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Anni bui: Storie sconosciute di uomini in divisa ammazzati dal terrorismo dal 1956 al 1980
Anni bui: Storie sconosciute di uomini in divisa ammazzati dal terrorismo dal 1956 al 1980
Anni bui: Storie sconosciute di uomini in divisa ammazzati dal terrorismo dal 1956 al 1980
E-book750 pagine11 ore

Anni bui: Storie sconosciute di uomini in divisa ammazzati dal terrorismo dal 1956 al 1980

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Partendo dall'irredentismo tirolese, passando per le estremizzazioni degli anni di piombo e giungendo alla strage che devastò la stazione centrale di Bologna, Salvatore Lordi traccia le coordinate storico-politiche che portarono all'ascesa degli estremismi eversivi di destra e sinistra, descrivendo la lotta armata che insanguinò le strade del nostro Paese.

A pagare le conseguenze di questa guerra furono quegli "eroi del quotidiano" che, nell’adempimento del dovere, persero la vita, lasciando un vuoto incolmabile nei loro cari. E sono loro il fulcro di questa triste pagina di storia: i famigliari e gli amici dei tanti esponenti delle forze dell'ordine a raccontare il frantumarsi delle illusioni e la banalità del male.

Un saggio attraversato da un senso di rassegnata sconfitta e disillusione su una delle pagine più controverse della nostra storia.

LinguaItaliano
Data di uscita3 mag 2021
ISBN9788869347153
Anni bui: Storie sconosciute di uomini in divisa ammazzati dal terrorismo dal 1956 al 1980
Autore

Salvatore Lordi

Salvatore Lordi, giornalista, si è laureato in Lettere Moderne all'Università degli Studi di Roma "La Sapienza". Ha lavorato per “Il Gazzettino” di Venezia, le news di Radio Monte Carlo e “Correva l’Anno” per RAI 3. Attualmente lavora per le news di Radio Dimensione Suono. Osservatore delle vicende medio orientali e di terrorismo ha pubblicato, nel 2004 Quella Striscia di Pace... in Terrasanta; nel 2007 Betlemme assediata - I protagonisti raccontano; nel 2010 Fiumicino 17 dicembre 1973 - La strage di Settembre Nero; nel 2014 Terra di Nessuno - Il terrorismo internazionale nell’Italia del dopoguerra.

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    Anni bui - Salvatore Lordi

    Salvatore Lordi

    Anni bui

    Storie sconosciute di uomini in divisa ammazzati dal terrorismo dal 1956 al 1980

    Prefazione di Guido Salvini

    Storia

    © Bibliotheka Edizioni

    Piazza Antonio Mancini, 4 – 00196 Roma

    tel: (+39) 06. 4543 2424

    info@bibliotheka.it

    www.bibliotheka.it

    I edizione, maggio 2021

    e-Isbn 9788869347153

    Disegno di copertina: Riccardo Brozzolo

    Salvatore Lordi

    Salvatore Lordi, giornalista, si è laureato in Lettere Moderne all’Università degli Studi di Roma La Sapienza. Ha lavorato per Il Gazzettino di Venezia, le news di Radio Monte Carlo e Correva l’Anno per RAI 3. Attualmente lavora per le news di Radio Dimensione Suono.

    Osservatore delle vicende medio orientali e di terrorismo ha pubblicato, nel 2004 Quella Striscia di Pace... in Terrasanta; nel 2007 Betlemme assediata – I protagonisti raccontano; nel 2010 Fiumicino 17 dicembre 1973 – La strage di Settembre Nero; nel 2014 Terra di Nessuno – Il terrorismo internazionale nell’Italia del dopoguerra.

    La ricerca di Salvatore Lordi riempie una pagina vuota della nostra memoria, porta alla luce storie che sinora erano rimaste solo ricordi personali e familiari, a rischio di diradarsi e scomparire. Ma grazie a questo libro, che andrebbe letto anche nelle scuole, non sarà così.

    Guido Salvini, Magistrato

    A tutte le vittime del dovere

    Polizia di Stato

    "La vita dei morti è riposta nel ricordo dei vivi". Il passo delle Filippiche di Cicerone mi è tornato in mente leggendo questo libro che ha il merito di toccare argomenti a me molto cari.

    In primo luogo, il tema della memoria, che reca con sé l’imperativo categorico di onorare il ricordo dei tanti, troppi, poliziotti che hanno sacrificato la propria vita per tutelare la nostra.

    Il rispetto del loro sacrificio si realizza, in primo luogo, evitando che il tempo faccia cadere nell’oblio il loro ricordo. Ecco perché cerchiamo sempre più di farci promotori, ovvero di aderire ad iniziative che rendano le nostre comunità custodi di tale memoria.

    Scuole, piazze, vie, targhe e iniziative commemorative sono le testimonianze più visibili, ma non le uniche, che i nostri caduti sono diventati patrimonio collettivo e sono entrati nel lessico quotidiano.

    Non si tratta di sterili iniziative ispirate al rispetto di formali rituali, ma il segno tangibile di una rinnovata consapevolezza che la solidità delle nostre istituzioni democratiche e della nostra sicurezza riposa anche sul sacrificio di chi ci ha preceduto.

    Ma il libro affronta un altro tema delicato che emerge dalle testimonianze, spesso toccanti, dei superstiti. Purtroppo, infatti, questi efferati episodi delittuosi lasciano sull’asfalto, non solo i poliziotti, ma trascinano con loro anche i congiunti più stretti. Figli, genitori, coniugi che devono subire non solo lo strazio della perdita del congiunto ma anche la privazione, sovente, dell’unica fonte di reddito. Ecco perché una società consapevole del sacrifico dei propri servitori deve farsi carico del sostegno, psicologico ed economico, delle famiglie che hanno perso un proprio caro.

    Infine, un ultimo argomento che ci chiama tutti in causa. Ciascuno con le proprie responsabilità. Il tema del cosa fare per evitare che tutto questo accada ancora.

    Non so se sia una scelta consapevole o il frutto di una fortuita coincidenza, ma questo libro viene pubblicato a quarant’anni dalla promulgazione della legge 1° aprile 1981, n. 121. Si tratta della legge con la quale fu rifondata la Polizia di Stato, tant’è che oggi festeggiamo la ricorrenza della fondazione della nostra Istituzione proprio il 10 aprile, data di pubblicazione della legge sulla Gazzetta Ufficiale, per sottolineare il legame profondo con quel provvedimento normativo.

    Ebbene con quella legge trovarono finalmente accoglimento una serie di sollecitazioni per una polizia più democratica ed efficiente. Istanze che, emerse sin dal principio degli anni ‘70, erano diventate indifferibili nella stagione degli Anni bui, con un terrorismo endogeno che aveva puntato al cuore dello stato e una criminalità organizzata quanto mai efferata.

    Con quello stesso spirito oggi abbiamo avviato una stagione di rinnovamento. Sono stati elevati i titoli di studio per l’accesso ai nostri ruoli, rinnovati i programmi di formazione, ammodernate le metodologie di addestramento, rinnovati gli equipaggiamenti.

    Tutto questo con l’ambizione di una Polizia di Stato sempre più efficiente, per evitare che pagine, così tragiche, debbano essere più scritte.

    Il Capo della Polizia, Direttore generale della Pubblica Sicurezza,

    Prefetto Franco Gabrielli

    Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri

    Palmerio Arìu. Benito Atzei. Vittorio Battaglini. Niceta Caracuta. Antonino Casu. Antonio Chionna. Enea Codotto. Ippolito Cortellessa. Pietro Cuzzoli. Giovanni D’Alfonso. Luigi De Gennaro. Antioco Deiana. Franco Dongiovanni. Antonio Ferraro. Lorenzo Forleo. Enrico Riziero Galvaligi. Francesco Gentile. Giuseppe Gurrieri. Santo Lanzafame. Oreste Leonardi. Andrea Lombardini. Ezio Lucarelli. Felice Maritano. Luigi Maronese. Luciano Milani. Donato Poveromo. Romano Radici. Valerio Renzi. Domenico Ricci. Antonino Rubuano. Giuseppe Savastano. Euro Tarsilli. Vittorio Tiralongo. Mario Tosa. Emanuele Tuttobene. Antonio Varisco.

    Dobbiamo ricordarli uno per uno, fissarne nella memoria il nome e i volti. Abbiamo il dovere morale di non dimenticare, affinchè, lontane dalla cronaca, non siano vittime perdute in pagine sbiadite della Storia. Sono i nomi dei Carabinieri di ogni ordine e grado ritenuti colpevoli, dagli estremismi che ne decretarono, organizzarono ed eseguirono l’assassinio, di essere stati leali servitori dello Stato.

