Il Quinto Evangelo
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La chiave di lettura di queste pagine è l’ironia, artificio retorico che si affida - forse un po’ troppo - all´intelligenza del lettore. Il senso finale di questi frammenti e dell’elegante ironia è indurci a riflettere sulla nostra fedeltà a Cristo Signore.
Spesso le verità cristiane sono contestate dagli stessi credenti. «Di fronte a queste contestazioni sono costretto a osservare: "Ma guarda che nei discorsi di Gesù c’è proprio il contrario di quello che tu dici". E qualche volta aggiungo: "Forse non abbiamo tra le mani lo stesso vangelo …". Biffi propone trenta "frammenti" di un immaginario vangelo apocrifo, che un suo amico, il Commendator Migliavacca, avrebbe accidentalmente scoperto in un pellegrinaggio a Gerusalemme. Questi frammenti sono l’espressione
In questi anni in cui i Vangeli apocrifi sono tanto alla moda anche quello scoperto anni fa dal Commendator Migliavacca può essere utile per farci riflettere sulla nostra fedeltà a Cristo Signore.
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Anteprima del libro
Il Quinto Evangelo - Giacomo Biffi
autore
Una prudente avvertenza
La lettura di questo libretto presenta qualche rischio. C’è sempre un’incognita quando, come qui, si ricorre all’ironia: c’è la possibilità di essere fraintesi.
L’ironia, dicono i vocabolari, è la dissimulazione del proprio pensiero con parole che significano il contrario di ciò che si vuol dire, con il tono tuttavia di lasciar intendere il vero significato.
Chi si avvale di questo artificio retorico, di necessità si affida un po’ troppo all’intelligenza del lettore. Ma quando il lettore è avvisato, credo che si possa stare tranquilli.
Le prime pagine che qui s’incontrano – scritte vent’anni dopo, come dice l’intitolazione – rievocano le ragioni pastorali, il contesto, le vicende iniziali di questa minuscola pubblicazione, e possono essere d’aiuto a comprendere. Sul finale esse narrano i casi del commendator Migliavacca, e suppongono la conoscenza dell’intero racconto.
Ho l’impressione che l’attualità de Il quinto evangelo non sia svanita. A guardare la cristianità dei nostri giorni, ho piuttosto l’impressione che si sia accresciuta. Comunque l’averlo scritto non è ancora tra i miei rimorsi.
Card. Giacomo Biffi
Bologna, 10 gennaio 2007
Vent'anni dopo
Quando nel giugno del 1970 uscì Il quinto evangelo, feci un’esperienza assolutamente nuova per me: quella di essere, nel mio piccolo, «segno di contraddizione». A ogni prete o laico ecclesialmente impegnato in cui mi imbattevo, non riuscivo mai a indovinare se volesse abbracciarmi o prendermi a schiaffi.
Qualche cardinale – dopo una lettura naturalmente un po’ distratta dell’opuscolo – non ha frenato a lungo la sua indignazione: era mai possibile che un prete, anzi un parroco, avesse scritto un libro così dissacrante, così eversivo di tutti i princìpi fondamentali del cattolicesimo? Solo allora, nella mia innocenza, mi sono reso conto che il senso dell’umorismo non è obbligatoriamente richiesto per far parte del Sacro Collegio.
Vorrei qui richiamare l’origine di quelle pagine. Correvano gli anni della così detta «contestazione»: chi era in cura d’anime doveva discutere quasi ogni giorno coi giovani della parrocchia, e discutere praticamente su tutto, anche su ciò che fin’allora era sempre stato pacificamente accolto come parte del nostro patrimonio ideale.
Beninteso, i miei interlocutori avevano ogni mia simpatia: non andavano in discoteca, preferivano appassionarsi sui problemi teologici; non contestavano Cristo e il suo magistero, ma non ne riconoscevano più la voce in tante presentazioni del cristianesimo; non volevano farsi estranei o indifferenti alla Chiesa, solo ritenevano che la Chiesa in molte cose dovesse cambiare. In seguito, mi è avvenuto di rimpiangere quei momenti così fervidi e vivi.
Però capitava anche che, di fronte a certi enunciati avventurosi, fossi costretto a osservare: «Ma guarda che nei discorsi di Gesù c’è proprio il contrario di quello che tu dici». E qualche volta aggiungevo: «Forse non abbiamo tra le mani lo stesso vangelo…».
Ho steso quei «frammenti» nel luglio del 1969, sulla spiaggia di Senigallia, sotto lo sguardo amico e con il consiglio di don Giuseppe Lattanzio. Gli uomini in quei giorni arrivavano sulla luna, ma io nemmeno quasi me ne accorsi, alle prese com’ero col commendator Migliavacca.
Devo dire che ho indugiato un bel po’ prima di decidermi alla pubblicazione. C’era la facile previsione di venire catalogato irrimediabilmente tra i più ottusi «conservatori»; il che allora non mi faceva piacere. C’era soprattutto la speranza che altri si prendessero questa briga, più abili e più qualificati di me; almeno quelli, auspicavo, che nella loro intemerata «ortodossia» fino a poco prima erano stati inclini a giudicarmi troppo «aperto» e spregiudicato. C’era perfino il timore di perdere qualche amicizia. Si può comprendere perché le esitazioni durassero quasi un anno.
La mia intenzione non era certo quella di denunciare con dotte e severe argomentazioni esegetiche o metafisiche le più gravi ed evidenti aberrazioni in materia di fede. Avevano già elevato la loro voce uomini come Maritain, Daniélou, De Lubac, Von Balthasar: i più intelligenti e autorevoli pensatori della cristianità; la quale però – almeno nella sua «pars loquacior» – pareva non prestare ad essi la stessa attenzione che veniva elargita ai più spericolati e farneticanti.
Mi veniva fatto di augurarmi – proprio per essere aiutato nel mio lavoro di parroco – che qualcuno si decidesse a infliggere un piccolo colpo di spillo che servisse ad afflosciare un po’ quella specie di rigonfiamento ideologico, del