Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

L' Occhio del cervo
L' Occhio del cervo
L' Occhio del cervo
E-book364 pagine5 ore

L' Occhio del cervo

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Omar Vidal ha meno di quarant'anni. Svogliato e disordinato, gestisce con scarso profitto un autosalone insieme al fratello. Vive in una piccola e noiosa città del nord, con la moglie Greta e la giovane figlia Rebecca.

Un pomeriggio d’estate la sua vita si trasforma in un incubo: suo fratello muore, precipitando in un burrone durante un’uscita in bicicletta in sua compagnia.

Da quel momento è sospettato come colpevole e controllato a vista dall’ispettore De Innocenti, un vecchio poliziotto animato da un fervore religioso fuori dal comune.

Omar capisce di essere perseguitato da un assassino, che colpisce con freddezza e dissemina prove per incastrarlo.

Costretto dall’incedere degli eventi e dalla consapevolezza che il killer conosca ogni sua abitudine e debolezza, non si rivolge alla polizia per paura di essere arrestato e ingaggia una competizione con il maniaco.

Deve proteggere i suoi cari ed essere abile e veloce nel comprendere le ragioni che hanno innescato la violenza. Deve mettere alla prova la sua intelligenza, il suo coraggio e la sua memoria.

La soluzione del problema è conservata in un unico, breve istante della sua esistenza passata, e cristallizzata nella storia recente della sua piccola città.

LinguaItaliano
Data di uscita8 nov 2018
ISBN9788869344428
L' Occhio del cervo
Autore

Roberto Capocristi

Roberto Capocristi è nato a Susa (TO) nel 1966. Da sempre vive in Val di Susa e lavora come libero professionista. Lettore bulimico e consumatore instancabile di cinema e musica, ha già pubblicato sotto il medesimo pseudonimo tre romanzi thriller (Freezer, Interno 1 e Chilometro 53) e una raccolta di racconti, la sua escursione con licenza nel genere horror (Cinque racconti in ordine sparso). Con Bibliotheka Edizioni ha pubblicato il thriller La sesta destinazione (2018). È animato da un amore incondizionato verso la natura, gli animali e lo sport. A tempo perso collabora all'amministrazione di una pagina di satira molto amata e cura un blog, dove pubblica gratuitamente alcuni dei suoi racconti e riflessioni sul mondo della scrittura.

Correlato a L' Occhio del cervo

Ebook correlati

Thriller per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su L' Occhio del cervo

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    L' Occhio del cervo - Roberto Capocristi

    Roberto Capocristi

    L’occhio del cervo

    Thriller

    © Bibliotheka Edizioni

    Via Val d’Aosta 18, 00141 Roma

    tel: +39 06.86390279

    info@bibliotheka.it

    www.bibliotheka.it

    I edizione, novembre 2018

    Isbn libro 9788869344411

    Isbn ebook 9788869344428

    È vietata la copia e la pubblicazione, totale o parziale,

    del materiale se non a fronte di esplicita autorizzazione scritta

    dell’editore e con citazione esplicita della fonte.

    Disegno di copertina: Paolo Niutta

    www.capselling.it

    Roberto Capocristi

    Roberto Capocristi è nato a Susa (TO) nel 1966.

    Da sempre vive in Val di Susa e lavora come libero professionista.

    Lettore appassionato e consumatore instancabile di cinema e musica, ha già pubblicato quattro romanzi thriller (Freezer, Interno 1, Chilometro 53 e Una notte per non morire).

    Con Bibliotheka edizioni ha già pubblicato il thriller (La sesta destinazione).

    Di recente ha vinto il Premio Bukowski, edizione 2018, nella sezione romanzi inediti.

    È animato da un amore incondizionato verso la natura, gli animali e lo sport.

    A tempo perso collabora all’amministrazione di una pagina di satira molto amata e cura un blog, dove pubblica gratuitamente alcuni dei suoi racconti e le sue riflessioni sul mondo della scrittura

    Omar scrutò il pelo del cervo, le corna ampie e il possente torace, e infine quell’occhio. Si notavano le ciglia appena accennate che disegnavano un arco perfetto. E infine quella tristezza. Come se l’animale fosse consapevole che il predatore umano stesse per prendersi la sua vita e che l’avesse accettato come un sacrificio necessario, per la difesa dei suoi simili, per la salvezza dei suoi cuccioli.

    - 1 -

    Omar Vidal era italiano.