    Uomini da eliminare perchè ricoprivano incarichi strategici negli organismi deputati alla sicurezza dello Stato. Uomini divenuti bersaglio, semplicemente perchè indossavano l’uniforme. Sono vittime del terrorismo interno, di una guerra senza un fronte, senza un nemico ufficiale. Una guerra fratricida in tempo di pace, scoppiata a fine anni ‘50 in Alto Adige, per infuocare poi l’Italia a cavallo tra gli anni ‘70 e il decennio successivo, nella stagione degli anni di piombo. Trame eversive, ordite da opposte ideologie dirette a destabilizzare l’ordine democratico nazionale, hanno violentemente e subdolamente negato un futuro a questi uomini, a questi servitori dello Stato, a questi Carabinieri. Nella provincia altoatesina l’Arma ha perso quattro vite a causa del terrorismo secessionista; a Peteano Ordine Nuovo ne ha stroncate tre; quindici sono le vittime della Benemerita attribuite alle Brigate Rosse, mentre nove quelle ricondotte a Prima Linea e ad altri gruppi della sinistra eversiva. I Nuclei Armati Rivoluzionari, di segno opposto, hanno privato di un avvenire cinque nostri uomini. Con loro, sono caduti nell’adempimento del dovere o sono sopravvissuti con cicatrici indelebili decine di servitori dello Stato, anche appartenenti alle altre Forze di Polizia, alle Forze Armate e alla Magistratura. E del resto, come vuole la strategia del terrore, anche la società civile ha dovuto contare le proprie vittime: dirigenti d’azienda, giornalisti, imprenditori, sindacalisti, impiegati, operai, studenti, pensionati.

    Siamo pertanto tutti noi, nessuno escluso, a dover custodire il dolore della Loro assenza e valorizzare il senso del Loro sacrificio, rinnovandone continuamente il ricordo. Perchè quanto accaduto non si perda in una sterile, stanca litania di commemorazioni ma rimanga quale vivido insegnamento e ammonimento. Perchè non sia relegato alla sfera privata delle famiglie, dal momento che, viceversa, appartiene a ognuno di noi, alle Istituzioni e al mondo civile.

    Un percorso, quello disegnato in questo libro, disegnato di parole e di silenzi, difficili e rispettosi, autentica testimonianza a più voci che permette di ascoltare coloro che hanno accompagnato i nostri Carabinieri nel cammino della vita e ne hanno condiviso le esperienze personali. Sono le madri, i padri, le mogli, i figli, i fratelli, i colleghi e gli amici, a cui è stato troppo presto negato il diritto di goderne gli affetti. Vittime anche loro, segnate profondamente dalla perdita dei propri cari, con le quali l’Arma mantiene saldo un legame di vicinanza e di affetto inestinguibili.

    Queste pagine permettono, una volta di più, di rendere onore ai nostri Colleghi, riaffermando l’idea che la memoria non appartiene solo alla singola persona, o al singolo nucleo famigliare, ma alimenta il significato della coesione collettiva e arricchisce la Storia della Nazione.

    Il Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri

    Generale di Corpo d’Armata Giovanni Nistri

    Comando Generale della Guardia di Finanza

    È con vero Piacere che ho accolto l’invito di redigere la prefazione di questo interessante libro, la cui lettura fornisce un’occasione imperdibile per riflettere su una delle vicende più tristi della storia del nostro Paese che, conseguentemente, ha segnato anche il percorso della Guardia di Finanza.

    Il terrorismo separatista dell’Alto Adige rappresenta, infatti, una parentesi storica che ha lasciato ferite profonde nelle forze di polizia italiane, divenute bersaglio degli attentati terroristici compiuti dagli irredentisti sudtirolesi.

    Molti, troppi furono i Finanzieri assassinati nel decennio di sangue che ebbe inizio nel 1956 e perdurò fino alla fine degli anni Sessanta. Il ricordo del dolore e delle ingiustizie del passato costituiscono un viatico fondamentale, affinchè le nuove generazioni siano garanti della pace, dell’armoniosa convivenza e del benessere individuale e collettivo.

    Il merito dell’opera di Salvatore Lordi sta proprio in questo: rinnovare la memoria delle vittime del terrorismo alto atesino, ricorrendo ad una tecnica narrativa ricca di testimonianze che valorizzano le emozioni di quegli Uomini e i particolari di quelle vicende attraverso i ricordi di mogli, figli, fratelli e sorelle. Un’occasione unica – soprattutto per i più giovani – per conoscere da vicino o riscoprire le figure dei finanzieri Bruno Bolognesi, Salvatore Cabitta, Giuseppe D’Ignoti, Martino Cossu e Raimondo Falqui, Fiamme Gialle valorosissime accomunate dalla brevità delle loro esistenze, barbaramente recise da vili attentati terroristici.

    Gen. C.A. Giuseppe Zafarana

    Comandante Generale della Guardia di Finanza

    Prefazione

    Sono centinaia gli appartenenti alla Polizia di Stato, ai Carabinieri, ai militari della Guardia di Finanza e quelli dell’Esercito vittime del terrorismo di sinistra, di destra e internazionale, caduti dagli anni ‘50 ad oggi.

    Quasi tutti sono dimenticati, non si ricordano nemmeno i loro nomi salvo qualche casuale eccezione dovuta a circostanze particolari, come il maresciallo Oreste Leonardi, ucciso in via Fani, ombra e caposcorta di Aldo Moro. Ma i più sembrano dimenticati.

    Salvatore Lordi ha voluto ricordarli tutti scrivendo la storia di questi anni bui, in cui la maggior parte di essi, giovani provenienti dal Sud, vennero assassinati, quasi sempre a tradimento, per aver scelto di servire lo Stato e la collettività.

    Il suo racconto parte dal terrorismo sudtirolese, quello degli anni ‘50 e ‘60, che vide nel 1967 a Cima Vallona, con la morte di quattro militari uccisi da una trappola esplosiva, la prima strage politica dell’Italia repubblicana.

    Il sacrificio, in quegli stessi anni, di Filippo Foti e di Edoardo Martini, raccontato in uno dei capitoli del libro, evoca anche un mio ricordo personale. Ero ancora un ragazzino e ogni estate con la famiglia prendevo un treno che fermava alla stazione di Trento per raggiungere poi con un pullman il paese ove avremmo passato un mese di villeggiatura in montagna. Alla stazione di Trento, durante l’attesa, mi ero spesso soffermato davanti al piccolo monumento in fondo alla pensilina che ricordava la morte dei due agenti della Polizia ferroviaria. Avevo chiesto a mio padre, anche lui magistrato, chi fossero quelle due persone e cosa fosse successo e lui mi aveva spiegato che erano due poliziotti che si erano sacrificati per sventare un attentato. Avevano portato lontano dal convoglio e dalla gente che aspettava una valigetta con un ordigno esplosivo trovata in uno scompartimento, ma prima di potersi a loro volta allontanare erano stati investiti e uccisi dallo scoppio. Quel racconto mi aveva molto impressionato.

    Ora conosco meglio quella storia e ancor meglio la ricordiamo tutti grazie al libro di Salvatore Lordi. Era il 30 settembre 1967, il treno si chiamava Alpen Express, era diretto a Roma, era un giorno affollato e di festa a Trento perché si concludeva il Festival del Cinema e l’ordigno era probabilmente di marca sudtirolese. Nel libro ci sono, per la prima volta, le toccanti testimonianze di Stefano Foti e Luisa Martini, fratello e figlia dei due caduti. Molto più tardi io stesso ho incontrato più volte nel corso del mio lavoro di magistrato la morte di uomini in divisa.

    Nell’autunno 1981, proprio all’inizio della mia carriera, ero in tirocinio accanto al sostituto Procuratore di turno. Quella mattina era arrivata la notizia che due brigatisti, fermati alla Stazione Centrale di Milano per un semplice controllo, avevano aperto il fuoco e ucciso un agente di Polizia, Eleno Viscardi. Erano stati poi arrestati da altri agenti. Arrivammo subito in Questura e uno degli sparatori si trovava in una stanza della Digos, assicurato con le manette ad un calorifero, cupo e frastornato. In quei momenti non ho potuto fare a meno di pensare che quel giovane aveva appena ucciso un giovane della sua stessa età, senza giustificazione alcuna, solo perché portava una divisa.

    Quell’arrestato durante l’interrogatorio aveva fatto qualche ammissione e tanto gli bastò per essere condannato a morte dai suoi compagni. Fu strangolato poco tempo dopo, al termine di un processo sommario, nel carcere di Cuneo da altri brigatisti come traditore.

