosa di altrettanto misterioso ed esplicito: don Berna interruppe la lettura almeno due volte, senza riuscire ad andare avanti. Se ne accorse subito il sacrestano, con il suo occhio vigile, pronto a interpretare ogni cenno che potesse giungere dall’amico parroco. Dal suo angolo visuale, nel corridoio alla sinistra dell’abside, seduto sullo scranno dell’organo dal quale poteva osservare l’altare, Piergiorgio pensò: «Non ha mai fatto nulla di simile».

    Don Berna, dopo un po’, concluse la lettura del vangelo: «A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più».

    Che cosa significavano quelle parole? Per lui?

    Durante la messa il suo sguardo si posò spesso sulle volte della sua chiesa: lo faceva sempre quando celebrava, e anche con una certa frequenza. Ammirava il brillare delle stelle e quel blu intenso dipinti sul soffitto come un rimando eccezionale a un’altra dimensione della vita, la dimensione vera della vita! Particolarmente d’estate, a luci spente, recitando il breviario, attendeva in solitudine lo svelarsi progressivo di quella scenografia! Insomma, se la godeva, la sua chiesa: la sentiva come una cosa sua, soprattutto dopo i restauri che l’avevano riportata all’originario splendore.

    Ma quanto erano presenti, le stelle, quelle vere, nella sua coscienza... Quante letture, ultimamente, aveva fatto su quella realtà così attraente e misteriosa dell’universo, segno di una «verità» disponibile a tutti. Delle stelle parlava l’ode di Schiller, musicata da Beethoven nella «nona», che don Berna amava tanto. «Vedi», aveva detto un giorno, parlando con la sua giovane amica Elena, «le stelle sono belle e rimandano a qualcosa di grande... In questo, come in tante altre cose, Dante ci è stato maestro: le sue cantiche si chiudono tutte con la descrizione dello spettacolo delle stelle». E don Berna non a caso aveva citato Dante: conosceva a menadito la Divina Commedia, a tal punto da ricordarne interi brani a memoria. Era, dunque, per lui un pensiero ricorrente quello delle stelle. Diceva: «Esse esistono perché noi possiamo ammirarle».

    In esse egli vedeva il segno dell’incombenza del Mistero nel presente. Ma anche dell’insorgere delle domande più profonde dell’uomo. Per questo amava il Cantico di un pastore errante dell’Asia, di Leopardi; l’aveva citato tante volte ai suoi studenti, nelle diverse scuole in cui aveva insegnato:

    «E quando miro in cielo arder le stelle; dico fra me pensando: a che tante facelle? [...] E io che sono?».

    Doveva essersi immedesimato a tal punto in quei versi che nell’estate dell’anno precedente, durante una luminosa notte di luglio, seduto, da dietro alle baite silenziose di Bardonecchia, dopo aver letto per tutto il giorno una guida sulle costellazioni, si era stupito, ancora una volta, di fronte allo spettacolo della via lattea. Nel buio più assoluto, aveva domandato ai suoi amici Laura e Renato e ai loro figli: «Ragazzi, che cos’è la felicità?».

    Sembrava che don Berna non si lasciasse mai sfuggire l’occasione per educare, per introdurre tutti alla realtà più vera. Ma quanto gli mancava, ora, l’insegnamento nella scuola! Gli era venuto meno il contatto con gli studenti. Così, ora, il suo istinto pedagogico aveva bisogno di esplicarsi in altro modo, non solo in quelle prediche, rapide, essenziali e ficcanti, ch’era capace di fare durante le messe, ma anche nel normale rapporto con gli altri, specialmente con gli studenti. Quando Elisa andava a trovarlo, la accoglieva come se non la vedesse da mesi. «Tu», diceva, «sei importante». Ed Elena, si sentiva «trattata come una figlia». E a Elisa diceva: «Ti farò diventare una grande donna», le prometteva, «ma tu, intanto, impara a custodirti, a trattarti bene. Se non ti custodisci non riuscirai a farlo neanche con le persone a cui vuoi bene».

    Don Berna era un uomo fatto così. E quell’uomo, ora, terminata la messa, si apprestava a ricevere Adriana, carica delle borse della spesa fatta al mercato.

    Appena gli fu vicina il prete la strinse a sé, con un braccio. «Adri», le disse, «andiamo in studio a parlare». Appariva allegro quella mattina; era stranamente libero dalle faccende parrocchiali. Poteva giustamente prendersi un momento di tranquillità, e tirare, per un attimo, il respiro... Il parroco accompagnò la donna nel suo studio: nonostante il freddo gli avesse pervaso le membra e nonostante avesse trascorso la notte pressoché in piedi, non aveva perso la sua abituale cordialità. Non c’era solitudine nella vita di quel parroco: con sé, nella memoria, portava sempre i volti delle persone a lui più care, di quegli amici con cui poteva anche permettersi di entrare in casa, accomodarsi sul divano e addormentarsi, dondolato dalla ninna‐nanna del trambusto casalingo di una famiglia che si ritrova la sera e prepara il riposo pensando al nuovo giorno. Aprì la porta dello studio, don Berna: il telefono aveva già preso a squillare.

