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La Sesta destinazione
La Sesta destinazione
La Sesta destinazione
E-book394 pagine5 ore

La Sesta destinazione

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Info su questo ebook

Inverno, una città del nord, la vita di qualcuno che cambia improvvisamente.

Cinque persone ricevono per sbaglio altrettante mail. Non lo sanno ancora, ma i messaggi contengono la formula chimica criptata di un nuovo veleno, capace di uccidere sia nel breve che nel lungo periodo.

Accade tutto così in fretta che i destinatari della trasmissione sbagliata cominciano a essere eliminati dai killer della cospirazione, che subito si accorge del suo grossolano errore. Qualcuno riesce a sottrarsi al proprio destino, aiutato dalla fortuna e da una potente organizzazione, che si serve di moderne tecnologie e informazioni di spionaggio.

Lucio, il suo amico Alex, la bella Francesca e Stella, dividono l'incubo con altri, colpevoli di essere casualmente finiti sulla loro strada. Imparano presto che il mondo sta per cambiare, che il veleno è già stato diffuso e che i suoi effetti si vedranno molto presto.

Considerati preziosi testimoni, tenuti nascosti e spostati di continuo, riescono a sopravvivere, ma presto dovranno fare i conti con la feroce determinazione dei loro nemici.

Con il tempo che passa in fretta, su una scacchiera che si estende fra il nord Europa e i tropici, il futuro dell’umanità è nelle mani di pochi, scaltri giocatori.

LinguaItaliano
Data di uscita11 set 2018
ISBN9788869344282
La Sesta destinazione
Autore

Roberto Capocristi

Roberto Capocristi è nato a Susa (TO) nel 1966. Da sempre vive in Val di Susa e lavora come libero professionista. Lettore bulimico e consumatore instancabile di cinema e musica, ha già pubblicato sotto il medesimo pseudonimo tre romanzi thriller (Freezer, Interno 1 e Chilometro 53) e una raccolta di racconti, la sua escursione con licenza nel genere horror (Cinque racconti in ordine sparso). Con Bibliotheka Edizioni ha pubblicato il thriller La sesta destinazione (2018). È animato da un amore incondizionato verso la natura, gli animali e lo sport. A tempo perso collabora all'amministrazione di una pagina di satira molto amata e cura un blog, dove pubblica gratuitamente alcuni dei suoi racconti e riflessioni sul mondo della scrittura.

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    Anteprima del libro

    La Sesta destinazione - Roberto Capocristi

    Roberto capocristi

    La sesta destinazione

    Thriller

    © Bibliotheka Edizioni

    Via Val d’Aosta 18, 00141 Roma

    tel: +39 06.86390279

    info@bibliotheka.it

    www.bibliotheka.it

    I edizione, settembre 2018

    Isbn 9788869344138

    È vietata la copia e la pubblicazione, totale o parziale,

    del materiale se non a fronte di esplicita autorizzazione scritta

    dell’editore e con citazione esplicita della fonte.

    Tutti i diritti sono riservati.

    Disegno di copertina: Paolo Niutta.

    www.capselling.it

    Roberto Capocristi

    Roberto Capocristi è nato a Susa (TO) nel 1966.

    Da sempre vive in Val di Susa e lavora come libero professionista. Lettore appassionato e consumatore instancabile di cinema e musica, ha già pubblicato quattro romanzi thriller (Freezer, Interno 1; Chilometro 53 e Una notte per non morire).

    Di recente ha vinto il Premio Bukowski, edizione 2018, nella sezione romanzi inediti.

    È animato da un amore incondizionato verso la natura, gli animali e lo sport. A tempo perso collabora all’amministrazione di una pagina di satira molto amata e cura un blog, dove pubblica gratuitamente alcuni dei suoi racconti e le sue riflessioni sul mondo della scrittura.

    «La demografia sta per essere ridisegnata.»

    «E chi l’avrebbe stabilito?»

    «Hanno sempre stabilito qualunque cosa, le guerre, i confini, le crisi e i momenti di pace, forse anche le pestilenze. Lo fanno dalla notte dei tempi e lo faranno sempre…»

    "Difficilmente si incontrano uomini il cui animo,

    reso acciaio dall’armatura impenetrabile della risolutezza,

    è pronto a combattere fino in fondo una battaglia perduta".

