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Vi abbraccerei tutti
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E-book316 pagine4 ore

Vi abbraccerei tutti

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Info su questo ebook

Questo libro commovente ci regala un racconto vivo e molto intenso degli ultimi 50 anni di storia italiana. Il viaggio a ritroso che i lettori sono invitati a percorrere è reso possibile dalle parole di Luciano Traina, fratello di Claudio Traina, uomo della scorta di Paolo Borsellino rimasto vittima della strage di via D’Amelio nel 1992. Dai ricordi di una vita vissuta al servizio della lotta contro lo strapotere mafioso, uniti a parentesi storiche ben dettagliate dall’autore Domenico Rizzo e a testimonianze di chi ha conosciuto Luciano e la sua famiglia, emerge un uomo sensibile e forte al tempo stesso, capace di prendere il meglio da un tragico evento che gli ha sconvolto la vita e di farne il suo baluardo nella lotta contro la violenza e l’illegalità mafiosa.

Domenico Rizzo è nato a Messina il 4 marzo 1972. 
La sua carriera di scrittore si apre nel 2018 con la pubblicazione del romanzo L’imperatore dei limoni, primo capitolo di quella che verrà denominata “La trilogia di Risi” che troverà il suo secondo capitolo nel romanzo Cuore avvelenato, pubblicato a inizio 2020 e l’atto conclusivo ne Il pedone e la regina, pubblicato sempre nel 2020. 
Vi abbraccerei tutti è il suo quarto libro e il suo primo lavoro biografico.
LinguaItaliano
Data di uscita30 apr 2021
ISBN9788830640238
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    Anteprima del libro

    Vi abbraccerei tutti - Domenico Rizzo

    cover01.jpg

    Luciano Traina

    in collaborazione con Domenico Rizzo

    Vi abbraccerei tutti

    © 2021 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-3593-7

    I edizione marzo 2021

    Finito di stampare nel mese di marzo 2021

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    Vi abbraccerei tutti

    Foto di copertina di

    Guido Di Gennaro e Patricia Ferreira

    A Claudio,

    a mia mamma

    e a tutta la mia famiglia.

    PREFAZIONE

    Di Salvo Palazzolo

    Luciano non ha mai smesso di cercare la verità sulla morte di suo fratello Claudio, di Paolo Borsellino e di tutte le altre vittime delle stragi di mafia.

    Da quel 19 luglio 1992, è diventata la sua ragione di vita, prima come poliziotto, poi come testimone di un impegno civile che non si è mai fermato.

    Luciano ha girato l’Italia per raccontare cosa è avvenuto a Palermo. Ha incontrato studenti, associazioni, cittadini.

    Ha raccontato il dolore e la rabbia, i giorni bui e quelli della riscossa, ha raccontato ancora una volta i sorrisi e le speranze di Claudio, di Paolo, di Emanuela, di Agostino, di Vincenzo, di Walter, stroncati quella domenica in via D’Amelio.

    Luciano non ha mai smesso di raccontare anche quello che accadde dopo, il terribile depistaggio del falso pentito Scarantino, che ha tenuto lontana la verità per tanti, troppi anni. E ancora oggi non sappiamo quali trame si consumarono subito dopo l’esplosione della bomba: non conosciamo soprattutto il nome di chi rubò l’agenda rossa del giudice Borsellino, mentre ancora via D’Amelio era in fiamme. Dalle deposizioni dei primi agenti giunti sul posto, è emersa anche l’inquietante presenza di agenti dei servizi segreti.

    Cosa ci facevano in mezzo a quell’inferno di morte?

    Luciano non ha mai smesso di raccontare e soprattutto di coinvolgere tante altre persone di buona volontà nella ricerca della verità, che dovrebbe essere l’impegno di tutta la comunità, dell’intero paese.

    La politica, innanzitutto, dovrebbe impegnarsi per cercare la verità sulle stragi e le indicibili complicità che si nascondono dietro le bombe che hanno insanguinato il nostro Paese fra il 1992 e il 1993.

    Un impegno concreto sarebbe quello di aprire tutti gli archivi di Stato, per consentire alla magistratura di indagare a fondo sui mandanti della stagione di morte.

    Luciano non ha mai smesso e non smetterà di cercare la verità.

    Ora, ha affidato un racconto carico di emozioni ed impegno a Domenico Rizzo, e, ancora una volta, le sue parole segnano un percorso.

