Son cose che capitano
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Anteprima del libro
Son cose che capitano - Francesco Trippodo
madre
Prefazione di Roberto Scarpinato (Procuratore Generale presso la Corte d'Appello di Palermo)
Con questo volume Francesco Trippodo offre al lettore un compendio di aneddoti vissuti nel corso della sua esperienza professionale nella Polizia di Stato nei cui ranghi fece ingresso agli inizi degli anni ’80. Grazie ad una piena padronanza della tecnica narrativa, l’autore intreccia i fili del proprio vissuto personale con quelli della vicenda collettiva, tessendoli in un’unica trama che avvince il lettore per la sapiente miscela di piacevole intrattenimento e di stimolanti spunti di riflessione. L’inestricabile intreccio tra dimensione privata e pubblica è declinato sin dall’incipit con il quale l’autore rivela le motivazioni che lo spinsero ad arruolarsi: "Il mio nome è Francesco […] uno qualunque dei tanti che per cercare fortuna altrove, hanno lasciato la propria terra e i propri affetti per approdare in qualcuna delle nostre fabbriche del Nord oppure della Germania piuttosto che della Svizzera. O di quei tanti che partiti per il servizio di leva finirono per rimanervi, divenendo effettivi dell’esercito o dei carabinieri. Questo immediato dichiararsi come figlio del popolo –
...mio padre fornaio, umile e instancabile lavoratore..." – non è informazione biografica neutra, ma implicita e portante chiave di lettura globale della storia che l’autore ha vissuto e dalla quale è stato vissuto.
Quale era infatti il destino di tanti figli del popolo nell’immobile palude del sistema politico-mafioso ancora egemone nella Palermo degli anni ’70/’80? Un destino per molti versi già scritto e con poche varianti: o la condanna a restare nuddru ammiscatu cu nenti, cioè nessuno mescolato con niente, detto popolare che sintetizza un destino di totale anonimato sociale, di irrilevanza esistenziale, o tentare la scalata dei gradini della piramide sociale infeudandosi a qualche padrino politico o mafioso, o, ancora, andare via per cercare fortuna altrove.
Per sfuggire a una storia che sembrava già scritta, per non lasciarsi vivere, Trippodo si arruola nella Polizia di Stato: "…dovevo assolutamente farlo per non soccombere in una città che nulla aveva da offrire ai giovani, ieri come oggi. Stavo giocandomi la carta per il mio futuro...".
Il figlio del popolo diviene così "allievo sbirro, come l’autore definisce il suo improvviso e radicale cambiamento di status. Ancora in quegli anni la parola
sbirro", definizione dialettale spregiativa degli esponenti delle Forze di Polizia, aveva pieno corso non solo negli ambienti malavitosi, ma anche in larghe fasce degli strati popolari segnati da una plurisecolare esperienza negativa nel rapporto con i tutori dell’ordine costituito, vissuti non come garanti di una legge uguale per tutti a difesa dei diritti di cittadinanza, ma piuttosto come braccio armato di un padronato agrario e classista che manteneva in vita un sistema sociale di sfruttamento imperniato sulla pietra angolare del rapporto servo-padrone.
Erano vive nella memoria popolare le cariche armate, talora con morti e feriti, contro i braccianti che occupavano le terre, gli scioperanti che rivendicavano salari migliori, i minatori che protestavano per le morti dei loro compagni a causa della mancanza di misure di sicurezza in miniera.
Trippodo appartiene alla generazione di figli del popolo che entrano nelle Forze di Polizia in una fase storica travagliata ma feconda della nostra democrazia nella quale i nuovi valori di legalità e di giustizia sociale proclamati, dopo il crollo della dittatura fascista, nella Costituzione del 1948, si inverano progressivamente nel tessuto istituzionale e sociale divenendo il fecondo lievito di una straordinaria crescita culturale e democratica che attraversa tutti i corpi dello Stato, e tra essi la magistratura e le Forze di Polizia che portano a compimento un vero mutamento del proprio DNA culturale, cambiando così di segno la percezione popolare del proprio ruolo sociale.