    Lord Jim

    Joseph Conrad

    – 1 –

    Dal sessantaseiesimo piano si potevano ammirare i riflessi colorati dei grattacieli che si specchiavano nel Chicago River.

    Quel pomeriggio, come sempre, le montagne di vetro e cemento proiettavano la loro ombra fredda sulla superficie increspata dell’acqua, tinteggiando di grigio i tetti dei barconi con i turisti e spingendosi oltre, fino a spegnere gli ultimi raggi di sole sulla superficie lucida dell’asfalto. In strada tante auto, taxi e un fiume di umanità in transumanza perpetua da un locale a quell’altro, all’esterno dei teatri e in uscita dai cinema.

    La piatta monotonia del lago, che qua e là cominciava a nascondersi sotto un sottile strato di ghiaccio, esordiva oltre gli enormi edifici allineati sulla passeggiata della River Esplanade e dopo la quarantunesima, dove il ponte mobile stava dettando una disciplina ferrea al traffico.

    Se la città del vento dava l’impressione di non volersi fermare mai, Martino Malandri l’avrebbe fatto volentieri.

    Stanco di un viaggio pianificato all’ultimo istante, aveva lasciato sull’aereo qualche anno di vita, un bel po’ di secrezioni liquide del suo intestino e anche una pessima impressione, fatta a quella hostess bionda con un sorriso da chewingum che lui aveva adocchiato in Italia, quando ancora la quota di crociera non era stata guadagnata e i motori pompavano a tutto vapore per raggiungere la velocità giusta.

    Quel volo in poco meno di tredici ore li avrebbe condotti alle porte del grande west o del grande nord, a seconda dello stato d’animo.

    Per sua sfortuna, prima dello scalo di Londra, aveva già frequentato la toilette per ben tre volte e incrociato la bionda almeno due. Nemmeno il suo capo aveva saputo spiegarsi come un caffè d’orzo, preso al volo al terminal, avesse potuto scompigliare tanto le carte del suo colon.

    All’interno dell’appartamento, trecento metri quadrati, ascensore privato e un plotone di gorilla piazzati in modo più o meno discreto ai quattro angoli e all’uscio, i discorsi di affari erano cominciati dopo che le escort si erano date una pulita e avevano preso la porta, con svariate migliaia di dollari in più in tasca e un’esperienza che richiedeva l’etichetta della riservatezza assoluta. Quelle macchie sul pavimento di ulivo facevano il paio con la polvere di cocaina lasciata cadere in terra ma le pulizie, quelle che i divani in pelle blu e il grosso tavolo rotondo al centro dell’ambiente reclamavano, sarebbero state fatte solo la mattina dopo, da una truppa di cameriere bene organizzate e amate di buona lena.

    L’inglese del suo capo, il dottor Salanzani, stentato nonostante le decine di ore di lezioni private e conversazioni più o meno buffe su linee telefoniche piuttosto protette, era stato fino a quel momento perfettamente comprensibile, scandito con pazienza e con lunghi intervalli fra un concetto e l’altro. Fu dopo una serie di strette di mano che il capo lo raggiunse sul balcone mentre una truppa di avvocati, contabili e altre eminenze grigie, verificavano una serie di carte destinate ad essere distrutte senza mai uscire dalla porta.

    Naturalmente nessuno degli uomini presenti fra quelle mura era mai stato in quel posto.

    Si erano incontrati in giro, chi può dirlo, nello struscio del quartiere della borsa o nella penombra studiata di un ristorante di lusso, ma mai tutti insieme.

    Un’occhiata dal terrazzo verso il centro dell’appartamento sancì che il patto era stato accettato e che gli effetti di quanto stava per cominciare si sarebbero avvertiti molto presto, tradotti in soldi e potere, non necessariamente in quell’ordine di importanza ma sicuramente in misura enorme.

    Salanzani appoggiò le sue terga raggrinzite dal freddo sul bordo della piscina in secca, un’area ovale circondata da assi duri di teak. Martino porse un sigaro che lui rifiutò. Se lo mise in bocca e lo accese.

    Prima di parlare il capo attese che il tabacco si fosse incendiato.