    PARTE PRIMA

    L’incontro

    I

    Quarantasette anni prima, estate: una voce — un richiamo — giunse da quasi 300 metri di altitudine, dalla parrocchiale che sovrasta Sommariva del Bosco, paese a una trentina di chilometri da Torino, ma già in provincia di Cuneo, alle «porte» del Roero. Qui era nato il piccolo Bernardino, un bambino magro e agile. Da lassù, dalla balconata del piazzale della chiesa, un solo sguardo non è sufficiente a racchiudere tutto il paesaggio che parla da solo della fede di un popolo: nove campanili non è cosa da poco per un piccolo paese! E da quella visuale, nelle giornate di bel tempo, è possibile ammirare il «campanile» delle Alpi Cozie, il Monviso, nel momento più spettacolare: vigoroso, solitario, ma rabbuiato sullo sfondo arrossato nell’ora del tramonto.

    Aveva nove anni a quell’epoca «il Nini», come lo chiamavano in famiglia. E che cosa poteva fare un bambino di quell’età, ormai in vacanza, il 16 luglio di una calda estate del primissimo dopoguerra, se non giocare? A dire il vero, c’era chi, diversamente da lui, ma nelle stesse condizioni, trascorreva le giornate estive lavorando nei fertili campi della pianura. Ma il papà, Costanzo, aveva capito ben presto a sue spese che quel figlio, l’unico maschio, non era fatto per lavorare la terra.

    L’aria di casa era intrisa degli odori dell’aia: nella stalla c’erano le mucche e i vitelli, e poi i maiali, e intorno, galline e altri animali da cortile. C’erano le «gabbie» dei conigli, e, inoltre, oche, tacchini, faraone. Nella calura mattutina si udì quella voce, un po’ falsata in quanto amplificata dagli altoparlanti piazzati sulla sommità della chiesa parrocchiale in direzione dei quattro punti cardinali. Era la voce di don Mario, il giovane viceparroco che invitava al «Grest», il gruppo estivo della parrocchia.

    La voce invitava a iscriversi. La mamma, Margherita, e il papà, Costanzo, accolsero volentieri la proposta, e, come loro, anche altre famiglie del paese. Cominciarono in sette al «Grest». Nel giro di pochi anni il numero dei ragazzi dell’oratorio estivo sarebbe notevolmente cresciuto, superando i cento.

    Il giorno previsto per l’apertura don Mario si trovò di fronte dunque anche il piccolo Bernardino: notò gli occhi intelligenti e il sorriso aperto e sincero.

    Quell’estate, al «Grest», i giorni passarono velocemente, scanditi dall’«ora della luce» (al mattino s’iniziava con la preghiera, poi c’era il gioco e, infine, anche il tempo per i compiti delle vacanze), seguita dall’«ora del sole» (nel dopopranzo: giochi all’aperto e gite), e dall’«ora delle stelle» (canti, riflessioni sul Vangelo, preghiera). Purtroppo, venne presto l’autunno del ’50. Bernardino doveva cominciare la quarta elementare. Ma quell’ottobre gli riservò davvero una grande sorpresa.

    Don Mario si occupava in prima persona dell’educazione religiosa dei bambini e dei ragazzi. Al gruppo che aveva partecipato all’oratorio estivo propose di proseguire quell’esperienza anche nel periodo scolastico. Innanzitutto, i ragazzi sarebbero andati a messa la mattina, prima di andare a scuola. Il grave era che la funzione — dove i ragazzi avrebbero fatto i chierichetti — cominciava alle sei. Bernardino e altri sei ragazzi si fecero subito avanti...

    Alle 5,30 il viceparroco dava la sveglia: scendeva un po’ trafelato dal letto, si vestiva alla meglio e senza ancora essersi rasato e lavato si infilava rapido nel campanile per far suonare le campane. I rintocchi trovavano spesso Bernardino già sveglio, e, se dormiva, ci pensavano mamma o papà a destarlo. Quanto ai preparativi per uscire di casa era un autentico razzo. Si vestiva, si lavava velocemente e, con passo lesto, saliva, in una decina di minuti, fino alla chiesa parrocchiale, dedicata ai santi Giacomo e Filippo, dove trovava i compagni di servizio alla messa. Fu così per tutto l’anno scolastico.

