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Epistassi
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Epistassi
E-book194 pagine3 ore

Epistassi

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Info su questo ebook

Epistassi: una piccola perdita di sangue dal naso, a volte innocua, a volte sintomo di un male più profondo. Proprio come queste storie. Ci troverete poco sangue, eppure ognuna di loro conduce a una fine terribile.


C'è un trenino fantasma bloccato nel tunnel di un Luna Park. Un palazzo che si nutre del dolore dei suoi abitanti. Un vecchio perseguitato dall’ombra dei morti. Un ragazzino inghiottito da un pozzo. Un pranzo in famiglia che si trasforma in incubo. E poi creature dimenticate che nuotano nel Naviglio, antichi riti per la fertilità e cani che cantano la fine del mondo.


Leggere Epistassi significa immergersi in un territorio oscuro che sta divorando le città che abitiamo e le persone che incontriamo ogni giorno. Nessuna ironia, né speranza, solo la riscoperta della più potente emozione umana: la paura che muove il mondo e tutte le cose.

LinguaItaliano
Data di uscita21 gen 2021
ISBN9788869347009
Epistassi
Autore

Stefano Cucinotta

Stefano Cucinotta è nato a Como nel 1985. Si è laureato in Lettere all’Università degli Studi di Milano e attualmente è Direttore Creativo di un’agenzia pubblicitaria. Vive a Milano e, neanche a dirlo, fin dalla tenera età è stato avido consumatore di storie di paura. Epistassi è la sua prima raccolta di racconti.

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    Anteprima del libro

    Epistassi - Stefano Cucinotta

    © Bibliotheka Edizioni

    Piazza Antonio Mancini, 4 – 00196 Roma

    tel: (+39) 06. 4543 2424

    info@bibliotheka.it

    www.bibliotheka.it

    I edizione, gennaio 2021

    e-Isbn 9788869347009

    Disegno di copertina: Paolo Niutta

    www.capselling.it

    Progetto grafico: Riccardo Brozzolo

    Stefano Cucinotta

    Nato a Como nel 1985.

    Si è laureato in Lettere all’Università degli Studi di Milano e attualmente è Direttore Creativo di un’agenzia pubblicitaria.

    Vive a Milano, con due gatte e un drago barbuto. Neanche a dirlo, fin dalla tenera età è stato avido consumatore di storie di paura. Epistassi è la sua prima raccolta di racconti.

    Per fare un fantasma ci vogliono una vita,un male,un luogo.

    Michele Mari, Fantasmagonia

    La fessura nel muro

    La porta si aprì e l’uomo entrò nel bar.

    Al di là dei vetri del locale, Milano era immersa nella nebbia. Aveva piovuto per tutta la settimana, e l’acqua aveva affogato i palazzi del centro, cancellandone i colori. Gli incroci brulicavano di ombrelli scuri che scivolavano nelle vie secondarie, nei budelli dimenticati dai turisti.

    Il bar stesso sembrava un’isola dimenticata, l’ultimo avamposto di umanità in un mondo fradicio. Le persone entravano come naufraghi attirati dalle luci calde dell’interno, dai tavoli discreti, dai ripiani di legno pieni di alcolici.

    Dopo la pioggia era venuta una nebbia lattiginosa e densa come non si vedeva da anni, inghiottendosi i suoni dei passanti e delle auto, abbassando il volume della città.

    Dietro al banco, Daniele sistemava le tazzine di caffè, ancora bollenti di lavastoviglie. Avrebbe finito il turno solo alle otto di quella sera, ma era già stanco come a fine giornata. La nebbia gli metteva una sonnolenza fastidiosa, e dopo pranzo si sarebbe volentieri fatto un sonnellino. Osservò Valeria con la coda dell’occhio. Stava servendo l’unico tavolo occupato, una coppia sulla trentina. La guardò sorridere e scambiare qualche battuta mentre posava le cioccolate fumanti. Sembrava piena di energia, per nulla scalfita dal meteo o dal turno del fine settimana. Gli piaceva sentirla parlare con le persone, e come si legava i capelli e molte altre cose che si era ben guardato dal dirle. Era fidanzata da anni, e lui non era certo tipo da mettersi in mezzo. Quindi si godeva i turni in comune come una specie di premio, e si limitava ad osservarla.

    Proprio in quel momento si voltò verso di lui con il vassoio in mano e gli sorrise. Ecco la cosa che gli piaceva di più.

    La porta si aprì e l’uomo entrò nel bar.

    Si voltarono entrambi a guardarlo, e anche la coppia al tavolo lanciò un’occhiata fugace, interrompendo la conversazione.