Tra i primi a cogliere i segni di questo straordinario mutamento fu Pier Paolo Pasolini, disorganico e anticonformista intellettuale di sinistra, il quale in occasione della c.d. battaglia di Valle Giulia, uno scontro di piazza che il 1° marzo 1968 vide contrapporsi all’Università di Roma manifestanti universitari e polizia nell’ambito delle manifestazioni legate al movimento sessantottino, non esitò a criticare le violenze degli studenti e le loro manifestazioni di disprezzo contro i poliziotti definiti appunto come "sbirri", lasciando alla nostra memoria versi che per la loro forza espressiva e contenutistica vanno ricordati:
Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte
coi poliziotti,
io simpatizzavo coi poliziotti!
Perché i poliziotti sono figli di poveri.
Vengono da periferie, contadine o urbane che siano.
Quanto a me, conosco assai bene
il loro modo di esser stati bambini e ragazzi,
le preziose mille lire, il padre rimasto ragazzo anche lui,
a causa della miseria, che non dà autorità.
La madre incallita come un facchino, o tenera,
per qualche malattia, come un uccellino;
i tanti fratelli, la casupola
tra gli orti con la salvia rossa (in terreni
altrui, lottizzati); i bassi
sulle cloache; o gli appartamenti nei grandi
caseggiati popolari….
Nel corso della lettura delle pagine del libro di Trippodo, questi ed altri versi di quella straordinaria poesia di Pasolini mi ritornavano talora alla memoria quasi come invisibile ma imprescindibile fondale storico delle vicende narrate dall’autore. Nel rievocare il suo apprendistato nella disadorna scuola di Polizia di Bolzano dove ebbe inizio la sua nuova vita, la grama paga di trentaseimila lire al mese e poi la sua esperienza alla squadra mobile di Roma sino al rientro a Palermo, l’autore mette infatti in scena in tante microstorie il nuovo progressivo molecolare rimodularsi nel quotidiano del rapporto tra esponenti delle Forze di Polizia e cittadini ed il loro riconoscersi nella loro comune identità di figli di uno stesso popolo e di una storia che può essere finalmente condivisa.
Se oggi la parola "sbirro" è divenuta solo una scoria linguistica del passato e le Forze di Polizia godono di unanime stima popolare, si deve certo allo straordinario cammino di progresso democratico compiuto dalla nostra nazione nel corso di una storia travagliata intessuta di lotte sociali e del sacrificio di tanti uomini che hanno pagato con la vita la propria fedeltà ai valori di legalità costituzionale.
Ma si deve anche alla straordinaria umanità con la quale migliaia di figli del popolo, un tempo condannati ad essere solo "sbirri, ad essere, per ricordare ancora i versi di Pasolini
senza più amicizia col mondo, separati, esclusi", hanno adempiuto il proprio compito di cittadini/poliziotti a difesa dei propri concittadini e di quel nuovo ordine democratico che ha consentito a tutti noi di poter vivere e condividere, a differenza dei nostri avi meno fortunati, un’altra storia.
1 - Mi presento
Il mio nome è Francesco. Ma potrebbe anche essere Luca, o Marco, o Pietro o uno qualunque dei tanti che, per cercare fortuna altrove, hanno lasciato la propria terra e i propri affetti per approdare in qualcuna delle nostre fabbriche del nord oppure della Germania piuttosto che della Svizzera. O di quei tanti che partiti per il servizio di leva finirono poi per rimanervi, divenendo effettivi dell’esercito o nei Carabinieri.
Io, invece, faccio parte di quegli altri ancora che hanno scelto di arruolarsi nell’allora PS
. Tante strade, quindi, ma fatte tutte di storie simili. Per questo la mia potrebbe benissimo essere quella di uno di loro.
Quando, appena diciottenne, lasciai anch’io casa mia e i miei cari, appunto, per arruolarmi, non fu cosa facile, ah, ma onestamente nemmeno tanto difficile. Bastò una domanda in carta da bollo, una superficiale visita medica e un prelievo in loco, e infine tre giorni al centro arruolamento di Castro Pretorio a Roma per essere dichiarato abile-arruolato nel Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza: praticamente Allievo Sbirro!
Da quei giorni sono passati più di trent’anni ed io sono un pochino
invecchiato: ho anche messo su qualche chilo di troppo e ho molti capelli bianchi (ma tutti, però, tanto che qualche maliziosa amica dice che mi donano e che mi rendono un tipo assai interessante…!)