    Gli elenchi ufficiali delle vittime sono approssimativi per difetto. Mancano molte guardie giurate cadute nell’adempimento del dovere, uccise durante rapine in banche commesse da gruppi terroristici per autofinanziarsi.

    Quando ero Giudice Istruttore, ho raccolto la confessione degli assassini di una di queste vittime dimenticate. Il caduto era Emilio Vittorio Carloni, di 27 anni, guardia giurata della Mondialpol. Prestava servizio la mattina del 18 novembre 1982 dinanzi ad un’agenzia del Banco di Napoli in un viale di Milano. Due terroristi dei NAR, un gruppo di estrema destra, si erano presentati dinanzi alla banca spianando le mitragliette e intimandogli di arrendersi. Carloni aveva invece coraggiosamente reagito, aveva aperto il fuoco sventando la rapina ma era stato abbattuto dai terroristi. Proprio poco tempo prima Carloni, delegato sindacale della sua categoria, aveva chiesto, inutilmente, che a tutte le guardie fosse fornito un giubbotto antiproiettile, quel giubbotto che avrebbe potuto salvarlo.

    Il tratto che contraddistingue il lavoro di Salvatore Lordi, oltre alla precisa e drammatica ricostruzione di ogni delitto e alla sua collocazione nella storia di quegli anni, è l’aver per la prima volta dato voce ai famigliari, genitori, mogli, figli, fratelli di quelle vittime. Nessuno o quasi li aveva mai cercati e ascoltati, forse perché congiunti di vittime non illustri come i magistrati, i politici, i giornalisti.

    I caduti provenivano spesso da famiglie di origine contadina, con vite di sacrifici, alcune in passato emigrate in Germania o in altri paesi per sfuggire alla disoccupazione, sino a quando l’arruolamento nella Polizia, nell’Arma dei Carabinieri o nell’Esercito non aveva offerto la prospettiva di una vita più sicura.

    I racconti sono le cronache, sino a quel tragico giorno, di famiglie normali che normali non hanno potuto più essere dopo l’assassinio del loro familiare. Tuttavia, come spesso si legge nelle testimonianze, quelle famiglie, private del marito e del padre, hanno continuato a lottare, a lavorare, ad accudire i figli rimasti orfani e molti di questi, una volta cresciuti, hanno raccolto il messaggio del padre arruolandosi a loro volta nella Polizia o nei Carabinieri per continuare un impegno in favore della collettività che era stato troncato dagli assassini.

    È difficile scegliere tra le tante storie, quasi corali, che l’Autore ha raccolto grazie agli incontri con i familiari dei caduti. Tutte meritano di essere lette.

    Tra i tanti racconti mi hanno in particolare colpito le parole di Maurizio Cusano, figlio del vicequestore Francesco Cusano ucciso a Biella il 1° settembre 1976 in un agguato brigatista. Il padre, racconta Maurizio che allora aveva solo 16 anni, intendeva il suo lavoro come una sorta di missione rivolta alla cittadinanza. Per questo non aspirava alla carriera o ad una visibilità mediatica, utilizzava l’auto privata per evitare di impegnare altro personale e non mettere a rischio vite umane. "Il tuo prossimo è a fianco a te, non bisogna andare lontano" diceva, e tante storie lo testimoniano come quella, rievoca il figlio, di un’anziana donna affetta da una rara patologia per la quale Francesco Cusano si era adoperato nella ricerca di una medicina che poteva essere acquistata solo all’estero.

    Il maresciallo Sergio Bazzega era stato ucciso, insieme al vicequestore Vittorio Padovani, il 15 dicembre 1976 a Sesto S. Giovanni durante una perquisizione nella casa del brigatista Walter Alasia. Il giovane, vistosi scoperto, aveva improvvisamente aperto il fuoco. Bazzega non aveva reagito come avrebbe potuto perché sulla sua traiettoria di tiro c’erano i genitori del brigatista. La moglie Luciana ricorda che Sergio era già stato colpito pochi mesi prima, nel maggio del 1976, dal terremoto in Friuli che aveva distrutto la sua Gemona, il paese ove era nato. Quando la mattina di quel 15 dicembre si erano presentati a casa due colleghi, prima ancora che si sentissero di comunicarle tutta la gravità della notizia, il bambino di due anni e mezzo, che era presente, aveva capito, come accade ai bambini, e aveva detto "Papà non torna più".

    Il brigadiere di Polizia Antonino Custra è stato ucciso il 14 maggio 1977 in via De Amicis a Milano durante un attacco alla Polizia al margine di una manifestazione. La fotografia di uno sparatore in mezzo alla strada con la pistola e il passamontagna è rimasta come una tragica icona di quegli anni. La moglie Anna Sito racconta gli anni del loro fidanzamento quando ella abitava ancora a Napoli e Antonino la chiamava da Milano dalle cabine telefoniche, che si usavano al tempo, consumando un sacchetto di gettoni. Poi nel settembre 1976 si erano sposati ma mancavano pochi mesi al 14 maggio 1977, il tragico giorno in cui il brigadiere era andato in piazza in servizio di ordine pubblico dopo aver scambiato il turno con un collega che glielo aveva chiesto. Anna aspettava una bambina che sarebbe nata il 1° luglio e che il suo Antonino non avrebbe mai visto.

    Nei racconti ci sono tanti piccoli eventi di vita familiare. L’appuntato Giovanni D’Alfonso era stato colpito il 4 giugno 1975 nello scontro a fuoco in una cascina vicino ad Acqui Terme che aveva consentito la liberazione dell’industriale Vallarino Gancia rapito dai brigatisti. D’Alfonso era morto dopo cinque giorni di agonia. Il figlio Bruno ricorda che il padre, nei pomeriggi trascorsi insieme al cinema, gli copriva gli occhi con le mani, con un gesto di attenzione e di protezione, quando c’era qualche scena che poteva spaventare il bambino. "Con il papà mi sentivo al sicuro" racconta. Talvolta nel fine settimana il padre lo portava in caserma e, mentre sbrigava un po’ di lavoro arretrato, lo faceva sedere in ufficio davanti alla sua macchina da scrivere e Bruno batteva sui tasti un po’ a casaccio ma così si sentiva anche lui Carabiniere. Alla fine, dopo la morte del padre, anche Bruno si era arruolato nell’Arma.

    Antonio Albanese, funzionario della DIGOS di Venezia, viene ucciso il 12 maggio 1980. Anche lui è colpito sotto casa, a Mestre. Sua moglie Teresa stava aspettando un bambino che nascerà in ottobre. "Sarebbe stato un ottimo padre racconta lui che amava tanto i bambini, ma non ho sentimenti di odio, di vendetta, di rancore nei confronti di coloro che mi hanno portato via Alfredo, non li ho nemmeno trasmessi ai figli e spero in questo modo di aver onorato la sua memoria".

    Il commissario Antonio Esposito era caduto a Nervi il 21 giugno 1978 colpito da tre terroristi mentre si trovava da solo su un autobus che lo stava portando in ufficio. Aveva fatto parte del Nucleo Antiterrorismo della Liguria. In quei giorni a Torino, ove Esposito era stato in servizio negli anni precedenti, si stava aprendo il dibattimento alla colonna torinese delle Brigate Rosse. Quella mattina la moglie Anna Maria, assistente di Polizia, lo aveva accompagnato alla fermata dell’autobus e il marito, abbracciandola per l’ultima volta, le aveva detto, come in un presentimento, "Secondo me oggi le Brigate Rosse festeggeranno l’inizio del processo di Torino a modo loro". Purtroppo, non si era sbagliato.

    È impressionante leggere in questo libro la serie ininterrotta, soprattutto negli anni ‘70, degli agguati che hanno avuto come obiettivo servitori dello Stato, agguati studiati con metodo e freddezza, con pedinamenti sin sotto casa e la scelta del momento in cui le vittime, colpite quasi sempre alle spalle, erano più indifese.

    Delitti tragicamente gratuiti perché i terroristi, chiusi nei loro recinti ideologici, erano incapaci di comprendere la complessità della società in cui vivevano e di rendersi conto che ben pochi di coloro cui si rivolgevano, gli operai in primo luogo, li avrebbero seguiti.

    Sin dalla sconfitta della lotta armata, negli anni ‘80, e dalla fine delle stragi dell’estrema destra, da piazza Fontana in poi abbiamo assistito a inutili tentativi di ex terroristi di nobilitare o almeno giustificare le loro azioni. Come se si fosse trattato di una specie di guerra civile che invece non era tale perché era stata dichiarata da essi soli contro la democrazia e contro tutto il popolo italiano.