    Dal lago una ventata di gelida e improvvisa segnò netto il confine del giorno.

    – 2 –

    chicca.gorlini@...it

    Dairectory. Aveva detto proprio così: dairectory.

    Quell’idiota del capoufficio, la sera prima, aveva intrattenuto tutto il personale oltre l’orario di chiusura, per catechizzarlo su come salvare certi documenti di nessuna importanza in certe e ben precise dairectory. Chiunque, sano di mente, avrebbe indirizzato al cestino quella porcheria o l’avrebbe segnata con l’indelebile marchio della posta indesiderata. Al massimo, mettendo in pratica la somma di lungimiranza e cautela, l’avrebbe tutt’al più riposta in una directory, senza fare sfoggio di quella pronuncia artificiale.

    Lui no, dall’alto della sua boria aveva gonfiato il suo ego al punto tale di soffocare tutte le velleità di tempo libero, che nelle lunghe ore di quel pomeriggio si erano disegnate nelle intenzioni dei poveri impiegati e aveva disintegrato in un attimo l’idea di un aperitivo al Green Cup o al Super Summer Bar.

    Francesca Gorlini, detta Chicca, mostrava l’entusiasmo dei suoi 26 anni, che ormai si stava corrodendo con la velocità con cui l’onda avrebbe intaccato un castello di sabbia.

    Stanca di una laurea inutile e fiaccata dalle centinaia di curricula spediti in giro per il paese e anche oltre, viveva quell’ultimo stage come l’ennesima presa in giro e aspettava che si completassero quelle quattro settimane, finite le quali avrebbe avuto il sollievo di non dividere più l’ufficio con quel capo patetico e addirittura incapace di pronunciare la parola directory senza coprirsi di ridicolo e nemmeno con quella pletora di leccaculo, che lei aveva individuato un po’ in tutte le stanze. C’era quello pronto a investire il proprio referente di proprietà divine e quello armato di insospettabili ammennicoli della coscienza, più o meno idonei a infilarli nel didietro del primo malcapitato.

    Quella mattina si alzò affrontando uno spiffero di freddo che stagnava in camera e rincorse sotto il letto una delle due ciabatte, che pareva avere vissuto di vita propria nelle ore di buio.

    Prima di vestirsi, di pettinarsi, di lavarsi i denti e di chiedere allo specchio un giudizio sommario sulla giornata che l’aspettava, Francesca si mise davanti al computer. Era un desktop della HP, del quale lei aveva pagato la rata di partenza, sicura che il babbo sarebbe poi intervenuto per saldare tutte le altre.

    La casa era un piccolo appartamento al quarto piano senza ascensore, ereditato dalla nonna spirata fra numerosi tormenti un paio di anni prima. Era stata arredata sfidando mobili svedesi a montarsi senza consultare le istruzioni. C’erano tappeti ovunque e fantasie di cuscini più o meno riuscite. Sulla parete uno scaffale pieno di film in tutti i formati e di tutte le epoche e un paio di quadri di figura fatti ad olio da una sua amica che non vedeva più da un secolo. Nel primo una donna velata di bianco portava alla spalla la mano, l’unico brandello di pelle di quella figura misteriosa. Nell’altro una coppia di leoni strusciavano i musi l’uno con l’altro. La leonessa aveva gli occhi chiusi nel godimento di un attimo, mentre il maschio sembrava fissare triste un punto non lontano. Erano belli entrambi quei dipinti e Francesca si chiese cosa avrebbe potuto tirare su vendendoli, non per mancare di rispetto all’amica, quanto per pagare le bollette che il papi era pronto a saldare togliendosi il pane di bocca. Lui lo faceva volentieri. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per dare una mano alla sua adorata figlia, per superare la crisi.

    Solo che i tempi dei boy-scout, del volontariato e della militanza con Greenpeace si erano conclusi. Il suo impegno, l’empatia e quella voglia tutta sua di fracassarsi il collo mentre si prestava come volontaria sulle ambulanze della Croce Rossa erano finiti, e nelle tasche non c’erano soldi ma solamente ricordi. Era stata concorrente di un famoso gioco a premi televisivo e, a parte la simpatia del pubblico e la fama che le aveva anche fatto aumentare di un bel po’ i contatti su Twitter, non aveva portato a casa nulla.