    Perché è ancora tortuosa la strada per trovare la verità.

    Ma non ci si può arrendere.

    Questo ci dicono le parole di Luciano.

    Salvo Palazzolo è un giornalista e saggista italiano.

    Dopo la laurea in Giurisprudenza ha iniziato l’attività giornalistica nel 1992, al quotidiano L’Ora di Palermo. Ha poi collaborato con i quotidiani il manifestoLa Sicilia e Il Mediterraneo, occupandosi di cronaca giudiziaria.

    Ha collaborato con la società di produzione Magnolia e con la RAI come coautore di programmi televisivi di inchiesta su Cosa Nostra, tra cui "Scacco al re, la cattura di Provenzano, Doppio gioco, le talpe dell’antimafia e Le mani su Palermo".

    È autore di diversi libri, tra cui "Ti racconterò tutte le storie che potrò, I pezzi mancanti. Viaggio nei misteri della mafia e Il codice Provenzano".

    INTRODUZIONE

    Di Domenico Rizzo

    Quando con Luciano abbiamo iniziato a ipotizzare l’idea di scrivere un libro sulla sua vita, mi sono subito reso conto che mi stavo tuffando in qualcosa di importante che avrebbe lasciato un segno dentro di me e non solo dentro di me, ma anche nei lettori che avrebbero preso in mano questo manoscritto.

    È stato un lavoro coinvolgente e impegnativo, reso possibile da lunghe videochiamate durante le quali ho visto un uomo aprire, a volte con fatica, lo scrigno dei suoi ricordi, con l’unico obiettivo di far emergere i suoi valori più alti e di regalare a chi leggerà questo libro un forte messaggio di vita e di speranza.

    Il mio contributo, concretizzatosi nell’ascolto di questi ricordi e nella successiva trascrizione degli stessi, oltre che nella stesura delle parti in cui descrivo luoghi, eventi e situazioni che hanno fatto da cornice agli eventi raccontati da Luciano, ha comportato in certi momenti anche miei personalissimi momenti di disagio e di imbarazzo nel chiedergli dettagli e approfondimenti riguardanti fatti o persone di cui sapevo lui stesse parlando già a fatica, ma, spinto dalla volontà di rendere il più completo possibile il suo racconto e di far in modo che questa completezza fosse utile a quell’opera di sensibilizzazione civile che rappresenta il primo obiettivo di questo manoscritto, ho affrontato ogni ostacolo fino al completamento di questo libro che, da parte mia, è un atto d’amore verso questo grande uomo che considero tra le migliori persone che io abbia incontrato nella mia vita.

    Televisione, cinema e letteratura sono da anni intasati di romanzi, fiction e film in cui la tematica mafia viene affrontata e sviluppata con risultati più o meno soddisfacenti, ma sempre con una sorta di distacco tra lo spettatore e gli eventi narrati; una sorta di invisibile velo che separa, forse giustamente, la persona dalla trama, e che nasce dalla consapevolezza che tutto ciò che avviene nel racconto è frutto della fantasia di uno scrittore o di uno sceneggiatore; un romanzo è un romanzo; un film è un film; lo spettatore è uno spettatore, e, in quanto tale, segue le vicende del racconto facendosi trasportare dagli eventi e dalle emozioni che la trama offre. Poi il film (o il libro) finisce, e lo spettatore, sempre col distacco sopracitato, ne giudica la validità, la realisticità e la godibilità.

    Questo, davanti al racconto di Luciano non è possibile.

    Il suo racconto lascia dentro qualcosa che è difficile cancellare. Perché Luciano non ha guardato la mafia in una recita, non ha rispettato un copione e non aveva spettatori ad osservarlo.

    Lui la mafia l’ha affrontata e vissuta realmente.

    La sua vita è stata inesorabilmente inquinata e drammaticamente sporcata da eventi terribili causati da uomini senza onore e senza scrupoli, capaci di ferire o uccidere non solo fisicamente con le bombe e le pistole, ma anche psicologicamente e moralmente con i ricatti, con i sospetti e con manovre oscure di difficile comprensione.

    Ho conosciuto Luciano nell’estate del 2014 e la cosa che più mi ha sorpreso quel giorno è stato trovarmi di fronte un uomo che, nonostante le enormi cicatrici che si portava nell’anima, aveva conservato alcuni valori morali ed etici di valore assoluto: un uomo dolce, disponibile, elegante, garbato, pacato, mai rancoroso e mai custode di propositi vendicativi.