    Lo era da tre generazioni sebbene suo padre, italiano a sua volta, avesse voluto attribuirgli il nome del nonno, anch’egli italiano ma nato da genitori spagnoli emigrati alla fine della Grande Guerra.

    Della Spagna sapeva poco o nulla.

    Ci era andato qualche volta come turista, più verso i lidi spumosi della Costa Blanca che sull’altipiano rovente della Meseta: nove mesi d’inverno e tre mesi d’inferno.

    Forse, se ci fosse andato, avrebbe potuto indagare sulle sue origini ma non lo fece.

    Un giorno si armò di iniziativa, arrivò fino a Tarragona con la sua giovane moglie e la figlioletta appena nata, preparò le cartine e allestì l’auto per il lungo viaggio verso il paese dei suoi bisnonni. Non ci arrivò mai, perché la sosta per il pranzo si dilungò fino al pomeriggio inoltrato.

    Al primo piatto di freschissimo Gazpacho ne seguì un secondo, che infine fu digerito con un paio di generosi bicchieri di liquore alle erbe. Il principio di sonno e la temperatura esterna che faceva ondulare le colline all’orizzonte lo fecero desistere.

    Tornò indietro la sera, appena il sole scese sotto un livello che aveva stabilito a tavolino, e raggiunse l’albergo quando la cena era pronta per essere servita: dopo le dieci.

    Non solo non aveva completato il suo viaggio verso la Meseta ma Omar in vita sua aveva lasciato un mucchio di altre cose da finire.

    Non aveva finito l’università, il corso di inglese, quello di chitarra e le sessioni di allenamento per il Judo. Non aveva finito il suo vascello a tre alberi profumatamente pagato a dispense settimanali e nemmeno aveva completato la verniciatura della finestra panoramica sul retro di casa sua, lasciata con un montante in attesa della seconda mano e tutta la traversa superiore da cartavetrare. Omar Vidal non aveva nemmeno finito di pagare le rate della concessionaria di auto usate acquistata insieme a suo fratello e nemmeno aveva mai completato la ricerca di quel radiatore nuovo, che avrebbe rimesso in vita quella UAZ, presa indietro da un cliente con una valutazione ridicola in cambio di un Pick Up Mitsubishi palesemente schilometrato e un bel po’ di contanti, molti dei quali allegramente elusi al fisco.

    Omar Vidal era fatto così: sempre pronto a confezionare una scusa per alleggerirsi dei carichi di lavoro, delle responsabilità e in generale di tutti gli impegni che avessero richiesto una pianificazione e un calendario.

    Con quell’atteggiamento si era guadagnato qualche nemico, è vero, a partire dagli insegnanti della scuola superiore, che ai tempi d’oro dell’Istituto Tecnico si erano riuniti in una task force per scoprire i trucchi adoperati per copiare nei compiti in classe. Insieme avevano anche cercato di trovare una risposta su come Omar potesse sistematicamente rimediare in poche settimane tutte le materie di studio che nell’anno scolastico aveva trascurato, ma non vi riuscirono.

    Omar Vidal apparentemente, riuscì a portare a termine il progetto d’amore con Greta, la sua adorata moglie, ma chi fosse realmente a conoscenza di tutti i dettagli della sua vita potrebbe obiettare. A guardare date e scadenze si poteva tranquillamente scoprire che il vincolo sacro del matrimonio fu celebrato con Rebecca che abitava il ventre di sua madre da ormai cinque mesi, cresceva sana e forte e scalciava sistematicamente dopo le otto di sera.

    Omar Vidal era fatto così, amava sua moglie ed era orgoglioso di sua figlia ormai quattordicenne, sbarcava il lunario rifilando auto usate a chi volesse credere alle sue panzane e viveva i suoi trentott’anni con la leggerezza di un ragazzino, fino a che, un bel giorno, le cose cambiarono drasticamente.

    - 2 -

    La concessionaria Aut-let era stata ricavata all’interno di un capannone industriale dismesso, ex calzaturificio, ex deposito di mezzi sgombraneve, ex luogo abbandonato e meta del pellegrinaggio di ragazzini alla ricerca di quel brivido speciale.