    Era sulla sessantina, appesantito e dall’aspetto trasandato. I radi capelli gli si erano incollati alla testa per l’umidità, ed entrando se li era lisciati all’indietro con un movimento automatico e sgraziato. Aveva la barba brizzolata, poco curata, e indossava un soprabito che un tempo doveva essere stato elegante, ma ormai ricadeva flaccido e infeltrito come una seconda pelle pronta a cadere. In mano aveva una vecchia borsa di pelle rovinata, di un indefinito colore lucido e scuro. Sembrava piena al punto di esplodere.

    L’uomo sembrò spaesato dalle luci e dal calore del locale. Si diresse al banco e appoggiò la borsa a terra con inattesa cautela. Daniele gli sorrise. Notò che aveva le mani arrossate e spaccate dal freddo. Le aveva appoggiate entrambe sul banco, sedendosi di sbieco su uno sgabello. Fissava le bottiglie davanti a sé.

    «Buongiorno.»

    L’uomo non rispose. Si voltò e guardò la coltre di nebbia al di là del vetro. Per qualche secondo la musica a basso volume in filodiffusione fu l’unico suono del mondo. «Un whisky liscio.»

    Daniele annuì. Che fosse un ubriaco molesto? L’ultima cosa di cui aveva bisogno era qualche grana del genere, per chiudere la settimana in bellezza. «Quale preferisce?»

    «Uno qualsiasi. Doppio.»

    Daniele si sforzò di sorridere e annuì di nuovo. Quel tizio non gli piaceva. Valeria lo raggiunse, sistemando il vassoio, e gli lanciò uno sguardo eloquente: probabilmente stava pensando la stessa cosa. L’uomo si torturava le dita in modo fastidioso, pizzicandosi le cuticole, grattandosi le unghie consumate fino alla carne viva. Emanava un odore intenso e poco piacevole: non una vera puzza, più l’impressione di qualcosa chiuso per troppo tempo a consumarsi nell’umidità di un armadio.

    Il whisky riempì il bicchiere screziato, riflettendo le luci del bar. L’uomo lo bevve in due lunghi sorsi, chiudendo gli occhi e sbuffando alla fine. La radio passava un pezzo anni ’90. La città, fuori, si mostrava a sprazzi, riemergendo dal muro di foschia, come in frammenti di ricordo.

    Finalmente, l’uomo alzò la testa e guardò Daniele. Il ragazzo si accorse solo allora che aveva gli occhi arrossati e lucidi e il volto congestionato. Sembrava preda di un profondo turbamento che gli aveva solcato il viso, marcando la bocca all’ingiù e spezzando la fronte a metà.

    «Sta bene? Lo vuole un bicchiere d’acqua?» Daniele era ora più preoccupato che intimorito dalla situazione. Valeria se ne accorse e guardò prima uno poi l’altro, come la spettatrice di uno strano western durante una scena di stallo.

    Come risvegliandosi da un brutto sogno, l’uomo si strofinò gli occhi con le dita devastate e fece no con la testa. «Dammi un altro di questo.»

    Daniele perse un po’ di tempo fingendo di cercare la bottiglia giusta. La coppia nel frattempo se n’era andata, scomparendo nel bianco di fuori. L’uomo li seguì con lo sguardo come se li avesse riconosciuti solo in quel momento. «Lei è sposato?» chiese improvvisamente a Daniele, mentre gli veniva servito un altro dito di whisky.

    «Io? No.»

    «Ce l’ha una donna?»

    Il ragazzo sorrise. «No, per ora no.»

    Vide con la coda dell’occhio Valeria che tratteneva una risatina, ma non si scompose. La situazione non era ancora del tutto sotto controllo, e mancava ancora troppo alla fine del turno.

    «Io ero sposato. Poi lei è morta» disse l’uomo, prima di bere un sorso. Le sue parole rimasero sospese.

    «Mi dispiace,» disse Daniele.

    «È successo quasi un anno fa.»

    «Ah.» Ci pensò un istante, poi si affrettò ad aggiungere: «Dev’essere dura.»

    L’uomo appoggiò il bicchiere e cercò una posizione più comoda. Il suo viso si velò di una tristezza profonda e Daniele pensò che stesse per piangere. Ma non pianse, sorrise, guardandolo negli occhi. «Ora ti racconto una cosa.» Si guardò attorno, nel bar deserto, inghiottito dalla nebbia, nel cuore dimenticato della città. Un altro sorso. Daniele annuì, poco convinto, ma l’uomo aveva già cominciato.

