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I grandi romanzi gotici
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E-book2.212 pagine37 ore

I grandi romanzi gotici

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A cura di Riccardo Reim
Edizioni integrali

Lugubri castelli infestati da spettri, sinistre apparizioni notturne, giovani eroine preda di indescrivibili orrori, tenebrosi e fatali persecutori, mostri, licantropi, vampiri... Il romanzo “gotico”, dal Castle of Otranto di Walpole (1764) al Melmoth di Maturin (1820) – per indicare due libri che, secondo una certa convenzione, segnerebbero gli estremi cronologici del fenomeno – è davvero soltanto questo cupo bric-à-brac di luoghi, personaggi e situazioni? O invece la narrativa gotica, con il suo «sublime del terrore», in reazione al predominio della ragione e del common sense, nasconde angosce e inquietudini che oggi torniamo a sentire sorprendentemente vicine?... Attraverso i capolavori dei maestri indiscussi del genere (Horace Walpole, M.G. Lewis, Ann Radcliffe, Mary Shelley, C.R. Maturin, John William Polidori) il lettore è chiamato a esplorare i labirintici sentieri della paura – elemento cardine della Gothic Fiction, e che, come notava D. Punter, «non è semplicemente un tema o un atteggiamento, ma ha anche delle conseguenze in termini di forma, stile e rapporti sociali dei testi» –, a godere, con un brivido di delizia, la caotica, trionfante irruzione del terrore sulla pagina scritta.


Riccardo Reim

scrittore, regista, attore, ha pubblicato numerosi volumi di saggistica, teatro e narrativa. Nel 2008 è uscito il suo romanzo Il tango delle fate e nel 2009 il saggio Il cuore oscuro dell’Ottocento. Per la Newton Compton ha curato numerose traduzioni di classici europei e americani (Dumas, Hugo, Diderot, Twain), nonché la fortunata antologia I grandi romanzi gotici.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854125643
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    Anteprima del libro

    I grandi romanzi gotici - a cura di Riccardo Reim

    222

    Titoli originali: The Castle of Otranto, traduzione di Mario Prayer,

    The Monk, a Romance, traduzione di Gianna Tornabuoni;

    The Italian; or, The Confessional of the Black Penitents, a Romance,

    traduzione di Mario Prayer; Frankenstein; or, The Modern Prometheus,

    traduzione di Paolo Bussagli; Melmoth, the Wanderer. A Tale, traduzione

    di Diana Bonacossa; The Vampire, a Tale, traduzione di Erberto Petoia

    Prime edizione ebook: giugno 2011

    © 1993, 2010 Newton Compton editori s.r.l.