    Omar e suo fratello Filippo l’avevano acquistato con un mutuo decennale e avevano chiesto e ottenuto il permesso di ricavare all’interno di quel grosso volume uno spazio per gli uffici, con un perimetro di cartongesso e un soffitto in legno, il tutto sorretto e amalgamato ai numerosi pilastri tubolari in acciaio che tenevano insieme tutta la baracca. Alle travi del soffitto avevano appeso dei lampadari a cono rovesciato, che conferivano all’ambiente quell’aria da loft, assieme al pavimento in cemento, lisciato e verniciato di un azzurro tenue. Le enormi finestre sui due lati, seppur troppo in alto per garantire il panorama, sapevano proiettare all’interno una luce ricca e calda, che si amalgamava ai rumori della statale, ovattati e omologati a un unico ronzio di fondo. Fuori un parcheggio, appena ingentilito dalla recente piantumazione di alberi d’alto fusto che tardavano ad attecchire. Sporgendosi sulla punta dei piedi si vedeva il profilo confuso di una piccola città, talmente piccola che, con un po’ di impegno, si sarebbero potute contare tutte le sue case nello spazio di un pomeriggio.

    Ogni giorno l’autobus, la terza linea di una misera serie di otto, si fermava proprio lì davanti, aprendo le porte con uno sbuffo un po’ asmatico e ripartendo un attimo dopo in una nuvola di gas azzurro e grasso. Una delle ventisette fermate che eseguiva, facendo il periplo della città, era prevista proprio a due passi da casa sua. Omar, assalito da una spinta ecologista che a intervalli più o meno stabili si presentava come una colica, si era dotato di un abbonamento che ogni anno rinnovava ma, a dire il vero, non si ricordava quando fosse stata l’ultima volta che i servigi del vecchio bus arancione gli erano tornati utili.

    All’interno del capannone, auto di tutte le marche e di tutte le epoche. In più si poteva assistere a una vergognosa esposizione di catorci ultradecennali, con il vecchio furgone Citroën ereditato dal padre e un paio di Cinquecento color aragosta, pronte a cogliere la crisi di nostalgia di qualche passante. La collezione, così eterogenea e disordinata, era prudentemente tenuta sul retro ed esibita solo ai clienti che ne avessero fatto insistente richiesta.

    Una grossa macchinetta per il caffè a cialde faceva il paio con un boccione di acqua fresca. Una coppia di sedie in plastica rossa e un tavolino basso, letteralmente sommerso da riviste del settore, mettevano a disposizione dei visitatori un confortevole spazio di attesa, sebbene ultimamente non ci fosse nulla da attendere.

    La mancanza di soldi, la crisi del mercato e le politiche sempre più aggressive dei fabbricanti di automobili, stavano scavando un buco sempre più profondo nelle tasche. A guardarlo con attenzione, assumeva le sembianze di una fossa per cadaveri.

    Omar quel giorno era in ritardo.

    Lo era spesso e suo fratello Filippo si era abituato a sentire le scuse più fantasiose in merito, che comprendevano guasti tecnici, problemi di salute della moglie Greta (peraltro in ottima forma e di cinque anni più giovane) e le svariate e sempre diverse crisi adolescenziali della figlioletta Rebecca, così carina ed empatica ma sempre legata a doppio filo con i problemi del mondo intero, dal riscaldamento globale ai brufoli dell’amica del cuore che proprio non se ne volevano andare.

    Quel mattino erano decisamente saltati gli schemi.

    Uscito da casa attrezzato per la corsa, Omar aveva deciso che il chilometro e mezzo che lo divideva dal lavoro sarebbe passato correndo veloce sotto le sue scarpe da ginnastica. L’amore per il podismo, mai sopito nonostante la passione verso la bicicletta, era nato da bambino, nutrito con le potenti energie della giovinezza e arrivato a immaginarlo, in un tempo nemmeno tanto lontano, come una possibile fonte di reddito in qualità di campione di mezzo fondo. Arrivato a tre quarti del tragitto decise di deviare, per integrare con qualcosa di caldo e profumato quella colazione frugale consumata a casa.

    Percorrendo rumorosamente un ponticello legno, arcuato come la traiettoria di una cannonata, superò quella sassaia bagnata che qualcuno aveva avuto il coraggio di chiamare fiume, e giunse al bar collegato al vicino tiro a segno: Il Bersaglio, appunto.

    Lo accolse un pezzo degli Abba crepuscolari, con batteria elettronica e abuso di sintetizzatori: "one of us is crying, one of us is lying in her lonely bed".