    «Ne ho avute molte, di donne. Una volta le cose erano diverse. Bastava essere belloccio, e avere il grano. Io ero molto bello e molto ricco, sempre circondato da ragazze, invidiatissimo dagli amici. Mai stato innamorato di nessuna: erano parte dell’arredamento per me. Mio padre era… non importa neanche questo. Era un pezzo grosso della finanza. Aveva amici nell’arte, nell’architettura, casa nostra era sempre piena di gente. E una sera a una festa ho conosciuto una ragazza, la figlia di una scultrice, mai vista prima. Era… non si può descrivere cos’era lei, cos’era quella serata. È passata una vita intera, piena di schifo, di rimpianti, di rimorsi, tutte le cose brutte che si fanno e… comunque quella serata è ancora qui bella nitida nella testa. Posso vedere il suo vestito verde, i capelli raccolti. Il collo più bello che avessi mai visto. Gli occhi tristi da animale in trappola. Forse la sua trappola ero io. Si chiamava Elisa: avevo conosciuto altre ragazze con quel nome, prima di allora, eppure fu come sentirlo per la prima volta. Elisa. Ma ne innamorai quella sera, dopo poche frasi.

    Ci sposammo un anno dopo. L’anno più bello della mia vita. Avevamo tutto: soldi e tempo per viaggiare, e tutta quella passione dei vent’anni. Dio mio. Il mondo ci si schiudeva davanti come uno di quei fiori tropicali enormi, misteriosi, pieni di succo. Era facile amarla, vedendola addormentarsi la sera, guardando gli altri uomini voltarsi per cogliere in un suo movimento una promessa fuggevole, un indizio di qualcosa che invece era destinato solo a me.

    Il matrimonio fu minuscolo, quasi improvvisato, magnifico. Pochi amici, i miei genitori, sua madre, sul lago. Pioveva a dirotto e questa cosa la faceva ridere da morire. Abbiamo delle foto orrende di quel giorno, e lei ride in ogni scatto. Sei mai stato innamorato? Te lo dico io: no. Avrai avuto le tue cottarelle, ma non sei ancora un uomo. Uno diventa uomo quando si innamora la prima volta, e ad alcuni non succede mai, per una vita intera. Muoiono convinti di aver provato qualcosa, e invece non sanno niente.

    Avevo tutto, dicevo, e l’ho gettato via. Perché ero giovane, potrei dirti, avevo la tua età, l’età per fare un sacco di cazzate. E lei era il centro di tutto, ma poi ci fu qualcun’altra e qualcun’altra ancora. Te l’ho detto, ne ho combinate. Se solo… Non so. Versamene ancora un po’. Per favore.

    Ci lasciammo per qualche mese, poi tornammo insieme. Fu bello, ma in modo diverso: come quando hai qualcosa di prezioso per le mani, ma sai che ti è caduto e si è spezzato, e anche se per gli altri sarà sempre immutato, per te è cambiato tutto. Mi perdonò con la voce, ma non lo fece mai con gli occhi. E la storia dei miei errori era scritta nei suoi sguardi, nei sorrisi incompleti. L’amavo ancora, e non c’è amore più grande di quello alimentato dal senso di colpa.

    Sai come dicono nei libri, che ti svegli una mattina e sono passati trent’anni? Cazzate. Trent’anni sono fatti di mesi, giorni, ore, e li senti tutti addosso, solo che poi te ne dimentichi e ti trovi vecchio e incattivito, avvizzito senza sapere perché. E quando lei torna a casa una sera e ti dice che in ospedale hanno visto qualcosa che non va, senti per la prima volta il rumore inesorabile della fine, il piccolo orologio che scandisce il tempo di tutti noi. Poi ci sono i cicli di chemio, la pelle che fa schifo, i capelli che cadono, e la persona che hai amato così tanto che scompare un po’ alla volta. Non è veloce. E si porta via dei pezzi anche di te.

    Quando è morta non era il dolore a farsi sentire, era solo una rabbia sconfinata: la donna che mi aveva parlato ogni mattina degli ultimi trent’anni d’improvviso se n’era andata, e la casa con lei. Non ho toccato nulla, i suoi vestiti sono ancora nell’armadio, le fotografie sparse in giro. Mi dicono di andare avanti, ma è indietro che vorrei andare, fino alla sera in cui l’ho incontrata nel suo vestito verde, le ho offerto un bicchiere e le ho detto Non ci conosciamo.

    Ci siamo mai davvero conosciuti? Abbiamo scavato nel peggio dell’altro, e qualche volta abbiamo visto che c’era ancora del buono, qualcosa che non fosse venuto a noia in tutto quel tempo. E abbiamo parlato tanto, di tutto, prima di essere interrotti.

    Ho pensato di farla finita. Non abbiamo figli, i nostri amici si sono persi per strada, non mi interessava più nulla, la casa, i soldi, i viaggi, nulla. Anche il cibo aveva perso sapore. Volevo crepare come il vecchio che ero: un guscio di qualcosa che non esisteva più.