    Negli anni ho approfondito quella conoscenza iniziata nel 2014, che piano piano si è trasformata in una irrinunciabile amicizia, e ho spesso riflettuto sulla straordinarietà di un uomo che ha vissuto tutta la vita con questi altissimi valori morali, riuscendo nella difficile impresa di non permettere che gli eventi catastrofici che ne hanno caratterizzato l’esistenza potessero inquinarli o cancellarli.

    Poliziotto dal 1972, Luciano ha lavorato per anni senza sosta sul territorio di diverse città italiane; ha partecipato a importanti indagini volte alla ricerca di latitanti mafiosi; ha subito la perdita di un fratello; ha affrontato ingerenze e ingiustizie; ha dovuto combattere contro il fuoco dei nemici ma anche contro il fuoco amico; ha temuto di non farcela; ha visto a un certo punto la sua stessa vita scappargli via; ha rischiato di perdere il controllo, ma alla fine ha resistito.

    Ha continuato a svolgere il suo lavoro di rappresentante delle istituzioni con professionalità, passione e dedizione fino al suo ultimo giorno di servizio e dopo essere andato in pensione ha dedicato la sua vita ai giovani.

    Da diversi anni viaggia in lungo e in largo per l’Italia per raccontare la sua vita; nelle scuole, nei campus, negli eventi organizzati, ma soprattutto, oltre a raccontare, si impegna a insegnare e tramandare valori importanti volti al rispetto della legalità e alla ricerca di verità e giustizia.

    Oltre alle periodiche e lunghe chiacchierate telefoniche che da anni contraddistinguono la nostra amicizia, ho avuto il privilegio di ascoltarlo parlare pubblicamente in diverse occasioni e in diversi eventi, e tutte le volte ho fatto fatica a trattenere le emozioni che quest’uomo sa suscitare nelle persone che lo ascoltano e che, sovente, sono costrette a estrarre dalla tasca un fazzoletto per asciugarsi le lacrime.

    Il titolo di questo libro non è casuale: Vorrei abbracciarvi tutti è una frase detta da Luciano sul palco di via d’Amelio il 19 luglio 2017 nel giorno del XXV anniversario della strage in cui nel 1992 aveva perso la vita suo fratello Claudio mentre era intento, insieme ai colleghi Eddie, Agostino, Emanuela, Vincenzo e Antonio, a scortare il giudice Paolo Borsellino.

    Luciano non manca mai a questo appuntamento. Ogni 19 luglio lui è lì, in via d’Amelio, a parlare con la gente, a ricordare suo fratello e a dispensare parole di gratitudine e di affetto verso tutti coloro che, spesso attraversando l’Italia, giungono a Palermo per ricordare e commemorare.

    Lui, quando sale sul palco, non urla mai propositi di vendetta e non dispensa pillole di rancore; parla di giustizia e di verità; parla di Claudio e dei suoi colleghi; parla del giudice Borsellino; parla di spirito civile; parla di crescita culturale. E poi guarda le persone sotto al palco e vorrebbe davvero abbracciare tutti uno a uno perché per lui la condivisione di certe emozioni e di certi insegnamenti è la cosa più importante.

    Vorrei abbracciarvi tutti: in quella frase c’è Luciano, c’è tutto Luciano Traina.

    Ecco perché sono onorato e privilegiato di essere stato scelto da lui come collaboratore per la stesura della sua autobiografia; perché tra le pagine spesso drammatiche e angoscianti di questo libro, esce prepotente la figura di un uomo dallo spessore umano immenso. Un uomo onesto. Un uomo buono. Un uomo forte. più forte degli eventi terribili che lo hanno colpito. più forte dei ricatti, delle perdite e delle lacrime. Un uomo che è rimasto se stesso dall’inizio alla fine.

    Un uomo che davanti alla mafia non ha mai piegato la testa e che nella sua anima e nel suo cuore la mafia l’ha sconfitta.

    L’ha sconfitta con un arma che la mafia non potrà mai avere: l’amore.