    Nonostante questi tentativi quello che emerge anche dalle pagine di Salvatore Lordi rimane infatti la cronaca di azioni condotte senza alcuna nobiltà, piuttosto con una metodicità da serial killer la cui mente era invasa, se non da una follia vera e propria, da una follia ideologica tra l’altro non diversa nella sua essenza dalla follia del terrorismo politico – religioso degli anni 2000.

    E nessun tentativo di giustificazione può sminuire il sacrificio di quelle vittime in divisa.

    La ricerca di Salvatore Lordi riempie una pagina vuota della nostra memoria, porta alla luce storie che sinora erano rimaste solo ricordi personali e familiari, a rischio di diradarsi e scomparire. Ma grazie a questo libro, che andrebbe letto anche nelle scuole, non sarà così.

    Guido Salvini Magistrato

    Capitolo 1

    È trascorso circa un decennio dalla fine della Seconda Guerra Mondiale quando l’Italia, che si è appena lasciata alle spalle una guerra pagata con circa mezzo milione di morti, deve fare i conti con i primi attentati. È quello che in seguito sarà definito come terrorismo separatista dell’Alto Adige. Tralicci della corrente, caserme, stazioni, centrali elettriche, ma soprattuto gli uomini delle forze dell’ordine sono fatti oggetto di attacchi dinamitardi da parte degli irredentisti austriaci che non si riconoscono appartenenti ad una nazione, quella italiana, della quale sono lontani per lingua, cultura e tradizioni. In questa guerra guerreggiata in tempo di pace e combattuta con bombe, mine antiuomo e agguati, il nostro Paese lascerà sul terreno 16 vittime, in un decennio critico dove il Governo di Roma proverà a mostrare i muscoli.

    Il problema arriva da lontano e risale al trattato di Saint Germain del 1919 quando, dopo la vittoria italiana nella Prima Guerra Mondiale, il confine viene spostato al Brennero con l’annessione dell’Alto Adige. In seguito, nel ventennio fascista, la vicenda assume contorni autoritaristici con Mussolini che provvederà a cancellare ogni traccia dell’identità tedesca con una forte immigrazione interna. Nel 1946, subito dopo la guerra, si cerca di mettere riparo alla questione con l’accordo De Gasperi – Gruber, che venne firmato il 5 settembre a Parigi e che avrebbe dovuto avviare un processo più autonomistico. Ma le cose non stanno esattamente così.

    Con l’inizio dell’industrializzazione i tirolesi denunciano una ripresa della migrazione italiana nelle loro terre e accusano Roma di nascondere la verità, cioè quella di creare una maggioranza italiana in Alto Adige. La risposta indipendentista non arriva molto tardi e già dalla metà degli anni Cinquanta divampa nelle valli con sporadici e maldestri atti di ribellione contro le forze dell’ordine. È proprio in questo clima di forte ostilità che matura il primo attacco frontale dei terroristi contro i simboli dello Stato. Una vicenda che non tutta la storiografia ha tentato di sollevare dalla patina del tempo e che segna l’avvio, un anno prima della nascita del BAS (Comitato per la liberazione dell’Alto Adige), di una strada senza ritorno per l’irredentismo tirolese.

    Tutto ha inizio la sera di Ferragosto del 1956 quando il militare della Guardia di Finanza Raimondo Falqui è assassinato a bastonate da un gruppo di valligiani ubriachi (ma con la consapevolezza di quello che stavano per compiere), e lasciato agonizzante sul greto di un ruscello a Fundres, in Val Pusteria.

    Dieci anni prima, nel 1946, era accaduto qualcosa di simile a Caldaro, un paesino di settemila anime della provincia autonoma di Bolzano. È il 4 novembre e come ogni anno in quel giorno si festeggia la vittoria italiana nella Prima Guerra Mondiale. Anche nel paese altoatesino l’anziano sindaco Attilio Petri pensa di celebrare l’avvenimento prendendo a pretesto la fine del secondo conflitto mondiale, e issa sul balcone del comune la bandiera italiana. Un gesto che, probabilmente, non risulta gradito a qualche suo concittadino che, nella notte, fa sparire il tricolore dal pennone. Non passa molto tempo e una sera, mentre sta per rincasare, viene aggredito mortalmente a bastonate da una banda di scalmanati. I colpevoli, tre giovani di quelle zone che poi racconteranno di aver voluto dare una lezione al settantaduenne primo cittadino, saranno assicurati alla giustizia solo molti anni più tardi.

    Ma la storia si ripete esattamente dieci anni dopo, nel 1956, nei confronti di Raimondo Falqui, il 22enne finanziere nato a Lula, in Sardegna. Qualche anno prima aveva frequentato il corso allievi a Roma per poi essere trasferito al Comando Compagnia della Guardia di Finanza di Brunico (BZ), e successivamente assegnato al Distaccamento di Fundres. Qui le Fiamme Gialle hanno ordini severi nella sorveglianza del traffico di frontiera con l’Austria e di operazioni di pattugliamento del confine.

    Raimondo Falqui

    È la sera di un caldo Ferragosto del 1956. Sono le 21 quando Raimondo e il suo collega Francesco Lombardi, liberi dal servizio, escono dalla caserma di Fundres, nei pressi di Vandoies, per raggiungere lo spaccio Enal della vicina cittadina dove acquistare le sigarette. Hanno poche ore di libera uscita, sono in abiti civili, con scarpe da ginnastica e senza armi. Il locale è ormai conosciuto bene dai due militari per essersi recati lì altre volte nei mesi precedenti.

    È una giornata di festa, quella dell’Assunzione, in tanti si ritrovano per divertirsi e bere, ed anche lì, quella sera, ci sono gruppi di amici intorno ad un tavolo, accompagnati da fiaschi di vino e dalla musica delle fisarmoniche. Anche Raimondo e Francesco, sentendo l’allegria degli avventori, decidono di fermarsi scambiando poche chiacchiere con alcuni di loro. Anzi, proprio Raimondo offre grappa a tutti in segno di amicizia.

    Alle 23, ora di consueta chiusura dello spaccio, i due militari, prima di uscire per raggiungere la caserma, sollecitano alcuni clienti, un po’ avvinazzati e che ancora si attardano tra un bicchiere e l’altro, a guadagnare l’uscita. Un invito bonario e semplice il loro, senza autoritarismi, dovuto al carattere e al ruolo professionale che svolgono, per ricordare che esistono delle regole che bisogna rispettare. L’esortazione, a quanto pare, cade nel nulla. E in particolare non viene raccolta da quel gruppo di ragazzi ai quali Raimondo aveva, poco prima, mostrato gesti di amicizia e cortesia. Sono loro, infatti, che, inebriati dall’alcol, iniziano prima a sbeffeggiarlo, bisbigliando parole in lingua tedesca, per poi tentare di farlo inciampare impedendone l’uscita. "Bisogna andare via il più presto possibile – sussurra Falqui al commilitone – per evitare che la situazione possa degenerare".

    In quella calca di gente sempre più esagitata, i due escono a fatica dal locale ed evitando di reagire anche solo a parole, si incamminano verso la strada che li riporta in caserma. Nel tragitto della mulattiera Raimondo è convinto che il peggio sia passato. Lo dimostra anche la sua andatura meno veloce di Francesco che, invece, è molto più lontano tanto da non riuscire a vedersi l’uno con l’altro. È notte fonda, buio totale per quelle stradine di cui il militare sardo non è un grande esperto, nonostante le abbia percorse già altre volte. Circostanze che non intimoriscono il gruppo di avvinazzati che poco prima si erano presi la libertà di schernire i due militari.

    Sono attimi e la banda, composta da otto persone, accerchia Raimondo che era inciampato per le cattive condizioni dello sterrato. Calci, pugni, bastonate, sassate. Pochi minuti e il suo corpo, impastato di sangue e terra, è reso irriconoscibile dalla brutalità dell’aggressione. La vittima, intorpidita dalla bestialità degli aguzzini, cerca di trovare la forza di balbettare qualcosa per richiamare l’attenzione di Raimondi che percepisce movimenti strani, ma che ancora non ha realizzato il dramma che si sta vivendo a pochi passi da lui. Ora nel fondo della valle non è più buio. Sul greto del torrente uno dei carnefici, con una torcia, sta illuminando il corpo esanime di Falqui. Mentre due lo tengono per le braccia, un terzo si accanisce pestandolo con gli scarponi chiodati, ma non è abbastanza. Nel tentativo di sorreggersi alla struttura di legno del piccolo ponte come per proteggersi, il militare lulese viene oltraggiato ancora una volta. Uno degli otto manigoldi gli strappa la camicia bagnata di sangue e poi lo scaraventa, con una spinta, nel torrente.