    Dormivo sempre meno e sempre peggio. Le notti erano diventate brevi e turbolente, e la mattina mi trascinavo a stento fuori dal letto. Ho passato giornate intere in pigiama, a fissare la televisione senza vedere nulla. Volevo solo morire, e mi sembrava troppo difficile farlo.

    Spinto da non so quale istinto di conservazione, presi a passeggiare la mattina prestissimo. Milano dà il meglio di sé quando nessuno la guarda, diceva Elisa, ed è davvero così. Riuscivo a inciampare in piccoli lampi di bellezza all’alba in centro, prima di tornare ad annegare nella mia condizione. Le mattine di pioggia non prendevo l’ombrello, e camminavo sotto l’acqua, che in qualche modo mi faceva sentire vivo. Ma pensavo alla morte ogni secondo: quella di Elisa e la mia. Se solo fossi stato meno vecchio o meno codardo l’avrei fatta finita molto prima. E invece camminavo, trascinato dall’inerzia. Chilometri e chilometri di saracinesche che si aprivano, profumo di pane o di caffè o di immondizia. Decine di facce, centinaia: tutte uguali, aliene, incomprensibili. A una certa età non vuoi più capire niente. Solo sopravvivere, o morire, e per entrambe le cose ci vuole troppo coraggio. I pensieri si facevano sempre più oscuri. Immaginavo Elisa gonfiarsi di gas nella bara che avevo scelto, poi esplodere di insetti che se la mangiavano dall’interno. E immaginavo di essere morto anche io, rigido, finalmente a riposo. Le notti erano pessime e angosciose e di giorno ero immerso nella sonnolenza vischiosa dei farmaci, galleggiavo tra immagini confuse, scie di luce di fari e lampioni. Era dunque quella la morte? Un liquido oblio infestato di ricordi?

    Una mattina, poi, incontrai quel tizio.»

    Daniele si riscosse. L’uomo aveva parlato a lungo, in un unico flusso di pensiero incredibilmente lucido. Lo guardò bere un sorso e fissare quella borsa scomposta che gli giaceva ai piedi come un grottesco animale da compagnia. Fissò le sue dita spellate, le unghie annerite e scheggiate, come se avesse lavorato troppo tempo all’aperto. L’uomo intercettò in qualche modo il suo sguardo. «Ci arriviamo,» disse. Daniele scrollò le spalle ma non disse nulla: Valeria si era appena seduta di fianco a lui, sorridendo a entrambi. «Voglio sentire anche io,» disse, in tono infantile, che non ammetteva repliche.

    In lontananza riecheggiò un tuono sordo. Milano era scomparsa di nuovo. C’erano solo l’uomo e la sua storia.

    «Dov’ero rimasto? Ah sì, l’uomo. Era un tizio qualunque. I medicinali non mi permettevano di mettere a fuoco la fisionomia delle persone, e non me ne importava nulla di riconoscere gente mentre giravo a vuoto per le strade. Ero proprio qui dietro, dove Santa Marta incrocia San Maurilio e ti sembra di uscire da un budello nascosto, privato, per gettarti in una strada vera, nel resto del mondo. Pioveva a dirotto, ma anche l’uomo non aveva un ombrello. Pensandoci, più tardi, mi chiesi cosa ci facesse lì, in piedi, sorridente, sotto la pioggia. C’era un bar aperto proprio di fianco a me, ma lui non ci stava andando, ne sono sicuro. Era solo immobile, come… come se mi aspettasse, sì, ora posso dirlo, ma non fu quella la prima impressione. Sembrava perduto, come me.

    Buongiorno, mi disse, e io ricambiai in qualche modo. Pensai di aver esaurito i rapporti sociali anche per quel giorno, ma quel tizio evidentemente aveva altre intenzioni.

    Mi chiese dove stessi andando e quando gli risposi che non lo sapevo, si mise ad annuire, e sorrideva di continuo, mi dava sui nervi. Pensai che fosse una sorta di venditore ambulante o uno di quei tizi con i volantini che parlano del paradiso alle fermate del tram. Ma non me ne andai, c’era qualcosa nella dinamica dell’incontro che mi faceva dubitare della sua stessa casualità. Ero paranoico, di nuovo forse per effetto delle medicine. Lui si mise a parlare del quartiere come se lo conoscesse da una vita. Disse che abitava in zona, e indicò alle sue spalle. Dopo qualche convenevole sul tempo mi chiese se volessi vedere una cosa. Suona strano, ora, alla luce del giorno, con qualche bicchiere in corpo, ma al momento non mi colpì. Mi ritrovai a scambiare due chiacchiere come con un amico perduto. Non mi disse dove mi stesse accompagnando, ma

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