Comunque, nonostante tutto, credo di essere rimasto lo stesso spirito libero di allora, magari con qualche cicatrice sulla pelle e qualche altra nell’anima, ma senz’altro sento ancora di essere quel Francesco.
Oggi, senza alcuna presunzione ma spinto solamente dalle cortesi insistenze di alcuni cari e camurriusi amici e, soprattutto, dopo non poche riluttanze da parte mia, mi son lasciato convincere a raccogliere, riordinare e scrivere alcuni degli aneddoti che, come per molti di noi poliziotti, mi è capitato di vivere in prima persona durante lo svolgimento dei miei turni di servizio; ma solo quelli, però, che ho loro tante volte raccontato suscitandone ilarità. Storie che hanno fatto sì, sorridere, ma talvolta anche riflettere su come, in pochi decenni, tante cose siano cambiate in noi e nel mondo in cui viviamo: le nostre abitudini, i nostri modi, le nostre apparenze, le nostre certezze, i nostri desideri. E principalmente di come siano cambiati i rapporti tra il cittadino e le Forze dell’Ordine i cui operatori, oggi più che mai, sono sottoposti a continuo stress sia lavorativo che sociale, dovendosi scontrare, ancor prima che con i fatti delittuosi, con la perniciosa carenza di materiali, mezzi e, soprattutto, uomini; ma che ciononostante sono e rimangono sempre in prima linea su tutto il territorio nazionale a combattere quotidianamente chi opera il crimine, che oggi ha sempre più spesso il volto di tante insospettabili persone perbene, e per garantire il più possibile l’ordine e la sicurezza pubblica. Essi sono e restano un punto di riferimento per la gente comune anche se è ormai chiaro che, per volontà di taluni potenti politici, vi è in atto uno scellerato tentativo di renderli sempre più invisi, non a tutti, però, ma solo ad una minoranza della popolazione, quella che, accecata da una politica oramai quasi totalmente deviata e corrotta, vede questi operatori come servi del potere e non più come Servitori dello Stato.
Ma non è di politica che voglio parlare, perché la ritengo quasi del tutto immorale e priva di dignità e oggi più di ieri non più rappresentativa della collettività, ai cui bisogni dovrebbe invece essere tutta orientata. Al contrario, è divenuta indegnamente invadente e manchevole dei principali valori che nel passato ha dimostrato di voler comunque perseguire, rispettando gli ideali espressi nelle sue diverse ideologie che, se pur nella forma, alla fine si assomigliavano tutte.
Ovviamente non è la mia storia, quella che voglio raccontare, perché so bene che non interesserebbe a nessuno, ma è attraverso di essa e ai racconti vissuti che ho descritto che voglio riportare alla luce cose, modi, atteggiamenti e cognizioni oramai perdute nel tempo, cadute nell’oblio causato dalla forza bruta della globalizzazione sociale, dove tutti facciamo, vediamo, subiamo, pensiamo e viviamo le stesse medesime cose allo stesso identico modo, in un mondo dove ormai la nostra personalità non viene più identificata come individualmente unica ma piuttosto collocata, in un contesto più generico, in quella collettiva, facendoci assimilare ad un gregge. La nostra rivoluzione? Tanti, tantissimi mi piace
su Facebook. Null’altro.
Vorrei, infine, esprimere un grazie particolare a due persone che oggi non sono più tra noi.
Il primo è Salvatore Coppola, stimato scrittore-editore antimafia e mio pacinziusu
amico, che ha fortemente voluto che portassi a termine questo lavoro. L’altro è Fulvio Sodano, il Prefetto del popolo, mio prezioso amico, esempio di onestà e rettitudine. Entrambi hanno lottato, a modo loro e fino alla fine, la mafia e la sua connivenza con la mala-politica.
E non me ne vogliano i miei colleghi per quanto ho scritto e siano indulgenti tutti coloro che, pur se indicati con nomi finti si sono riconosciuti nei miei racconti, per non essere stati preventivamente avvisati delle mie intenzioni. Tutto questo è, per me, solamente un singolare e benevolo modo per dichiarare la mia fedele appartenenza alla Polizia di Stato e il rispetto verso le istituzioni tutte, oltre che l’affetto per i miei colleghi e per quanti, per qualsiasi ragione legata al mio ruolo di Pubblico Ufficiale, sono venuti in contatto con me.