    Il corriere del caffè, con la fretta appesa alle spalle come uno zainetto, aspettava nervoso il timbro sulla sua bolla di accompagnamento, battendo in terra il piede al ritmo della canzone. C’erano anche una coppia di coniugi sessantenni con le rispettive valigette delle pistole sportive, un signore anziano chino sulla Gazzetta dello Sport e naturalmente la barista, una bionda ossigenata con un decolleté che superava abbondantemente in sagoma l’estensione del piano bancone. In dote, e la cosa faceva lavorare alacremente il suo registratore di cassa, poteva contare su un sorriso contagioso e una simpatia che appariva naturale. Omar si rese conto che la sua ascella non era certo quella adatta per una gran soirée, ma si sentì giustificato dall’abbigliamento sportivo e da quei pantaloncini neri aderenti che lo autorizzavano a puzzare un po’.

    «Omar Vidal, buongiorno!» lo accolse la barista, con quella voce squillante e potente che sembrava trovare uno speciale boost in quei seni enormi. «Cornetto e cappuccino?»

    Lui si mise a sedere in un posto defilato, badando di non lasciare sul vetro del tavolino l’alone sudato delle sue braccia. Sorrise alla coppia di tiratori e vide sul tavolo del lettore del giornale una tazza di tè fumante.

    «Ahi, dovresti saperlo, ormai, che il latte non va d’accordo con la mia pancia!»

    La barista rispose con il solito sorriso pacificatore.

    «Prendo un tè verde, come il signore al tavolo…» ordinò, facendo finta di non avere visto il bicchiere di liquore appena svuotato e approfittando per salutare l’avventore, che alzò la tazza davanti a una nuvola di capelli bianchi come per invitarlo ad un brindisi. «…e un paio di cornetti che non siano dell’età della "Luisona"» rise sonoramente. Sapeva che la barista amava leggere. Ricordare di tanto in tanto la storia della Luisona, la pasta ultradecennale del Bar Sport di Benni, causava sempre l’effetto di quel sisma ai seni, compreso fra la quinta e la sesta della scala Richter.

    Lasciò impregnare le brioches del liquido caldo, le mangiò e sentì lo stomaco intiepidirsi e il sangue arricchirsi di zuccheri. I tiratori salutarono i presenti con un giro di orizzonte e uscirono tenendosi per mano. La signora, jeans coraggiosamente stretti per la sua età e un odore di sapone che la seguiva fedele, aveva l’aria di essere una di quelle che con la pistola ci sapeva fare. Lui invece, con quei gomiti rugosi e la barba fatta con la zappa, dava la sensazione di non sapere colpire un TIR parcheggiato sotto il sole.

    Omar attese che anche il signore anziano avesse pagato. Lo fece faticosamente, mostrando un po’ di sforzo nello sfilare il portafoglio con le sue mani artritiche dalla tasca posteriore dei pantaloni. Omar, pazientemente, si mise in coda leggermente defilato sul lato. Salutò cordialmente il cliente, che uscì accompagnato da un respiro pesante, e quindi si armò di un pezzo da cinquanta.

    «Vai sempre in giro con ‘ste tovaglie, Omar?» domandò la barista rigirandosi il biglietto fra le mani.

    «Se sapessi… è sempre la stessa tovaglia, che giro e rigiro fin che posso!» rise.

    «Allora lo vuoi proprio il resto?»

    «Ma sì, direi che questa volta lo prendo indietro…»

    «Niente mancia?»

    «Facciamo la prossima volta?»

    Le risate suonarono all’unisono.

    «Aggiudicato!»

    «Ok Omar. La prossima volta ti faccio il caffè, prendo la mancia e poi chiudo per tutto il giorno.»

    Sembrava stessero flirtando i due, ma chi li conosceva sapeva benissimo che per carattere amavano scherzare e che nessuna malizia si nascondeva dietro a quegli ammiccamenti. Gli Abba, intanto, avevano ceduto il posto a De Andrè, che raccontava le vite di quegli esseri umani sepolti sulla collina. Edgar Lee Masters, il poeta americano autore dell’Antologia di Spoon River, in vita non avrebbe potuto augurarsi un testimonial migliore per portare la sua fama anche in Italia.

    L’atmosfera giocosa fu interrotta dall’arrivo di un nuovo tiratore. Lo si capiva dalla valigetta di plastica che sembrava quella di un trapano con le punte, ma che invece racchiudeva una precisissima Glock calibro 22, con un caricatore da cinque colpi inserito e la scorta di cinquanta, tutti pronti per essere vomitati addosso alla sventurata sagoma coi cerchi concentrici.