    Oramai è chiaro! Per Lombardi, a Raimondo è accaduto qualcosa. Con il fiatone in gola arriva a dare l’allarme ai suoi colleghi, (una decina quelli di stanza a Fundres) raccontando la disavventura appena capitata e preoccupato per averlo perso di vista.

    È passata da poco la mezzanotte quando Lombardi, che ha comunicato la vicenda anche alla stazione dei Carabinieri di Vandoies, insieme ad altri colleghi si mette in cammino ripercorrendo la stessa zona precedente con un campo d’azione più vasto. Non c’è tempo da perdere. Si batte il territorio palmo a palmo con la poca luce delle torce chiamando Raimondo nella speranza di raggiungerlo il prima possibile, ma la notte scorre e si fa sempre più flebile la possibilità di trovarlo in vita. Sono le 4.30 circa e un carabiniere fa la macabra scoperta. Raimondo viene ritrovato accanto al ponte di legno del rio Fundres, con i piedi rivolti verso la strada e la testa in parte immersa nell’acqua. Sembra ancora respirare, secondo i militari, ma la sua agonia ha i minuti contati. Senza poter dire una parola e senza mai riprendere conoscenza, spira poco dopo i soccorsi.

    Deve ancora spuntare il sole il 16 di agosto a Fundres e la macchina della giustizia si è messa già in moto per identificare l’autore o gli autori dell’agguato. Passano infatti poche ore dalla morte di Raimondo Falqui, il cui corpo è trasportato nella camera mortuaria del cimitero di Vandoies prima di arrivare all’Istituto di medicina legale di Padova per l’autopsia, che i Carabinieri operano i primi arresti. Sono 12 gli indagati (due vengono rilasciati subito dopo), trasferiti nelle carceri di Bressanone, e al momento i loro nomi sono tenuti nel più stretto riserbo, mentre giungono di buon mattino il Pretore di Bressanone Ugo Giudiceandrea e il comandante della Legione della Guardia di Finanza di Trento, il colonnello Amedeo Palmese. Si cerca di ricostruire quella giornata di Ferragosto del giorno precedente. Si passano al setaccio le loro vite, i loro movimenti, le attività lavorative di ognuno per capire cosa abbia potuto portare ad una violenza così inaudita nei confronti della vittima.

    I militari dell’Arma, nella prima ispezione, individuano poco vicino al luogo del ritrovamento del corpo alcune mazze di legno che sono oggetto di analisi da parte degli esperti. Insieme alle forze dell’ordine c’è Mario Falqui, il fratello della vittima. È partito la notte stessa della tragedia, avvisato dai Carabinieri di Lula. Un viaggio straziante il suo, insieme al cugino più caro, iniziato con la nave salpata da Olbia destinazione Genova. Poi una lunga traversata in treno fino a Trento e con un pulmann fin su in montagna. Una corsa contro il tempo per arrivare ad abbracciare per l’ultima volta il caro fratello, di qualche anno più grande, e con il quale aveva trascorso gli anni più belli della gioventù.

    È il pomeriggio del 18 agosto, il questore di Bolzano ordina la chiusura immediata dello spaccio dell’Enal e mette agli arresti Luigi Bergmeister, il figlio della proprietaria del locale. Qualche ora prima è stato arrestato anche Augusto Weissteiner. Con loro sale a 14 il numero delle persone fermate. Intanto arrivano le prime ammissioni. Durante i lunghi interrogatori si viene a sapere che a partecipare materialmente all’eccidio di Raimondo sono stati in sei, gli altri avrebbero assistito impassibili all’agguato. La posizione più grave è quella di Luigi Ebner che dopo essersi accanito ferocemente sfregia ulteriormente la vittima strappandogli di dosso la camicia oramai insanguinata, mentre i fratelli Isidoro e Paolo Unterkircher sono coloro che finiscono a randellate il militare.

    A diradare dubbi sulle cause della morte arriva nelle stesse ore l’esito dell’autopsia eseguita dal prof. Aldo Franchini, ordinario di medicina legale dell’Università di Padova. Il luminare esclude l’ipotesi che la vittima possa aver battuto la testa nel tentativo di sfuggire alla barbara aggressione. La perizia parla chiaro: il militare è deceduto in seguito al colpo di un bastone che gli ha frantumato la base del cranio. Numerose le ecchimosi rinvenute in varie parti del corpo. Probabile che sia stato imbavagliato per evitare che potesse chiedere aiuto.

    Sono le ore 11 di lunedì 20 agosto 1956. Nel paesino di Vandoies Pusteria si stanno svolgendo i funerali di Raimondo Falqui. La salma è stata composta il giorno prima nella camera ardente allestita nella caserma della Brigata di Vandoies. Centinaia le persone ad assistere alla Messa funebre, gente comune, i cittadini della Valle, ma tanti arrivati anche da Bressanone. Sono presenti le più alte cariche della Regione, della Guardia di Finanza, tanti i colleghi. Un dolore composto quello dei suoi parenti che sfilano in corteo per le strade del piccolo centro dove, in segno di rispetto, gli abitanti chiudono porte e finestre al passaggio del feretro. Poi l’ultimo saluto solenne da parte delle Fiamme Gialle e la tumulazione nel cimitero di Fundres. Ora le sue spoglie riposano nella sua Lula dove sono state intitolate strade e caserme.

    Per la morte di Raimondo Falqui la giustizia arrivò anche molto velocemente. Il processo a quelli che, in seguito, vennero chiamati i ragazzi di Fundres, giovanissimi tra i 18 e i 22 anni, venne celebrato alla Corte d’Assise di Trento meno di un anno dopo, nel luglio del 1957 e portò alla sbarra sette di loro con pene per 114 anni di carcere, e ad alcuni anche la pena dell’ergastolo.

    La vicenda, però, non si spense con le condanne. Provocazioni giunsero da alcuni ambienti neonazisti austriaci. Qualche giornale arrivò ad accusare la magistratura italiana di aver condannato i ragazzi ad una lunga detenzione senza prove concrete. È l’inizio di una strada senza ritorno per i gruppi irredentistici che infiammeranno di lì a poco tutta la regione altoatesina.

    Fatta eccezione del Comando Generale della Guardia di Finanza che è sempre stata vicina ai familiari del militare, per 57 anni Raimondo Falqui viene dimenticato dal Paese che aveva scelto di servire. 56 anni di silenzio da parte delle istituzioni italiane che, di quelle vicende in Alto Adige, ha evitato di ricordare fatti e circostanze.

    È il Presidente della Repubblica Italiana Giorgio Napolitano che, nel marzo del 2013, darà giustizia alla memoria del militare lulese conferendogli la Medaglia d’Oro al Merito Civile.

    Mario Falqui:

    Dovetti prendere una drastica decisione: quella di trasferirmi a Bolzano per difendere la memoria di mio fratello

    A 65 anni di distanza da quegli eventi, nulla è cambiato per Mario Falqui che ha ancora voglia di parlare e ricordare il fratello.

    "Un tipo allegro e socievole con il sorriso sulle labbra, sempre disponibile e sincero nei confronti di tutti. Una vita, la sua, che voleva dedicare alla giustizia e al rispetto delle regole. Questa è stata la molla che ha portato Raimondo ad entrare nella Guardia di Finanza. Ho vissuto tutta la mia infanzia e parte della prima giovinezza accanto a lui anche perchè la mamma doveva lavorare nei campi e affidava a me le cure di Raimondo essendo anche poco più grande di lui. Uno spirito particolarmente vispo e spesso ribelle in alcune occasioni, quando le marachelle diventavano pericolose per la sua incolumità fisica, non mancavano rimproveri e sculacciate, ma anche i suoi pianti a dirotto che duravano ore. Con il passare degli anni, invece, siamo stati artefici di giochi e piccoli segreti che, a quella età, si condividono di frequente.

    Era un ragazzo che si faceva notare nella Lula dell’immediato dopoguerra, un paese che viveva di pastorizia e di poche attività edilizie. Non era difficile, quando si passeggiava per le stradine del centro, incontrarlo accompagnato ad alcune sue coetanee che, con un pizzico di vergogna e tanto timore di essere scoperte dai genitori, trovavano il modo di fargli recapitare brevi lettere d’amore o poesie inventate al momento. Seppi, poco dopo la sua morte, che anche in Alto Adige si era fidanzato con una ragazza del posto, ma erano tante le cartoline firmate da nomi femminili che mi vennero restituite dal comandante della caserma di Fundres, insieme agli altri effetti personali di mio fratello.