    Solo che il suo pane stava cominciando a scarseggiare.

    Solo che quella che diceva il suo babbo non era una crisi, era un metodo!

    Il metodo con il quale dei colletti bianchi sparsi ai quattro angoli del mondo hanno deciso di mettere i piedi in testa a qualche miliardo di persone. Se lo ripeteva tutti i giorni quel mantra, senza capire se quella consapevolezza servisse ad affrontare la vita a testa alta oppure a fare salire i soliti rigurgiti di stomaco, quelli che l’avevano abituata ad andare in giro con una confezione di antiacidi nella borsetta. Finivano sempre in fretta quelle compresse bianche, al contrario della scatola di preservativi che le faceva compagnia, assieme a quel set per il trucco e quel deodorante a stick: quarantott’ore di freschezza da portarsi a casa tutte le sere assieme a un boccone di amaro da trangugiare.

    Nel cyberspazio sempre le solite cose: ragionamenti più o meno riusciti, borbottii non meglio articolati, foto dei pranzi, appelli alla sommossa civile e il solito buonismo imperante, che come una melassa fluida andava a legare quelle tessere di un puzzle disomogeneo. Alla prima scrollata di pagina si era già lasciata indietro un paio di discussioni in materia politica, il solito vegano a oltranza preso a parolacce da madri di famiglia e ragazzini imberbi e l’appello per la ricerca di un barboncino bianco di nome Trilli. In un attimo di lucidità si domandò il perché di quella formula risponde al nome, sempre in voga e sempre cretina. Cosa poteva rispondere un barboncino? Sono in bagno? Ti richiamo io quando ho finito oppure non rompere i coglioni? Sono alla ricerca di me stesso e tornerò a casa, ma solo dopo avere girato il mondo? In ogni caso fu sollevata da un messaggio che dichiarava chiusa l’emergenza: Trilli trovato la sera prima, dalle parti del museo della resistenza, con le pupille dilatate come un tossico, spettinato, affamato ma vivo.

    Francesca aveva finito di stupirsi di quella sua soffusa cattiveria, che al pari di una zitella inacidita stava occupando un posto sempre più importante nei cassetti delle sue emozioni. Si ripromise che quel giorno sarebbe stata più dolce. Magari chissà, la giornata avrebbe virato in un flirt con quel farmacista che stava puntando da qualche giorno, sempre che lei non l’avesse impaurito troppo. Il ragazzo era piuttosto carino, odorava di buono e usciva bene dalla luce cinica dei faretti alogeni incorporati nel bancone.

    Fece l’accesso all’account di posta elettronica e approfittò della solita pigrizia del programma, che quella mattina sembrava facesse ruotare la freccetta un po’ più lentamente del solito.

    Per ingannare il tempo si alzò in direzione della sua teiera, una Twinings rossa battezzata con il nome di Brontola. La riempì con dell’acqua in bottiglia e frugò fra le provviste, o meglio in quello che rimaneva. Accanto a due pacchi iniziati di biscotti, un barattolo di miele cristallizzato, qualche preparato per torte e un pacco di gallette al riso che si riconciliava con la tristezza assoluta, trovò e scelse un simulacro di strudel: marmellata di fico con qualcosa di incomprensibile intorno. Di ritorno accese la TV sul canale delle news e attese la solita notizia dell’attentato in Medio Oriente. Arrivò, in ritardo e preceduta da un lungo monologo del Presidente del Consiglio ma arrivò. Il numero delle vittime era ancora incerto e, non essendo coinvolti cittadini occidentali, lo speaker sembrò liquidare la notizia con una nonchalance molto professionale per passare la linea alla redazione sportiva. A sentire i commenti la prossima partita sarebbe stata in salita e lei non capiva come. Dicevano che poteva essere sufficiente coprirsi e ripartire e la cosa, detta alla fine di novembre, suonava quantomeno buffa. In ogni caso la raccomandazione era una sola: quella sera erano tutti invitati a vestire d’azzurro e tifare per la nazionale.

    Festival d’inverno

    Cartucce e consumabili

    Trova lavoro

    Disqus Digest

    Sani e in forma e Amazon.it.