    Luciano Traina e Domenico Rizzo

    in una fotografia del 2018

    UN GIOVANE

    SHERLOCK HOLMES

    In Sicilia, dopo un decennio contraddistinto da una feroce e sanguinaria guerra di mafia, l’inizio degli anni settanta sembra presagire un periodo di calma e di riorganizzazione delle attività mafiose. L’ultimo atto della diatriba interna a Cosa Nostra, iniziata nel 1962, si è consumato il 10 dicembre 1969, allorché un commando di sette uomini, capeggiati dai corleonesi Salvatore Riina e Bernardo Provenzano, ha fatto irruzione negli uffici del costruttore Girolamo Moncada, in viale Lazio, a Palermo; una missione punitiva nei confronti del boss Michele Cavataio, ritenuto il vero creatore delle zizzanie tra le famiglie mafiose con lo scopo di emergere soprattutto dal punto di vista economico.

    Quella che verrà ricordata come la strage di via Lazio provoca la morte di cinque uomini, tra cui Michele Cavataio, ucciso secondo molte testimonianze da Bernardo Provenzano, e Calogero Bagarella, uomo di spicco della cosca corleonese nonché fratello di Ninetta Bagarella, al tempo fidanzata di Salvatore Riina.

    Le forze dell’ordine, negli anni precedenti, hanno impiegato tutte le loro energie nel tentativo di reprimere una guerra di mafia che nelle strade siciliane ha lasciato una striscia di sangue e un numero di cadaveri mai raggiunto prima, ma gli sforzi di poliziotti e carabinieri, coincisi con l’arresto di numerosi mafiosi anche di spicco, verranno resi vani dall’esito di due processi, uno svoltosi a Bari e uno a Catanzaro, ove due sentenze sorprendenti assolvono tutti i mafiosi indagati, permettendo loro di tornare a casa e riprendere le loro attività criminali.

    La strage di via Lazio, avvenuta dopo le assoluzioni di Bari e Catanzaro, provoca molto scalpore, ma appare fin da subito agli inquirenti come il punto esclamativo finale sulla guerra intestina all’organizzazione. Da quel giorno i vertici di Cosa Nostra riorganizzeranno il loro organigramma, le loro alleanze e soprattutto fisseranno gli obiettivi delle loro attività illecite, concentrando la maggior parte delle loro attenzioni sul business del momento: gli appalti pubblici.

    È in questo clima incandescente di fine anni sessanta/inizio anni settanta che la ditta Traina costruzioni muove importanti e redditizi passi nel ramo dell’edilizia. A capo della ditta vi è un uomo, Giuseppe Traina, che crede nel lavoro e nei progetti e che, a dispetto della soffocante ombra mafiosa che circonda ogni attività siciliana, ottiene risultati importanti e il rispetto di tutte le persone con cui si trova a lavorare e interagire.

    Giuseppe ha lavorato per anni con suo fratello Rosario, ma quest’ultimo ha lasciato la società da un po’ di tempo per motivi di salute e ha deciso di dedicarsi a lavori minori e alla sua famiglia.

    Rosario è sposato da una trentina di anni con Grazia e hanno sei figli: il quarto di loro in ordine di età, è un mite ragazzo di sedici anni che a casa chiamano scherzosamente il giornalista perché è molto curioso e intraprendente e, nei limiti delle sue possibilità da sedicenne, si tiene informato su tutto quello che gli succede intorno. Il suo nome è Luciano.

    Sono nato il 30 marzo 1954 a Palermo, e ho abitato per molti anni, soprattutto quelli della mia infanzia e della mia adolescenza, in uno stabile al centro della zona Oreto, un quartiere situato a sud del capoluogo, caratterizzato dalla presenza di una delle più lunghe vie della città (l’omonima via Oreto) e dalla vicinanza con la stazione centrale dei treni e con il quartiere della Guadagna, conosciuto dai siciliani per aver ospitato per molti anni la Torre dei Diavoli, un padiglione di caccia risalente al XIV secolo demolito nel 2011 per permettere alcuni lavori della linea ferroviaria. La Guadagna e la zona Oreto rappresentano la scenografia della mia infanzia e della mia adolescenza; due zone di Palermo in parte povere e disagiate, la cui unica ricchezza risiedeva nelle persone che le abitavano e che, a dispetto di una condizione sociale non ottimale, sapevano regalare atteggiamenti solari e generosi.