    La famiglia soffrì tanto nel momento in cui decise di partire per la vita militare. Avevamo una corrispondenza fitta, ci scrivevamo quasi tutti i giorni. Poi tutto è cambiato da quel 15 di agosto del 1956. La mia vita è cambiata. A Lula avevo un lavoro di cui andavo fiero, ma dovetti prendere una drastica decisione: quella di trasferirmi a Bolzano per difendere la memoria di mio fratello.

    Non nascondo che è stato un passaggio difficile cambiare radicalmente vita e sogni, catapultandomi in un ambiente totalmente diverso dal mio, cercando di confrontarmi con una realtà lontana da quella vissuta fino ad allora e in un momento storico molto difficile e delicato in quella regione dove, per una fetta di altoatesini, l’Italia risultava essere una nazione straniera e usurpatrice. Per me resta ancora difficile ripercorrere, oggi, quei momenti e ritornare indietro senza avere sussulti emotivi nel ricordare una storia personale particolarmente travagliata.

    Oggi lo voglio dire con la serenità di chi ha alle spalle qualche anno e non ha remore di nessun tipo: sono rammaricato per come la classe politica di allora abbia gestito il fenomeno terroristico tirolese e di come abbia potuto mandare allo sbaraglio centinaia di giovani militari senza una preparazione adeguata, lasciandoli all’oscuro dei pericoli ai quali andavano realmente incontro. Giovanissimi con forti ideali e convinti di servire lealmente il loro Paese, ma ignari del nemico da fronteggiare e delle operazioni di guerra che svolgevano in prima linea.

    Ancora oggi resto convinto che quei ragazzi non siano stati messi nelle condizioni di capire cosa stesse realmente accadendo su quelle montagne altoatesine. Voglio ringraziare ancora una volta la Guardia di Finanza che ci è stata sempre vicina, così come voglio fare un plauso alla Magistratura che lavorò alacremente per assicurare alla giustizia gli assassini di Raimondo. Ricordo che sdegno e dolore si sollevò, in quei mesi in Italia, per la morte tremenda che toccò a mio fratello che resta il primo agente delle forze dell’ordine ucciso dall’irredentismo altoatesino e la prima vittima certa del terrorismo politico nella giovane Italia repubblicana".

    Raimondo Falqui

    Dal patto di Castel Firmiano alla Notte dei Fuochi

    Poco meno di un mese dopo la morte di Raimondo Falqui le istituzioni italiane provano a far sentire la presenza dello Stato sul territorio dove gruppi sempre più numerosi di autonomisti continuano a cospirare e attentare ai simboli repubblicani.

    È la mattina del 15 settembre del 1956 quando giunge a Bolzano il Capo dello Stato Giovanni Gronchi (tra l’altro conterraneo di Falqui), per inaugurare la Nona Edizione della Fiera Internazionale. Con lui al seguito il Ministro dell’Interno Fernando Tambroni e quello della Giustizia Aldo Moro che, più tardi, inaugurerà il nuovo palazzo di giustizia, iniziato nel ventennio fascista e mai portato a termine. In un clima sempre più incandescente e con il corpo di Raimondo ancora caldo, Tambroni non ha mezzi termini e chiude definitivamente la porta a chi, anche in quella sala, pensava a possibili aperture e concessioni nei confronti del Sud Tirol.

    Il capo del Viminale dice no a probabili richieste che provengono dalla SVP, e stronca ogni illusione di chiunque voglia alimentare ampliamenti autonomistici. Tambroni va oltre e avverte che è possibile che si arrivi anche ad operazioni repressive nei confronti del mondo irredentista e secessionista. Dunque è sempre più scontro frontale in Alto Adige e sicuramente i discorsi decisi pronunciati dalle più alte cariche dello Stato non aiutano a calmare gli animi.

    In questa atmosfera di tensione prende vita e inizia a strutturarsi il B.A.S. che nasce proprio nel 1956. Nel movimento clandestino tirolese, come vedremo, confluiranno anche esponenti dal passato nazista.

    Intanto Bolzano resta il centro nevralgico delle aspirazioni terroristiche. Una polveriera pronta ad esplodere contro le politiche messe in campo dal Governo di Roma. Una minaccia che si concretizza un anno dopo quando a Castel Firmiano, a Bolzano, il 17 novembre del 1957, si radunano oltre 30mila altoatesini sotto le insegne della S.V.P. al fianco del suo leader Silvius Magnago, per protestare, almeno sulla carta, contro la costruzione di cinquemila unità abitative da destinare agli italiani. Il castello, quella mattina, è blindato da centinaia di Carabinieri e Poliziotti in assetto antisommossa. All’interno del maniero di età altomedievale, invece, la Südtiroler Volkspartei decide di tagliare i ponti con il governo regionale, affiancato da uno slogan molto efficace Los von Trient (via da Trento), proverà a chiedere una effettiva autonomia provinciale per l’Alto Adige slegata da Trento. Un percorso lungo e tortuoso che vedrà la luce solo molti anni dopo, nel 1972, quando entrerà in vigore il secondo Statuto di Autonomia.

    Intanto quel 17 novembre del 1957, per le frange autonomiste più reazionarie, è l’inizio di una strada senza ritorno. È il segno di una guerra che porterà pianti e lutti nelle Valli. Sono cellule autonome senza una struttura piramidale e, inizialmente, le loro azioni terroristiche hanno una valenza dimostrativa. Aiutati, protetti e finanziati da alcuni esponenti politici e istituzionali austriaci che procureranno ai terroristi del B.A.S. strumenti ed esplosivo oltre frontiera, i primi obiettivi sono i simboli dello Stato: monumenti commemorativi, ma soprattutto tralicci della corrente elettrica.

    Passano, infatti, solo cinque giorni dal citato patto di Castel Firmiano quando i terroristi fanno saltare la tomba di Ettore Tolomei nel cimitero di Montagna di Egna. Poi altre due esplosioni, nelle stesse ore, si udiranno a Laces, in Val Venosta. Non ci sono vittime, ma l’aria è sempre più intrisa di odio e rancore. Sentimenti che portano diritti ad una delle notti più buie della repubblica, menzionando la nota trasmissione televisiva di Sergio Zavoli.

    È la notte tra l’11 e il 12 giugno del 1961, una notte che passerà alla storia come la Notte dei Fuochi. I militanti del B.A.S. con un attacco di chiaro stampo militare in rapida successione portano lo sconvolgimento in tutta la Provincia di Bolzano. La prima deflagrazione si ode all’una della notte e sconquassa il centro storico di Bolzano. Il terrore si diffonde tra la gente che in quel momento era a letto a dormire. È il caos, diversi quartieri della città restano al buio, mentre le fiamme si estendono per le stradine del centro. Nelle due ore successive, altri boati percuotono le valli limitrofe. 46 gli atti dinamitardi portati a termine (anche se il numero esatto resta incerto), di questi la metà colpiscono tralicci dell’alta tensione. Le immediate indagini di Polizia e Carabinieri arrivano ad evitare il peggio, individuando una carica inesplosa vicino ad un cavalcavia. Tra gli obiettivi andati, fortunatamente, a vuoto, anche la diga di Selva dei Molini dove i militari ritrovano una mina antiuomo. È il primo scontro frontale dei secessionisti che arrivano a portare a segno il primo obiettivo: cioè l’impatto mediatico e la risonanza delle loro gesta che hanno una eco non soltanto in Italia, ma nel resto dell’Europa. È l’inizio in grande stile di un lungo periodo di terrore che il B.A.S porterà al cuore dello Stato e che in seguito alcuni analisti non a torto definiranno come gli anni di piombo dell’Alto Adige.

    Ma questo non basta agli uomini del terrore che vogliono il morto. E l’avranno la mattina del 12 giugno quando un lavoratore dell’Anas, il sessantasettenne Giovanni Postal salta in aria con una carica di esplosivo al plastico attaccata ad un albero sulla strada per Salorno nei pressi di una piazzola dove, spesso, le forze dell’ordine sostano per i controlli. Sono le 7.30 quando la vittima si ferma cercando di disinnescare la carica. Il boato è terrificante, Giovanni viene scaraventato sull’asfalto dove il suo corpo straziato e irriconoscibile viene recuperato poco dopo dai Carabinieri.

    Le indagini partono subito. Gli investigatori vogliono capire se ci sia stato un salto di qualità nelle strategie messe in campo dai terroristi fino ad allora. Una guerriglia che ora è indirizzata non solo contro gli uomini in divisa, come era accaduto qualche anno prima al finanziere Raimondo Falqui, ma che mette in pericolo indiscriminatamente tutti, anche gli stessi abitanti del posto come si è visto per Postal, nato e vissuto a Grumo, un piccolo paese poco distante dal luogo dove ha trovato la morte.