    Questa era la lista delle mail, che lei consultava solo quando se ne ricordava. Assieme alle altre avevano raggiunto il discreto numero di 172, non tutte desiderate, non tutte aperte e molte destinate a finire nello spam appena l’algoritmo del suo programma l’avesse voluto. A fondo pagina, prima della proposta di abbonamento a una rivista on line sull’ingegneria gestionale e appena dopo alla notifica di acquisto di una casa editrice, uno strano messaggio calamitò la sua attenzione.

    Arrotolò le maniche del pigiama e, ignorando la teiera che bolliva, si lasciò incuriosire da quella riga.

    RISERVATO HCN1, seguita dall’oggetto: Section 1/5

    Indugiò, con una mano sul mouse e l’altra sospesa a qualche centimetro dalla tastiera. Istintivamente aprì una seconda pagina di ricerca e digitò prudentemente l’acronimo HCN1 seguito dalle parole TRUFFA-VIRUS-MALWARE, quindi inviò la richiesta e attese. La pagina che si aprì propose una serie di soluzioni, nessuna delle quale comprendeva tutte quelle parole insieme.

    Si tranquillizzò.

    Intanto perché non poteva trattarsi di uno di quei pericolosi trojan in grado di devastarti il computer e fare incetta dei tuoi dati personali in meno di un secondo, e poi perché la mail conteneva un allegato che il suo antivirus aveva ritenuto sicuro.

    L’aprì nel momento preciso in cui il termostato della sua teiera staccava la corrente sotto l’acqua bollente.

    – 3 –

    lucio.ferlino85@...it

    Il computer si azionò. Lo fece non appena completato l’aggiornamento che aveva promesso di mettere a punto l’ultima volta che si era spento, e dopo dieci minuti presi in prestito senza chiedere il permesso.

    Lucio vide che il router del vicino era acceso e che il segnale ben sostenuto attraversava i muri del condominio con la solita, disarmante facilità. Lui non poteva permettersi un abbonamento, ma il vicino ingenuo che aveva scelto la parola "admin" come password, sì, e meritava che i suoi abbondanti giga andassero a servire la causa di un uomo meno fortunato di lui.

    Nel frigo, che necessitava di una pulita per rimuovere quella chiazza caramellata marrone di origine tutt’altro che certa, l’avanzo di un pranzo, che a sua volta era stato l’avanzo della cena.

    Sul tavolo la vecchia tabella dei lavori da cercare e di quelli già cercati. Questi ultimi erano stati cancellati dalla lista con una riga rossa, tracciata a pennarello con andatura leggermente diagonale. Ne rimanevano una mezza dozzina, tutti collegati a titoli di studio lontani dalla sua inutile laurea in Letteratura Moderna o intimamente connessi a un giovanile entusiasmo, ormai smarrito fra le ceneri delle sue mille carriere, tutte finite ancor prima di cominciare. Dell’ultima non aveva che vaghi ricordi e anzi, tendeva a confondere la faccia del preside, che l’aveva salutato con un mellifluo ci rivediamo in autunno, con quella di un certo impiegato del collocamento che rimescolava le carte come un mago facendo finire le sue regolarmente in fondo al mazzo.

    Con il letto ancora sfatto, la faccia da lavare e il dentifricio agli sgoccioli nel tubetto, mise nel vecchio lettore un CD di Ana Popovic. La cantante blues serba iniziò a graffiare le orecchie con la sua voce e fece fischiare la chitarra elettrica sotto le dita.

    Dopo poco il vicino colpì la parete con il manico della scopa.

    Lo faceva sistematicamente appena il suo stereo partiva e, altrettanto sistematicamente, Lucio mostrava al muro il dito indice della mano destra, mentre con l’altra tastava la consistenza dei suoi testicoli a favore di quello spettatore immaginario.

    Non era un uomo volgare, non lo era mai stato. Era il suo vicino di appartamento a farlo innervosire. Aveva la capacità di mandarlo in bestia ogni volta, quando sincronizzava l’uscita sul pianerottolo alla sua e quando sembrava seguirlo nelle cantine.

    Prossimo alla pensione, il vicino aveva trascorso l’intera esistenza a scaldare una poltrona dietro la scrivania di un ufficio statale, con poche pratiche da sbrigare e tante bustarelle da incassare.