    La mia era una famiglia molto unita che aveva il suo maggiore momento di unione e di intimità soprattutto a cena, quando mio padre, che spesso passava intere giornate fuori per lavoro, si riuniva a noi per ascoltare i nostri racconti e i resoconti sulla giornata appena trascorsa, mentre mia madre deliziava i nostri palati con portate abbondanti e succulente, tra cui spiccavano spesso le deliziose tagliatelle fatte in casa che ci venivano presentate col sugo o sotto forma di torta salata con broccoli e lenticchie.

    Con i miei fratelli e le mie sorelle ho sempre avuto e mantenuto, al netto dei canonici bisticci tipici dei bambini di ogni famiglia, un legame molto forte; un’alchimia che veniva favorita dai valori che i nostri genitori ci insegnavano ogni giorno, ma anche dal fatto che avevamo sei caratteri e sei personalità molto diverse uno dall’altro.

    Il più grande di noi, Giuseppe, lavorava in banca e questo impiego lo stimolava a una cura della propria immagine molto puntigliosa e allo sviluppo di un carattere estroverso e cordiale.

    Antonina, dal carattere dolce e pacifico, aveva dimostrato fin da giovane uno sviluppato spirito materno, e questo l’aveva portata ad assumere nei confronti miei e degli altri fratelli e sorelle una sorta di ruolo di vice-mamma, sempre pronta ad assisterci e ad aiutarci nei momenti in cui mia madre era impegnata. Una terribile malattia ce l’ha portata via nel 2018, ma nel mio cuore rimarrà sempre il suo sorriso e l’amore che mi ha donato fin da quando ero piccolo.

    Bartolomeo era l’elemento più riservato e introverso della famiglia e a fine anni sessanta aveva intrapreso gli studi che lo avrebbero portato poi a lavorare in ferrovia.

    In ordine di età poi venivo io che, a causa della mia persistente curiosità su tutto ciò che mi accadeva intorno, mi ero conquistato il soprannome di giornalista della casa, un nomignolo simpatico e goliardico che i miei fratelli e sorelle amavano ripetere ogni qualvolta io mi interessavo a qualcosa di nuovo.

    Giusi era la nostra piccola sarta, avendo sviluppato fin da piccola la passione per il cucito. Aveva un carattere allegro e solare e un modo di porsi molto dolce che la rendeva amabile agli occhi di tutti quelli che la conoscevano.

    Il più giovane era Claudio, che, essendo il più piccolo ed avendo diversi anni di differenza da tutti noi, era il principino della casa, coccolato da tutti, soprattutto da noi fratelli e sorelle che non esitavamo a viziarlo continuamente; ricordo la sua felicità quando, all’età di due anni, mio fratello Giuseppe gli regalò una macchinina di quelle in cui salgono i bambini per scorrazzare per casa, ma che, a differenza dei modelli prevalentemente in commercio, non aveva dei pedali per essere messa in moto, ma era dotata di una batteria elettrica, che gli permetteva di gironzolare dappertutto senza fare nessuna fatica.

    Claudio aveva un carattere estroverso e allegro, e questo lo aiutava molto anche nei rapporti interpersonali, al punto che nella scuola media che frequentava, l’istituto Cesareo di Palermo, capitava sovente che venisse scelto per partecipare a delle recite scolastiche, attività che peraltro a lui piaceva moltissimo.

    I momenti di maggiore allegria della nostra famiglia si concentravano spesso nelle domeniche, quando, seguendo quella che per tutti era diventata una vera e propria tradizione irrinunciabile, ci riunivamo con i nostri nonni, zii e cugini, dando vita a lunghi e maestosi pranzi, seguiti da divertenti pomeriggi all’insegna dell’allegria e del divertimento.

    Difficile dimenticare i saporitissimi dolci che mia nonna Filomena preparava per noi nipoti ogni domenica, così come mi emoziono a ricordare l’ingegno con cui io, i miei fratelli, le mie sorelle e i miei cugini riuscivamo a inventarci giochi e attività in qualsiasi posto e in qualsiasi condizione, dando libero sfogo alla nostra fantasia e inseguendo l’unico obiettivo di stare insieme e divertirci.