Il mio pensiero, concludendo, va ai tanti, meno fortunati di me, che ci hanno ingiustamente lasciati nell’espletamento del proprio dovere, e ai loro cari, per averne sopportato il dolore della prematura assenza.
2 - A Palermo
Trascorsi serenamente i miei primi diciotto anni tra famiglia, scuola, amici e musica.
In famiglia, perché ne portavamo a quel tempo la voglia e il piacere di viverla. Con mio padre, fornaio, umile ed instancabile lavoratore, mia madre, tra le altre, sarta e cuoca sopraffina, e con le mie tre sorelle, la mia gemella, la media e la piccolina, vivevamo la quotidianità senza vizi né eccessi. Avendo inoltre tanti zii sia da parte di papà che di mamma, avevo di conseguenza molti cugini coi quali non si aspettava altro che l’occasione per incontrarci e divertirci, solitamente dai nonni, con poco o spesso niente: ci bastava solamente lo stare tutti assieme. E di occasioni non ne mancavano di certo, tra compleanni e feste comandate.
La scuola. Non amavo propriamente la scuola. Però studiavo, magari solo il minimo sindacale, ma studiavo. La mia passione per la sperimentazione e la sete di conoscenza mi spinsero verso un indirizzo interessante, come la Chimica e le Tecnologie Alimentari ma, ahimè, ciò accadeva in un contesto sociale dove l’allora politica ti conduceva settimanalmente in piazza per una rivoluzione mai nata (…e tuttora ancora in attesa di essere fatta…!) e, pertanto, dopo poco me ne disamorai mettendo fine al mio desiderio di vivere un futuro da chimico. Ma se chimico non lo divenni, certamente sono diventato padre di una chimica, poiché mia figlia Elisa si è laureata dottoressa in Chimica, appunto, dandomi una gioia immensa e una grandissima soddisfazione.
Gli amici. Essendo che a quei tempi non c’erano le distrazioni elettroniche, informatiche e telematiche di oggi, noi ragazzi di allora avevano tanti amici, forse non tantissimi quanti quelli che molti hanno su Facebook, ma sicuramente più sinceri. Grazie poi alle mie doti di agente aggregante ero sempre al centro di belle e soprattutto sane comitive con cui bastava un posto dove stare tutti insieme per trascorrere interi pomeriggi e anche tante sere a divertirci: né alcool, né canne, ne altro; tuttalpiù qualche MS di sgarrubbo passata di mano in mano. E se c’era una chitarra, poi, era ancora meglio: si cantava per ore Battisti, Baglioni, Venditti e Dalla, oppure Guccini, De Gregori, Conte e Gaber, quando si voleva essere impegnati
…
E infine la musica. Io non sono mai stato un tipo da discoteca o comunque da divertimento sfrenato e ad ogni costo. No, non proprio. Preferivo e tuttora lo preferisco, i luoghi solitari, quelli poco frequentati. Da sempre ho cercato il silenzio attorno a me. Mi piaceva passare ore e ore seduto davanti al mio pianoforte, che imparai a suonare già da bambino senza ancora possederne uno. Infatti quando mio padre me lo comprò con tantissimi sacrifici, nel ’77, già suonavo da diverso tempo presso un noto pianobar, dove mi recavo alle sette di sera, col bus; lì suonavo, suonavo e suonavo, fino alle tre di notte. Mancanza d’esperienza…! Chi faceva questo mestiere di norma suonava un pezzo o due; poi metteva un po’ di filodiffusione, molto di moda all’epoca, e si alzava per una sigaretta e magari per bere comodamente qualcosa e poi, con molta, ma molta calma, ritornava al piano e ricominciava. Io no. Per me, poter suonare un vero piano a coda era un’occasione rara, quasi unica. Tornavo così in piena notte a casa, a piedi, con 22mila lire in tasca e coi polsi che mi facevano male, ma soddisfatto: soddisfatto e contento per aver suonato su una mezza-coda.
Amavo molto suonare anche l’organo liturgico, ma solo se era a canne, meglio se antico. Lo suonavo nelle chiese, ovviamente, in occasione di matrimoni e nozze varie; e ci guadagnavo, anche, e pure molto. In verità suonavo gli organi più prestigiosi della città