    Lo aveva sempre fatto, fino al punto di ammetterlo di fronte a degli sconosciuti, fino a farsene vanto alle assemblee di condominio. Adesso quella poltrona lisa non la occupava nemmeno più, lasciata vacante per tutte le ore di lavoro ormai passate, mentre si intratteneva con i colleghi giovani o con i clienti, sempre pronti a dedicare qualche minuto di vacuità a un autentico monumento come lui, eretto in onore dei mangiapane a tradimento di tutto il mondo.

    Quando lo intercettava sul pianerottolo non perdeva mai l’occasione di ricordargli il suo status di disoccupato cronico, ex lavoratore, ex stipendiato, ex uomo vestito di una dignità.

    Quando lo seguiva in cantina, invece, si intratteneva in un’ipocrita conversazione sull’eventualità di frequentare continui e costosi corsi di aggiornamento, di imparare numerose lingue e di valutare un trasferimento all’estero. Gli suggeriva di rinfoltire la manovalanza dei cinesi nelle fabbriche, di darsi da fare, insomma. Se avesse potuto, se per un istante le leggi degli uomini e di Dio fossero state sospese, Lucio l’avrebbe volentieri ucciso, affogandolo dentro la damigiana alla quale il vecchio andava sistematicamente ad attingere. Era uno squisito Barbera superiore, avuto da un viticoltore delle langhe in cambio del disbrigo di una certa pratica.

    Al secondo richiamo con il manico della scopa, Lucio andò in soggiorno con lo spazzolino da denti ancora in bocca e alzò il volume al massimo.

    – 4 –

    stella.fintabionda@.....it

    L’avrebbe cambiato presto quell’indirizzo mail, intanto perché presto non sarebbe stata più bionda, poi perché, a vent’anni compiuti, conveniva dotarsi di un recapito serio.

    Dalla finestra di camera sua vedeva i due cani rincorrersi nel giardino brinato, con sua madre sempre disponibile a lanciare il frisbee per eccitarli. Suo padre, appena uscito e imbacuccato dentro il suo prestigioso cappotto in lana grigia e con il collo avvolto dentro una sciarpa di Yves Saint Laurent, era armato del suo solito sorriso da inguaribile vincente ed era pronto a partire per l’ufficio con sei metri di Mercedes station wagon. Come ogni mattina la famiglia Manigotti metteva in piazza il suo spettacolo di felicità in formato convenienza e attendeva che le finestre dei dirimpettai si aprissero, con qualche faccia da caffè pronta a ingelosirsi di fronte al loro invidiabile status.

    All’orizzonte, dietro una fila di platani, delle nuvole minacciose stavano portando in grembo tanta pioggia gelata, e magari anche la prima neve. Se non si ricordava male le previsioni meteo della sera avevano messo in conto una simile eventualità e anzi, l’omino serioso del canale settantadue si era detto sicuro che le strade si sarebbero trasformate in un pericoloso pattinaggio a cielo aperto. Gelicidio, aveva detto, e la cosa era suonata come una minaccia.

    La posta che si aspettava non era arrivata.

    Risentita controllò se il messaggio fosse giunto attraverso le chat di Facebook, Telegram o WhatsApp.

    Il nervosismo salì, assieme alla delusione.

    La ragazza dai capelli platinati e dalla bellezza androgina, con la quale la sera prima si era appartata nel bagno del Dirty Old Town, non l’aveva cercata. I suoi gemiti, quelli che erano corrisposti a ogni singola carezza, ogni tocco magico che lei aveva saputo regalarle liberandosi con dimestichezza della barriera protettiva dei collant, erano stati parte di un godimento egoistico e disinteressato. Quell’alito caldo che l’aveva invasa, assieme a un profumo di birra e limone, non aveva trasportato con sé l’inizio di un amore, come invece le era sembrato. Stella si era fatta piccola in quel bagno, ancora più minuta. Il suo corpicino da bambina aveva sentito le pareti fredde strusciare sulla pelle nuda e il seme di un amore era stato piantato, per seccare senza speranza nel breve volgersi di quella notte.