    Omar salutò con l’occhiolino e, girandosi di scatto e un po’ imbarazzato, rischiò di travolgere il cliente, un suo pari età con la faccia accigliata e l’aria di avere dormito male. Se la cavò con un classico pardon, uscì e riguadagnò la strada per l’autosalone.

    Quando arrivò al lavoro, in un’ora del mattino più vicina al pranzo che alla colazione, Omar lasciò la porta aperta come il suo solito e trovò Filippo vestito di un imbarazzo pesante, e in compagnia di un paio di clienti, una coppia di uomini decisa più che mai a comprare il fuoristrada UAZ per andare a pescare.

    Il 469B, verde militare, pesante e immatricolato nel 1984, giaceva nell’autosalone da cinque anni interi, da quando il suo ex proprietario, un archeologo prossimo alla pensione, lo aveva lasciato in cambio di una Polo con soli cinquantatremila chilometri e una discutibile tinta magenta tendente al porpora.

    «Signori, questo è Omar, mio fratello e socio. Lui più di me saprà darvi delle prospettive per la riparazione del bestione…» disse Filippo, incurante di avere provocato un’eco per tutto il capannone e sicuro di avere riservato lo sguardo assassino esclusivamente per il fratello.

    Omar si fece avanti vestito come un atleta alla sessione mattutina di training, la mano tesa per un saluto cordiale e una cortesia dipinta sulla faccia con una pennellata approssimativa.

    «Piacere signori. Questo fuoristrada è un gioiello. Poca strada percorsa, gomme pressoché nuove e l’aria di essere indistruttibile» esordì, sottolineando la sua affermazione con una decisa pacca rifilata al robusto parafango. Uno dei due, il più giovane, si pietrificò dietro uno sguardo risentito e versò qualche litro di acido nelle acque quiete di quella mattinata.

    «Che però ha il radiatore bucato!»

    Omar si grattò il mento, attirando l’attenzione sulla barba di due giorni e sottolineando che quella sua maglietta avrebbe avuto bisogno di una passata di ferro da stiro.

    Lui l’aveva trovato il radiatore da sostituire. Glielo avrebbero spedito con relativamente poca spesa da un ricambista di Ul’janovsk, la medesima città della Russia occidentale dove il fuoristrada era stato costruito. Glielo avrebbero spedito, appunto, se solo si fosse ricordato di completare l’ordine.

    «Può essere pronto per la fine del mese.»

    «Per la fine di maggio?» replicò l’uomo più anziano, uno che pareva ragionevole, simpatico e pressappoco della sua età, con una folta capigliatura bionda e una barba rossa che scendeva copiosa fino alla camicia. Sembrava un personaggio delle favole, pensò Omar.

    «Ah no, no. Per la fine di giugno.»

    «Quindi del prossimo mese?» domandò indispettito il più giovane. Sulla sua fronte delle rughe di espressione e quel cespuglio di riccioli ribelli che sembravano essere lì per calamitare un ceffone. Omar confermò, augurandosi di cominciare una trattativa che invece non ebbe mai inizio.

    Filippo, intanto, camminava nervosamente avanti e indietro. Al terzo passaggio si curò di chiudere il numero di Quattroruote di aprile, rimasto aperto sulla pagina dedicata alla nuova 127, quindi si chiuse nella scatola dell’ufficio, dove andò ad armeggiare nervosamente con delle fatture.

    «Alla fine del prossimo mese nella peggiore delle ipotesi.»

    I due storsero i rispettivi nasi.

    Omar non capiva nulla di pesca, e nemmeno di caccia per quanto lo riguardava. Odiava in modo viscerale tutte le attività destinate a infliggere sofferenza e ad uccidere gli animali, comprese le passeggiate sotto la pioggia alla ricerca di lumache da mettere in padella. Tuttavia un mese, di fronte all’eternità di quel fuoristrada, gli sembrava davvero poco. Era stato costruito prima che i Duran Duran si sciogliessero e molto in anticipo rispetto alla chiusura della trasmissione Drive-In. Lui, quando l’erede di Stakanov aveva messo le mani su quel telaio aveva solo sei anni, per la miseria!

    Animato da un nuovo ingiustificato entusiasmo rilanciò.