    D’inverno a quell’ora del mattino era ancora buio, e la fatica era ancora maggiore se c’erano pioggia e neve. Quanta neve cadde quell’anno! Nulla, però, ostacolava la volontà e la determinazione di quei ragazzi. Un giorno Bernardino non riuscì a udire i rintocchi delle campane e mamma e papà, presi da compassione per quel figlio che si levava così presto ogni mattina, lo svegliarono un po’ più tardi. «il Nini», però, scoppiò a piangere: «È tardi», disse, protestando, «perché non mi avete chiamato in tempo?»

    E allora giù... trafelato, a prepararsi per uscire. Don Mario si commuoveva, finanche alle lacrime, nell’osservare quei bambinetti sempre così puntuali, poco dopo le 5,30 già davanti al portone della chiesa, sfidando ogni intemperie. E come doveva correre don Mario per non farli aspettare troppo tempo al freddo! Quello che poteva fare, era poco, ma importantissimo: aprire il grande portone d’ingresso della chiesa. Lì, almeno, i ragazzi potevano trovare riparo, mentre lui ripiombava nel freddo della casa parrocchiale a lavarsi e radersi.

    Bernardino dormiva al pian terreno della casa di famiglia, con la sorella Vittorina, la primogenita, e con la piccola Margherita — che lo chiamava «tello», diminutivo di «fratello» — e con i genitori. Saltato giù dal letto, di primo mattino, e lasciata la casa, costeggiava la chiesa del suo borgo, dedicata a San Sebastiano, costruita proprio dove un pilone votivo ricordava la peste del 1630. Giunto in quel punto svoltava a destra per la piazzetta Cesare Battisti e poi percorreva l’antica via dello Spirito Santo. Svelto, passava davanti a un bellissimo portone in legno scolpito a rilievo, si lasciava alle spalle il mulino, mentre lassù, davanti a lui, s’intravedeva la torre ottagonale del castello dei Seyssel d’Aix. Dopo aver svoltato ancora una volta a destra, pochi metri più avanti imboccava la salita «Soffietti», verso la parrocchia, all’incrocio con l’antica chiesina della Santissima Trinità. I ciottoli della «sternita» si facevano sentire sotto il suo passo lesto. Erano duecento piccoli passi, quelli che dalla salita portavano al «balcone» di Sommariva. Altri duecento a ritroso e, alle 7, Bernardino era di nuovo a casa, giusto in tempo per fare colazione.

    Dai primi tepori primaverili fino all’estate consumava la colazione secondo un rito sempre uguale: seduto sul secondo gradino della scala esterna appoggiava sul terzo la tazza con la zuppa di latte e pane e insieme ad essa teneva il libro, aperto alle pagine della lezione da imparare per il mattino stesso. Mangiava, studiava e accarezzava le orecchie del gatto che, tutto arrotolato su se stesso, si drizzava talora solo per afferrare un boccone di zuppa.

    Ogni giorno, alle 8, dopo aver oltrepassato la chiesa dei Serviti e imboccato il viale che diparte dalla stazione ferroviaria, Bernardino saliva i cinque gradini della scala in pietra della sezione maschile delle scuole elementari di Sommariva. Il grembiule nero gliel’aveva confezionato la mamma, che se n’intendeva, perché prima della guerra aveva lavorato in una filanda. Non avendo in casa l’attrezzatura per la tessitura si era rivolta a dei vicini che facevano quello di mestiere: aveva portato loro la materia prima, la seta dei bachi allevati in cascina con il gelso dei suoi campi e aveva poi tinto di nero e confezionato il grembiule, con il bel colletto bianco a punte arrotondate.

    Sui muri dell’aula, rettangolare e spaziosa, erano stati appesi il cartellone con i segnali stradali e le carte dell’Europa fisica e politica; quell’Europa che da soli cinque anni era tornata alla pace.

    Era il 7 maggio del ’51 quando venne a scuola il fotografo. In quella giornata, nella quarta B, si sarebbe parlato di scienze: sulla lavagna la maestra aveva scritto con il gesso il tema della lezione, in una calligrafia da manuale: «Insetti tra l’erba: grilli, coccinelle, moscerini, formiche». Quella volta, Dino — così era anche chiamato Bernardino dai compagni, per distinguerlo da altri che portavano lo stesso nome (allora molto diffuso a Sommariva per devozione al santo) — posò davanti all’obiettivo, con i capelli tirati da un lato e la scriminatura a sinistra, accanto alla «sua» maestra Caterina Einaudi.

    Per lei — e qualche volta, da grande, lo ammise — aveva un debole. Addirittura pianse quando venne a sapere che si sarebbe sposata. A Bernardino piaceva accondiscenderla in

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