    Non sarebbe stata la stessa cosa sedersi nell’aula 3 dell’università senza avere più parlato con lei, ma lo doveva fare. L’aspettava una noiosa lezione di istituzioni di Diritto Pubblico e doveva stare attenta. Non era facile decifrare la voce incomprensibile di quel docente, che spesso si impastava assieme agli echi dell’ambiente producendo un suono alieno. Il papi pagava la retta, passava una paghetta che avrebbe fatto invidia a tre quarti delle figlie di quella città, ma la voleva pronta. Fra tre anni, quattro al massimo, avrebbe allestito una scrivania per lei accanto alla sua e la Manigotti Inc. avrebbe avuto una degna erede, con buona pace dell’esercito di ruffiani che gravitava intorno all’ufficio del padrone come le mosche con la frutta.

    Con ogni probabilità ci sarebbe stato Mario a lezione. Un ragazzone di un metro e ottantacinque, la fama di essere un instancabile stallone e una propensione a imprestare gli appunti sbobinati a casa sua con pazienza. Si sarebbe seduta accanto a lui, stanca del brutto carattere e dell’imperscrutabile filosofia delle lesbiche di ogni dove, e avrebbe visto se si poteva provare qualcosa di virile e decisamente più impattante.

    Senza nessuna intenzione di fare colazione, si mise seduta sulla poltroncina girevole dinanzi al computer e si stirò nel suo pigiamino di pile. Soverchiata dalla noia, scrollò stancamente lo schermo.

    Dopo meno di dieci secondi venne incuriosita da una strana mail arrivata da poche ore.

    – 5 –

    Saverio60.martirani@....it

    La strada in discesa, che avrebbe dovuto affrontare per andare al lavoro, si era coperta di un sottile strato di neve ghiacciata. Complice il freddo della notte appena trascorsa, i fiocchi si erano adagiati sull’asfalto senza sciogliersi, e adesso si stavano organizzando per mettere in pericolo il paraurti della sua Golf ancora da pagare e per costringerlo ad anticipare l’uscita di almeno dieci minuti.

    Sua moglie, chiusa in bagno assieme alla fissa di mettere in ordine i suoi capelli da cinquantenne prima ancora di guardare che tempo stesse facendo, sembrava essere insensibile alla sua premura come i due gemelli, con sedici anni ancora da compiere e un pericoloso compito in classe di latino che li attendeva a scuola.

    Senza sforzarsi di ricordare come era vestito il giorno prima e se l’abbinamento dei capi di abbigliamento fosse in sintonia con il bianco lattiginoso del cielo, indossò un maglione a collo alto che si inghiotatì i peli della barba di tre giorni. Facendolo mise a repentaglio la sua pettinatura incerta su una massa castana di capelli elettrici.

    Quando la porta del bagno finalmente si aprì, Claudio e Paolo, i due gemelli monozigoti che applicavano come un preciso algoritmo l’alternanza di colore delle scarpe, si impossessarono rispettivamente del lavandino e del water, costretti negli anni ad accettare dei compromessi tanto scomodi. Ora la casa era in attesa del secondo, agognato servizio igienico. Il bagno, che prevedeva tra l’altro la vasca con idromassaggio e cromoterapia, nei suoi progetti doveva essere costruito in aderenza al muro rivolto a ovest e, per assecondare i capricci del tecnico comunale, avrebbe avuto il tetto realizzato con tecniche stilistiche proprie dei cascinali di pianura. Per il momento giaceva su carta formato A3 negli uffici del comune, in attesa che l’autorizzazione per l’ampliamento fosse finalmente rilasciata. A giudicare dallo sguardo di sfida che quell’impiegato insolente aveva riservato alla sua garbata richiesta di chiarimenti, quel permesso non sarebbe arrivato tanto presto.

    Saverio si ricordò bene delle previsioni meteo a cui aveva assistito il giorno prima mentre sorseggiava una Guinnes, divertendosi a fare rotolare la pallina di plastica nella lattina vuota. Si era parlato di nevischio e di temperature in discesa e anzi, la procace presentatrice aveva liquidato la cosa come un fenomeno di importanza scarsa se non scarsissima, una cosa che si sarebbe estinta prima ancora del sorgere del sole. E invece avevano preso un gigantesco granchio, dal momento che, fuori di casa sua, si era materializzata una succursale dell’Antartide.