    «Metà giugno, sicuro. Insieme vi metto anche una bella batteria nuova che questa…» indirizzò lo sguardo verso il cofano sogghignando «…mi sembra abbia già fatto il suo tempo» aggiunse, pensando contemporaneamente a Raccattapezzi, il suo fornitore di sfiducia. Si era rivolto a lui piuttosto spesso ultimamente, in quei periodi di sfiducia, appunto, che stavano conquistando a gomitate il posto della sua dignità economica.

    Il Raccattapezzi era un personaggio sinistro, con un passato inconfessabile e una discarica di rottami ammucchiati dietro all’ufficio, ricavato in un container al limitare di un bosco. Quali fossero gli articoli comprati in quel mucchio e quali quelli rubati era difficile scoprirlo. Omar sapeva che si chiamava Elia, che si faceva fornire i pezzi di ricambio da una banda di ladri d’auto attiva nei parcheggi dei supermercati e che la polizia aspettava solo che qualcuno cantasse per potergli mettere le manette ai polsi. Omar, se solo avesse voluto, lo avrebbe affidato alle patrie galere per i prossimi dodici anni almeno, ma non lo voleva. Aveva solo bisogno di una batteria in buono stato e sapeva, e aveva finora saputo esercitare, un sottile ricatto nei suoi confronti in cambio di forti sconti. Lo aveva fatto bene, senza mai uscire dalle righe di quella sceneggiatura che abilmente aveva steso.

    L’uomo più attempato sembrò convincersi convinto della bontà dell’affare, mentre il più giovane, che già in precedenza si era dimostrato scontroso, si impegnò per rendere l’atmosfera ancora più pesante. Scosse i riccioli indisciplinati e sbottò: «Se ne trovano altri di UAZ in giro.»

    «No» lo interruppe bruscamente Omar, cercando di rimediare allo tsunami che, sentiva, stava per abbattersi su di lui. «Non il 469B.»

    Seppe essere convincente, tanto che il barbuto sembrò persuaso, ma non il compare. Disegnò sul suo muso una smorfia di disappunto e piazzò la mazzata.

    «Andiamo. All’AutoNord c’è sicuramente qualcosa di simile.»

    Filippo, che si fingeva interessato alla magra contabilità del primo trimestre, al suono del nome degli odiati concorrenti scattò in piedi. Diede la sensazione che, se quel fucile da caccia cimelio del loro padre defunto fosse stato carico, oltre che semplicemente appeso alle sue spalle, l’avrebbe imbracciato per fare una strage. Dimenticò la ragione in un angolo remoto dell’ufficio e insieme a lei le buone maniere. Uscì, spalancando la porta come una folata di vento. Omar, quella volta, l’aveva combinata troppo grossa. Non solo non vendevano auto da settimane, ma quando avrebbero potuto liberarsi di un residuato russo della guerra di Crimea, suo fratello si era dimenticato di trasmettere l’ordine del fottuto radiatore. Diede fiato alla voce prima ancora che il cervello passasse al vaglio le parole.

    «Lo paga lui» sbraitò, passando accanto all’angolo ristoro e indicando il fratello. «Lo UAZ è in omaggio, basta che lo portiate via da qui dentro. I soldi, quelli che ci dovete, li mette mio fratello, almeno fino a che il fuoristrada non sarà a posto come un orologio svizzero.»

    Queste furono le parole che disse, generando un’incredulità sospesa come in un rallenty. Omar scosse la testa. Il barbuto sgranò gli occhi e cercò conferma nell’amico.

    «Avete capito bene! Questo signore si era preso l’impegno di fare arrivare il radiatore, e non l’ha fatto. Adesso, vi prego, confidate sul fatto che il mezzo è vostro. Il radiatore lo tamponiamo e voi ci andate a pesca nel fine settimana. Poi, quando arriva il pezzo, lo sostituiamo e non ve lo facciamo pagare. Né il pezzo né la macchina, d’accordo?»

    Ricevette in cambio una selva d’occhi sbigottiti.

    Omar mimò il gesto inequivocabile della pazzia, badando a non farsi notare dai clienti. Diede alla voce un effetto flautato e fece uscire un «Cosa vuoi dire?», accompagnato da un sorriso ipocrita. La cosa non piacque affatto a Filippo.

    «Voglio dire che stai facendo andare a puttane la concessionaria mentre io pago le rate del mutuo. Questo mentre aspetto che il signorino trovi dei soldi da qualche parte, che la sua consorte trovi un lavoro e che la cara figlioletta si decida a diventare grande! Quindi amici, siete tutti testimoni. Mio fratello mi deve una valanga di soldi e nemmeno è capace di fare arrivare a tempo debito un pezzo di ricambio!»