    Si sa per certo che all’interno del B.A.S. convivono due anime. Le colombe che mirano ad atti dimostrativi senza spargimento di sangue, e i falchi che hanno sposato la radicalizzazione dello scontro, convinti che i morti possono portare alla sconfitta politica dello Stato italiano. Prevarranno, come si saprà più tardi, i secondi con le conseguenze disastrose di un fenomeno che si abbatterà in quelle terre, per tutto il decennio degli anni Sessanta e che terminerà solo verso la fine degli anni Ottanta.

    Lo Stato prova a reagire alle centinaia di attentati, alle bombe sui treni, agli appostamenti omicidi e al tritolo. Imponente e dura la reazione di Carabinieri, Polizia e Guardia di Finanza nel controllo di un territorio impervio, difficile orograficamente e sconosciuto a molti. Costanti i pattugliamenti nelle zone definite calde, con l’Esercito utilizzato a blindare i valichi frontalieri dove è più facile il transito di armi e munizioni. Nonostante la ferrea sorveglianza, le incursioni dei separatisti non accennano a placarsi, anzi tra il 1962 e il 1963 si moltiplicano ulteriormente. A Bolzano, l’8 luglio del 1962, un ordigno esplode nelle toilettes della stazione senza fare vittime. Ancora stazioni ferroviarie prese di mira. Questa volta nel deposito bagagli di Verona. Sono le ore 17 del 19 ottobre dello stesso anno, dieci chilogrammi di dinamite sono stipati in una valigia con un congegno ad orologeria. Esploderanno alle 15 del giorno successivo provocando la morte del ferroviere Gaspare Erzen e il ferimento di 19 persone. Dilaniata tutta l’ala viaggiatori. Tocca ancora a Bolzano subire un ennesimo attacco. Il 20 ottobre fallisce un attentato contro la sede dell’istituto tecnico industriale del capoluogo.

    Non diversa la situazione nei primi mesi del 1963 con un ennesimo attentato a Magrè all’Adige e a Bolzano. A febbraio, invece, la gendarmeria austriaca arresta al valico del Brennero tre uomini e una donna diretti in Italia, che trasportavano esplosivo nella loro vettura. Da luglio si assiste alla ripresa della lotta armata. Il giorno 28, contemporaneamente, prendono forma tre attacchi contro i pali elettrici delle linee ferroviarie a Tarvisio, Chiasso e Sempione. Il 3 agosto un ordigno esplode su un muro della caserma dei carabinieri di Campo Tures (Bolzano), con il ferimento di due presunti terroristi che poche ore prima dello scoppio erano in stato di fermo da parte dei militari dell’Arma, per aver attentato ai tralicci in Valle Aurina. Altri vengono fatti saltare in aria tra agosto e settembre in Val di Tures.

    La tensione è palpabile in Alto Adige e nonostante l’invio, da Roma, di un numero sempre maggiore di militari, le ostilità anti italiane non cessano, anzi si radicalizzano.

    È il 1964: da questo momento i terroristi alzano, di nuovo, il tiro abbandonando definitivamente gli atti dimostrativi. Nel loro mirino ci sono nuovamente gli uomini dello Stato. Tra fine agosto e gli inizi di settembre di quell’anno, proprio alla vigilia degli incontri, in programma a Ginevra, tra i ministri degli Esteri italiano e austriaco, Saragat e Kreisky, il tiro a bersaglio aumenta di proporzioni considerevoli. In un’imboscata nei confronti di cinque alpini avvenuta a Berca di Brunico, quattro di loro sono feriti. Meno di 24 ore dopo si registra una sparatoria durante la notte contro una caserma della Guardia di Finanza al Valico del Rombo. Contemporaneamente, in Val di Plan, altri militari delle Fiamme Gialle sono protagonisti di uno scontro a fuoco con due terroristi, uno dei quali sarà identificato in Georg Klotz, già condannato a diciotto anni di carcere dal Tribunale di Milano e sfuggito insieme a Luis Amplatz alla residenza coatta che gli era stata imposta a Vienna. È solo un anticipo di quello che accadrà di lì a breve quando un Carabiniere verrà preso a fucilate proprio davanti alla porta della sua caserma.

    Vittorio Tiralongo

    3 settembre 1964. È una giornata come tante altre a Selva di Fuori, una frazione di Selva dei Molini, in provincia di Bolzano. Giornate movimentate e di grande tensione per le forze dell’ordine nel controllo di un territorio che si fa di giorno in giorno sempre più pericoloso per le trappole e gli agguati tesi dai terroristi. Una giornata con tanto lavoro anche per i carabinieri che vivono nel piccolo villaggio con poche case, tutte attaccate tra loro, abitate da una cinquantina di persone.

    Nella frazione vicina composta da masi isolati, in un casotto di questi, al secondo piano sopra un’abitazione, è di stanza la piccola stazione dove vivono alcuni militari dell’Arma che per accedervi devono salire una scala di legno che porta ad un ballatoio dove, in un angolo, insiste un piccolo gabinetto.

    La sera del 3 settembre, dopo aver cenato, due dei quattro militari, il Brigadiere Giuseppe Carpinelli e il Carabiniere Francesco Paglianiti, escono per recarsi a Selva dei Molini. Restano gli altri due, il piantone Vittorio Tiralongo e il collega Filippo Sottimano. Sono le 20.30 circa, quando Tiralongo, nativo di Noto nel siracusano, ma romano da sempre, inizia ad avvertire dei forti dolori di stomaco ed a contrarsi per gli spasmi. Passa qualche minuto, ma le fitte lo continuano a tormentare, la farmacia è ormai chiusa, così prega Sottimano di recarsi al bar di Selva dei Molini, ad un paio di chilometri di distanza, per acquistare un digestivo che gli portasse beneficio. Il militare romano solo e dolorante apre la porta d’ingresso e passa sul ballatoio illuminato per recarsi in bagno. È un attimo! Poi uno sparo, un solo colpo d’arma da fuoco e Tiralongo si accascia sul ballatoio. Sono le 21.30, è tardi per trovare qualcuno di passaggio nell’oscurità di quelle stradine. La vittima, bocconi a terra, è in una pozza di sangue, forse ancora vivo. Attimi preziosi che si perdono fino all’arrivo dei colleghi che, già da lontano, notano la porta stranamente spalancata. La scena che si presenta è drammatica. Tiralongo, ferito mortalmente con una pallottola che gli ha perforato il petto, spira poco prima del loro arrivo.

    Il brigadiere Carpinelli, nel trambusto del momento, si lancia al telefono per avvertire il Comando di Brunico, distante una ventina di chilometri. Sono le 22 circa e la macchina investigativa è già in movimento con trecento uomini, tra Carabinieri ed Alpini, a chiudere il vicino passo di frontiera con l’Austria che dista una decina di chilometri, anche se lo sparatore ha, dalla sua, un vantaggio consistente e la copertura del buio.

    Già, ma chi è l’assassino che ha teso l’agguato? Bocche cucite dei paesani che, interrogati nell’immediato, dicono di non aver visto e sentito nulla di strano. Sulle prime gli investigatori non hanno dubbi sulla matrice che è di chiaro stampo terroristico. Poche ore dopo viene individuato il posto dove l’uomo ha sparato e dove lascia anche la firma: la sigla che si legge su una delle pareti è S.T.F., che in lingua tedesca contraddistingue i combattenti sudtirolesi per la libertà. All’interno il terrorista ha lasciato una giacca e un fazzoletto insanguinato. La porta del casolare diroccato, usato come deposito di materiale proprio di fronte alla caserma, è stato forzato con un cacciavite. Da qui l’assassino, ad una distanza di trenta metri e agevolato da un fucile ad alta precisione, non ha avuto problemi nel centrare al cuore il militare.