    Convinto di essere ormai definitivamente in ritardo per l’apertura del negozio di strumenti musicali presso il quale lavorava da almeno vent’anni, si mise a sedere davanti al portatile, un SAMSUNG piuttosto datato e lasciato colpevolmente aperto dai suoi figli, quasi a cercare di indirizzare qualche briciola della colazione fra gli anfratti segreti della tastiera. Mentre la televisione snocciolava il suo rosario, accese e la routine di partenza si svolse in pochi secondi.

    Formattò un messaggio per il suo capo, in modo che fosse avvertito del suo ritardo. Non ci mise un impegno particolare nel farlo, convinto che anni di amicizia e fedele servizio avrebbero ammorbidito quei tratti spigolosi del carattere:

    Ciao Walter. Tardo di mezz’ora causa ghiaccio in strada.

    Perdonami. Recupero questa sera o al massimo domani.

    Saverio.

    La mail venne recapitata al destinatario e, lui sapeva, il ritardo gli sarebbe costato una punizione certa: montare il carico intero di batterie che doveva arrivare al pomeriggio, mettere a punto qualche ponte Floyd Rose e magari stare dietro a un cliente petulante in vena di provare tutti i bassi elettrici della rastrelliera. Contemporaneamente ai suoi pensieri carichi di negatività, una dozzina di messaggi si misero ordinatamente in fila, in attesa di essere presi in esame. A partire da un invito nemmeno troppo camuffato di comprare una medicina a base di erbe orientali, capace di perpetrare l’erezione fino allo sfinimento, erano tutti da cancellare, tranne il primo e il terzo. Uno annunciava che i termini di attesa per il decorso della sua pratica edilizia erano trascorsi e che l’autorizzazione sarebbe stata rilasciata, l’altro recava con caratteri in grassetto il nome indecifrabile di una società a lui sconosciuta: la HCN1. Si chiese come la severa selezione del suo gestore della posta elettronica avesse potuto lasciare passare un messaggio che aveva nell’oggetto la scritta 5/5 seguita da una serie di simboli strani e come invece, in altre occasioni, avesse sbattuto fra gli indesiderati dei messaggi formattati con tutti i crismi.

    Prima di aprirli rivolse lo sguardo alla finestra.

    Dietro il vetro appannato si intuiva il lampione della pubblica ancora acceso, circondato da una nebbiolina sottile e da un vortice ipnotico di fiocchi di neve.

    – 6 –

    La strada si intuiva appena, materializzata sui bordi con delle pertiche bicolori, che emergevano come alberi insoliti dalle due pareti laterali di neve. In lontananza, verso le colline, un cielo azzurro che sembrava virare al viola si stava punteggiando di cirrocumuli, addossati come pecore prese alla sprovvista da un lupo affamato.

    L’affare, che si era perfezionato a Chicago, doveva essere celebrato assieme a coloro che ne avrebbero goduto i frutti, per anni, lustri, addirittura intere generazioni.

    Per farlo l’appuntamento era stato fissato prima ancora che il taxi per portarli all’aeroporto fosse parcheggiato di sotto. Un volo privato li aveva portati fino a Budapest con un solo breve scalo a Monaco di Baviera.

    Accanto alla pista del Ferihegy, che lambiva il distretto 18 della capitale, la neve si era posata abbondante nella notte, ma già l’inquinamento della vicina superstrada ne aveva intaccato la verginità. Dopo due ore di volo avrebbero avuto entrambi voglia di una pausa, un caffè caldo preso da seduti in compagnia di un dolce tipico, magari un beigli infarcito di pasta di noci.

    Non ebbero il tempo, né per le calorie né per la fragranza di un sigaro.

    Il grosso SUV nero, che li attendeva non lontano dagli hangar, aveva il motore acceso e le ruote dotate di una vistosa chiodatura.

    Adesso era tutto chiaro.

    Dopo un’ora, il percorso attraverso le campagne innevate era diventato piuttosto impervio, con strade sempre più strette, curve da affrontare con cautela e saliscendi da mal di stomaco. Fino a quel momento i chiodi alle ruote erano stati utilissimi e lo sarebbero diventati ancor di più quando

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