    Omar rimase pietrificato, non tanto per il fatto che suo fratello avesse perso il senno, quanto per la cosa che Greta, sua moglie, un lavoro l’aveva. Faceva la bibliotecaria part-time. Guadagnava un’inezia, gli rimanevano intere mezze giornate libere ma si era data da fare per non rimanere inattiva e aveva fatto resuscitare quella biblioteca di periferia. Scosse la testa, lasciando rimbalzare fra le pareti del suo cranio l’idea che suo fratello non considerasse un lavoro dignitoso quello della bibliotecaria.

    «Ora, Filippo, datti una calmata!»

    La mano agguantò il colletto e gli occhi si fecero portatori di un messaggio molto chiaro: hai passato il segno ragazzo!

    «Se tu con la tua testa di cazzo mi fai fallire, io giuro, prendo il fucile da caccia di papà, pace all’anima sua, e ti sparo nel culo, una volta per ogni chiappa!»

    «No Filippo, non è così. Sai come sono fatto! Comincio le cose e poi mi dimentico… bastava ricordarmelo, non ti pare?» allargò le braccia e diede il via a quella serie di espressioni commoventi che negli anni avevano sempre addolcito le ire del fratello tutto di un pezzo, del papà integerrimo e qualche volta anche della mamma, sempre così seria e severa. In quel caso non servì a nulla.

    «Ventiquattromila. Mi devi ventiquattromila pezzi. Cosa facciamo? Rimborsi subito o decidi di applicarti seriamente in questo lavoro?»

    «Filippo, adesso stai esagerando! Avrai i tuoi soldi, molto presto. Finisce questa merda di crisi e tutto quello che guadagneremo qui dentro sarà tuo» fece segno di un cerchio con la mano. «Io, Greta e Rebecca ce la caviamo benissimo con quel poco che guadagna lei. Sappiamo aspettare noi. Non viviamo per i soldi…»

    La mano mollò il colletto e la pressione calò di diversi punti. Nell’aria odore di sudore e un silenzio profondo, tanto che sembrò di avvertire le bolle d’aria risalire nell’acqua del boccione.

    L’Audi nera nell’angolo aspettava un cliente volenteroso e la Seat al fondo aveva solo il difetto di un buco di sigaretta nelle sellerie. Per il resto era perfetta. La Cinquecento parcheggiata dinanzi all’entrata faceva il paio con la FIAT Brava appena ritirata. Entrambe sfoggiavano un bel bianco, che avrebbe convinto il prossimo cliente su quanto lo sporco si notasse poco su un simile colore. Certo, le gomme della MITO erano lise, e poi quel cerchio in lega danneggiato saltava decisamente all’occhio. Ma tutto sommato, pensò Omar, le cose sarebbero andate per il verso giusto.

    Alla prossima occasione, però, perché intanto i due clienti se ne erano andati dalla porta lasciata aperta.

    - 3 -

    La prima parte della salita si snodava noiosa attraverso la frescura del bosco, poi le ultime case dell’abitato, il primo di una lunga serie di ponticelli sul torrente e la casupola dell’acquedotto, dove dietro una porta arrugginita si percepiva il rumore di una piccola cascata.

    Qua e là delle radure con le balle di fieno, adagiate sul pendio in attesa di un volenteroso che venisse a recuperarle. Dopo poco qualche strada tagliafuoco che esordiva, proponendo alle ruote un’alternativa al nero asfalto.

    Gli occhi di Omar erano fissi sulla ruota anteriore: copertone da 25 millimetri e otto atmosfere pompate a mano. Presto sarebbero arrivati i tornanti, uno dopo l’altro a formare un serpente nero annidato nel verde polmone della montagna. Filippo era alle sue spalle, tenuto un po’ staccato per farlo sentire in colpa. Al terzo tornante, e prima di un breve rettilineo, già si apriva un panorama impagabile sui tetti rossi del paese di sotto.

    A Omar quei posti facevano venire in mente mille cose, dalle lunghe escursioni in cerca di funghi alle innumerevoli gite in bicicletta, con tutti i partecipanti armati di buoni propositi alla partenza e infine divisi, ognuno alla ricerca della sua realizzazione personale. Quel giorno

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1