    Ogni tanto è capitato che la nostra voglia di divertirci ci abbia portato anche a degli episodi non piacevoli. Ricordo con dispiacere che un giorno io e mio cugino Bartolo avevamo raccolto da un campo nei paraggi delle canne di quelle che i contadini usano per sostenere le piante, e, dopo averle trasformate con un po’ di filo in canne da pesca e dopo aver raccolto dei vermicelli dal campo, ci eravamo diretti, montando in due su una bicicletta, in direzione del vicino molo con la speranza di pescare qualche pesce da mostrare orgogliosi alle nostre famiglie. Al molo però non ci arrivammo; ad un incrocio una macchina ci prese in pieno procurando a mio cugino una frattura scomposta in cinque punti e sbalzando me in un campo di fichi d’india distante una quindicina di metri dalla strada, dove persi conoscenza.

    Quando mi risvegliai in ospedale, con il corpo pieno di escoriazioni e la mente disorientata e confusa, la prima cosa che vidi furono i volti dei miei genitori e di una suora che indossava uno di quei cappelli bianchi e larghi tipici del loro ordine, e feci inizialmente fatica a capire se quello che stavo vivendo era un brutto sogno o la realtà. I dolori che sentivo in tutto il corpo mi aiutarono presto a capire che tutto era successo davvero, ma la cosa che mi più mi dispiace ricordare è che, mentre io, dopo un mese di cure, potei tornare a casa a fare la vita di tutti i giorni, mio cugino negli anni seguenti all’incidente si dovette sottoporre a un lungo calvario di interventi chirurgici che, nonostante le mie preghiere, non furono sufficienti a permettergli di tornare a camminare normalmente.

    Al netto di questo episodio spiacevole, i ricordi di quegli allegri e spensierati fine settimana in famiglia sono un piccolo tesoro di memoria che mi porto nel cuore. Quando, la domenica sera, tornavamo a casa eravamo felici e, simili a dei moderni telefonini dopo una notte in ricarica, pronti ad affrontare la settimana che ci aspettava.

    Le mie settimane erano concentrate ovviamente sulla scuola, ma anche e soprattutto sulle mie passioni e i miei hobby. Mio padre nutriva il dichiarato desiderio che io dedicassi tutto me stesso allo studio, con lo scopo di prendere il diploma di geometra utile ad ereditare un giorno le sue attività, in maniera da dare continuità alla proficua tradizione delle nostre famiglie nel ramo dell’edilizia, ma le sue speranze finirono presto per scontrarsi con le mie attitudini e le mie passioni che, a differenza delle sue, si concentravano principalmente sulle attività pratiche e manuali, relegando la scuola e lo studio a un ruolo di comprimari in cui investire le energie necessarie a raggiungere il minimo sindacale di un rendimento accettabile.

    Quando ripenso ai desideri di mio padre, sento in cuor mio di averlo deluso a quel tempo; spero che ora, dall’alto del cielo da cui mi sta osservando, dopo aver visto l’intero film della mia vita, sia orgoglioso di me e del percorso che ho fatto come uomo, come poliziotto, come marito e come padre.

    Le mie passioni giovanili, concentrate, come detto, su attività artistiche e manuali, erano iniziate da adolescente suonando la batteria e la chitarra per qualche anno col sogno di emulare grandi batteristi come Ringo Star o chitarristi come Jimi Hendrix, e si erano evolute nel tempo trovando una nuova espressione nell’arte del disegno; ricordo che quando iniziai a provare il desiderio di disegnare e dipingere, iniziai a comprare con passione pennarelli e acquerelli con i quali davo sfogo alla mia fantasia, non riuscendo tuttavia a soddisfare del tutto le mie aspettative, dal momento che mi rendevo conto che ai miei disegni mancava quel pizzico di completezza e di perfezione. Gli mancava qualcosa, qualcosa di me.

    La passione giusta in cui riversare tutte le mie energie e la mia creatività mi si presentò un giorno all’improvviso, catalizzando la mia attenzione verso un settore che mai avevo visto né preso in considerazione prima.

    Successe che, mentre ero intento a passeggiare per strada, mi fermai di colpo davanti a una vetrina dove erano esposti dei vasi di argilla colorati che avevano, come per magia, catalizzato improvvisamente e totalmente la mia attenzione. Ero affascinato e colpito dalle forme e dai colori di quegli oggetti che sembravano esprimere qualcosa di più di un semplice lavoro artistico, e, nel giro di pochi minuti, quello che era stato un piccolo colpo di fulmine si trasformò rapidamente in una fortissima curiosità, alimentata da un nome scritto vicino a quei manufatti: De Simone.

    Mettendo in pratica le doti di piccolo giornalista che a casa tutti mi riconoscevano, scoprii

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