    Le prime luci dell’alba del 4 settembre. Non si hanno notizie dell’uomo o degli uomini rocambolescamente fuggiti dopo l’attentato. La notte, nella valle Aurina, segnata dall’incessante movimento dei mezzi delle forze dell’ordine, non ha portato nessun fatto nuovo sul fronte delle ricerche, così come nelle valli circostanti. Sono le 10 del mattino a Roma, alla Camera dei Deputati, il Ministro dell’Interno sta commemorando la morte di Tiralongo. Saremo più fermi e irremovibili nei confronti di chi ha intenzione di forzare con atti vili, la convivenza dei due popoli dice Paolo Emilio Taviani ai deputati presenti. A Bolzano, invece, è terminata l’autopsia del giovane militare. L’esame evidenzia che Vittorio è stato colpito da un proiettile allo sterno, che ha infranto due costole. Lo stesso, però, è uscito in due pezzi dalla spalla, conficcandosi sulla porta d’ingresso che la vittima stava chiudendo. Ora la salma sta per essere trasportata in una delle sale dell’Ospedale Militare dove è stata allestita la camera ardente. Tanti gli amici, i colleghi, ma soprattutto i parenti che non si danno pace. C’è Franca Cornella, la compagna di Tiralongo. Il suo è un gemito soffocato dal dolore e i suoi occhi non hanno più lacrime per l’uomo che voleva sposare.

    Intanto è caccia all’assassino. Centinaia i valligiani fermati e interrogati, mentre non si fermano i rastrellamenti e le perquisizioni in una zona estesa lungo tutto l’arco di confine. Si fa sempre più concreta l’opinione tra gli investigatori che ad accelerare l’agguato mortale a Tiralongo sia stato anche l’incontro che dovrà avvenire nelle prossime ore a Ginevra, fra il ministro degli esteri austriaco Kreisky e il suo omologo italiano Saragat. Il terrorismo, in questo modo, vuole turbare quel vertice così come era avvenuto per quelli precedenti.

    È l’alba del 5 settembre quando riprendono le operazioni antiterrorismo sul crinale delle Alpi Aurine. Circa duemila uomini, fra carabinieri, polizia, finanzieri e alpini setacciano campo per campo, baita per baita, alla ricerca di indizi e tracce dei terroristi. Bolzano, invece, si è fermata per le esequie di Vittorio Tiralongo. Sono le 11 del mattino, la città si stringe con un grande abbraccio attorno al feretro che sta per lasciare la camera ardente dell’Ospedale Militare e raggiungere il Duomo. Sui volti dei cittadini, anche di quelli di lingua tedesca, si percepisce un sentimento di profonda commozione. In chiesa lo strazio e il contegno dei genitori di Vittorio, della sua compagna Franca, ma anche dei tanti rappresentanti del governo e autorità militari e civili, oltre a reparti delle Forze Armate. In prima fila anche il Comandante dell’Arma dei Carabinieri Giovanni De Lorenzo. Dopo le esequie e la benedizione, il feretro prosegue su un treno, destinazione Roma, dove vivono i genitori. Vittorio se ne va prima di aver compiuto 24 anni. Li avrebbe fatti il mese successivo al suo assassinio. Si arruola nell’Arma nel 1961. Prima è in Toscana, poi in Trentino dove, proprio quell’anno maledetto del ‘64, sarà effettivo alla Stazione di Selva dei Molini. Il suo omicidio, ad oggi, rimane impunito.

    L’inchiesta farà luce sull’arma utilizzata dal terrorista, una carabina Mauser calibro 7,62 rinvenuta tre anni dopo insieme a un Moschetto Automatico Beretta impiegato, come accertato dalle perizie balistiche, per altre azioni terroristiche come l’attentato alla Stazione dei Carabinieri di Sesto Pusteria del 26 agosto 1965 e quello alla caserma della Guardia di Finanza di San Martino di Casies del 24 luglio 1966.

    Ma la sua memoria viene presto oltraggiata. Non passano 24 ore dai funerali che un giornale austriaco ritorna sulla vicenda Tiralongo insinuando che la vittima sarebbe stata uccisa da un siciliano che, per salvare l’onore della sorella rimasta incinta, era salito dalla sua regione per vendicarla. A fare chiarezza ci pensa, nello stretto giro di poche ore, un dispaccio del Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri che fuga ogni dubbio. La nota è del 7 settembre del 1964 e spiega che: Il giovane Tiralongo, da pochi mesi in servizio nella provincia di Bolzano, è regolarmente fidanzato con una giovane di buona famiglia di provincia vicina. La cosa è nota ai superiori tanto che il carabiniere ha potuto riconoscere legalmente la figlia avuta dalla fidanzata, ed è in attesa di sposare non appena raggiunta l’età stabilita.

    Ma non c’è pace per Tiralongo. Nel 2002 tutta la galassia dell’irredentismo altoatesino invoca la grazia nei confronti di alcuni presunti terroristi che vivono all’estero. Le sollecitazioni, sempre più pressanti, varcano la soglia del Ministero di Grazia e Giustizia che avrebbe dovuto esaminare il voluminoso dossier, mentre lo stesso Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi sembrava pronto alla firma che sarebbe stata annunciata nell’incontro, al Quirinale, con il Presidente Federale della Repubblica d’Austria, Thomas Klestil il 24 settembre dello stesso anno. A bloccare l’iter è Alleanza Nazionale che dissuade il Capo dello Stato a firmare il provvedimento. Gianfranco Fini, che in quel periodo si era fatto promotore a Bolzano di un referendum per restituire ad una piazza della città il suo vecchio nome, cioè Piazza della Vittoria cancellata per la nuova Piazza della Pace, non lesina critiche nei confronti della minoranza di lingua tedesca che, secondo il Vicepresidente del Consiglio dei Ministri, non coltiverebbe il rispetto per gli altri.

    Nel 2009, esattamente 45 anni dopo la morte di Tiralongo, il suo nome torna d’attualità sulle pagine dei giornali dopo l’apertura, da parte del procuratore della Repubblica di Bolzano Guido Rispoli, dell’inchiesta che vede il Carabiniere Tiralongo vittima non di un attentato terroristico, ma di un omicidio a sfondo passionale. Le indagini si susseguono con decine di interrogatori e ore di intercettazioni telefoniche, ma la vicenda si chiude definitivamente nel dicembre del 2011 quando l’inchiesta bis viene archiviata. La cosiddetta pista passionale, secondo la quale Vittorio Tirangolo sarebbe stato ucciso da un altro carabiniere per vendetta o gelosia e non da terroristi sudtirolesi, non ha trovato alcun riscontro reale. Per la sua morte nessuno ha mai pagato il debito con la giustizia.

    Vittorio Tiralongo nacque a Noto, nel siracusano, l’8 ottobre 1940. Arruolatosi nell’Arma dei Carabinieri nel 1961 fu trasferito da subito in Trentino Alto Adige. Prestò servizio a Trento, Cavalese e, dal 1964, alla Stazione dei Carabinieri di Selva dei Molini.

    Dina Tiralongo:

    Ho con me i pochi regali di mio padre che custodisco gelosamente nel baule

    Dina Tiralongo aveva circa un anno quando muore il suo papà, ma sa dell’amore che ha ricevuto da lui, delle attenzioni, dei regali che le portava quando aveva la possibilità di incontrare la mamma. Ancora oggi, parlando con Dina, che ha dovuto superare tanti momenti di amarezza, si avverte un senso di felicità mista a commozione quando ricorda dei pochi regali del padre che custodisce gelosamente nel suo baule: due bambolotti, maschietto e femminuccia, vestiti con il grembiule scolastico, probabilmente acquistati a Cavalese; e un vestitino bavarese, chiamato Dirndl, che il padre le regalò in onore ai luoghi dove svolgeva servizio e che Dina fece indossare, a sua volta, alla figlia all’età di un anno e mezzo. Un regalo che ancora oggi, per lei, ha un significato importante perchè vuole dimostrare, se ce ne fosse ancora bisogno, l’amore del padre nei confronti dell’Alto Adige e della sua gente. Un amore tenero e pulito quello vissuto dai genitori che hanno dovuto difendersi dagli attacchi di coloro che, per svariati motivi, non approvavano la loro storia che invece, a dispetto di tutto e tutti, era protesa alla realizzazione di una famiglia che si sarebbe formata di lì a poco.

    Poi Dina ferma l’orologio del tempo al periodo dell’adolescenza quando volle conoscere sempre più i parenti del padre. Ad esempio i cugini di Ragusa con i quali, negli ultimi anni, è riuscita a far intitolare una strada a Vittorio nel capoluogo siciliano. Sempre più saldo si fece negli anni il rapporto con i nonni paterni dai quali si sentiva molto amata, nonostante la distanza. Ancora vive le numerose estati trascorse a Roma. Abitavano in via di Bravetta e le prime volte, mamma Franca le aveva insegnato il percorso con gli autobus per raggiungere l’abitazione. Racconta che a volte, ignari del suo arrivo nella Capitale, quando era più grandicella si divertiva a bussare alla porta facendo loro una sorpresa. I nonni erano felicissimi e Dina respirava un’aria di famiglia, quella di suo padre, del quale ricercava gli oggetti lasciati intatti nei cassetti,

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