    ISBN 978-88-541-2564-3

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Gag srl

    Horace Walpole - Matthew G. Lewis - Ann Radcliffe

    Mary Shelley - Charles Robert Maturin John William Polidori

    I grandi romanzi gotici

    Il castello di Otranto, Il monaco,

    L’italiano o il confessionale dei Penitenti Neri,

    Frankenstein, Melmoth, l’uomo errante, Il Vampiro

    A cura di Riccardo Reim

    Edizioni integrali

    Newton Compton editori

    Introduzione

    Nel suo studio The Literature of Terror, David Punter a proposito della parola «gotico» scrive: «in un contesto letterario, gotico viene più che altro applicato a un gruppo di romanzi scritti fra il 1760 e il 1820. I loro autori, salvo poche eccezioni, non sono attualmente oggetto di particolare attenzione critica, per quanto alcuni nomi mantengano ancora un certo rilievo: Horace Walpole, Ann Radcliffe, Matthew G. Lewis, C. R. Maturin, Mary Shelley. [...] Esistono notevoli differenze tra i più noti romanzi gotici, tuttavia la storia letteraria è stata propensa a raggrupparli tutti assieme in un omogeneo corpus narrativo. Quando si pensa al romanzo gotico vengono subito in mente una serie di caratteristiche: una certa enfasi nel descrivere il terrificante, una frequente insistenza sulle ambientazioni arcaiche, un uso cospicuo del soprannaturale, la presenza di personaggi estremamente stereotipati e il tentativo di dispiegare e perfezionare le tecniche di suspense letteraria sono le più significative»¹ . Dunque, la narrativa gotica sarebbe la narrativa del castello infestato dagli spettri, delle sinistre profezie, delle pallide eroine in preda a indescrivibili terrori, dei perfidi e implacabili persecutori, delle cupe atmosfere notturne, dei vampiri, dei mostri, dei fantasmi?... È davvero tutto qui? «Se fosse questo il solo significato letterario del gotico, il termine sarebbe abbastanza facile da descrivere e da definire», osserva ancora Punter ² ; e invece non lo è, poiché «gotico» (che non è un termine esclusivamente e neppure principalmente letterario) ancora oggi ha una varietà quanto mai ampia di significati, e in passato ne ha avuti anche di più. Verso la metà del XVIII secolo, in particolare, Gothic (o Gothick, come spesso veniva scritto nell'inglese settecentesco) non era neanche più un generico sinonimo di «teutonico» o «germanico», ma significava semplicemente «medievale»³ - quindi un termine da poter usare in contrapposizione a «classico» -, da associarsi a «eccessivo», «pittoresco» ⁴ , «romantico» e, per estensione, «raccapricciante». Corruschi e suggestivi bagliori vennero sostituendosi alla claritas del classicismo; in un radicale mutamento dei valori culturali (difficile da definire, ma certo di enorme portata), il primitivo, il caotico, il selvaggio finirono per assumere un valore positivo in sé e per sé: «il gotico sosteneva il barbarico rispetto al civilizzato; la crudezza di contro all'eleganza; gli antichi baroni inglesi di contro alla piccola nobiltà cosmopolita; in verità, l'inglese e il provinciale di contro all'europeo e all'infranciosato» ⁵ . Volgendo al termine, «il secolo che si era creduto il più equilibrato e perfetto si tende nostalgicamente al passato, e proprio a quel passato i cui ideali si credevano opposti ai presenti, il mistico e pittoresco Medioevo, un vago Medioevo che si stende dalle prime età barbariche fino a tutto il Rinascimento, e comprende tanto Chaucer quanto Shakespeare, Spenser e Milton» ⁶ . Ci si trasporta con la fantasia in epoche indefinite e remote, lontano nel tempo e nello spazio; si diffonde ancor più il gusto dell'esotismo, già viva componente del mondo letterario britannico (i «pittoreschi» paesaggi italici, ad esempio, spesso reinventati attraverso i dipinti di Poussin, Lorrain, Guido Reni e soprattutto Salvator Rosa), dilaga la moda delle «mistificazioni» - o «riappropriazioni di un passato»? -più o meno evidenti⁷ : i tre libri dei canti ossianici di Macpherson vedono la luce tra il 1760 e il 1763; le Reliquies of Ancient English Poetry (per metà rifacimenti di pugno dell'autore) di Thomas Percy vengono stampate nel 1765; nel 1769 Thomas Chatterton pubblica Elinoure and Juga, indicandone come autore un immaginario monaco del Quattrocento, Thomas Rowley... E ancora, ecco l'esangue, languida, diafana «poesia sepolcrale», il cui influsso sulla narrativa gotica sarà più che considerevole (benché in modo alquanto curioso, ovvero tramite l'influenza esercitata sugli scrittori tedeschi di racconti del terrore, in una sorta di rebound): i Night Thoughts (1742-1745) di Edward Young, The Grave (1743) di Robert Blair, le Meditations among the Tombs (1742-1745) di James Hervey, Ode to Fear (7 747) di William Collins, la celebre Elegy Writ,ten in a Country Churchyard (1750) di Thomas Gray (che dopo essere stato intento alle antichità classiche si volgerà a quelle germaniche in poesie come The Bard e The Descent of Odin, capolavoro forbito e melodioso che si potrebbe considerare quasi un «proclama in codice». Come infatti nota acutamente Mario Praz, «mentre i neoclassici suffragavano la propria ispirazione con passi di poeti antichi, latini di solito, è notevole che Gray inizi il suo poemetto crepuscolare con una reminiscenza di alcuni dei più struggenti versi di Dante (squilla [...] che paia il giorno pianger che si more ), e lo chiuda citando la paventosa speme di quell'antenato dei romantici che è il Petrarca: a poeti medievali e cristiani, non più a poeti classici si volge Gray nella sua ricerca di anime sorelle» ⁸ .

    La riscoperta di un'antichità «non classica» e il sorgere di una poesia «della provocazione e dell'ispirazione divina» sono quindi due delle radici della narrativa gotica; la terza, altrettanto importante, è lo sviluppo della teoria del «sublime», enunciata da Edmund Burke nel suo A philosophical Enquiry into the Origin of our Ideas of the Sublime and Beautiful (1756), una delle pietre miliari dell'estetica romantica inglese. Il sublime «agì da catalizzatore nel processo di disgregazione della teoria neoclassica, attirando a sé le emozioni più forti e gli aspetti più irrazionali dell'arte che quella teoria metteva al bando» ⁹ . Il punto di partenza fu il trattato Del Sublime (Tleoì vtyovq), attribuito, probabilmente a torto, a un filosofo greco del in secolo, Longino. Nel libretto pseudo-longiniano il sublime veniva inteso come forma retorica e di persuasione oratoria, atta non a convincere, ma a «incantare»: si lodavano l'imperfezione e l'irregolarità del genio, contrastandole con la mediocrità che approda alla piatta correttezza uniformandosi supinamente alle norme. Era stato Nicolas Boileau a riportarlo in voga qualche decennio prima, servendosene nella «querelle des anciens et des modernes», ma conferendogli una portata che andava molto al di là delle intenzioni dell'autore, parlando non più di una forma di retorica, ma di una forma di pensiero che «enlève, ravit, transporte». Partendo da Boileau, Burke pretende di ricercare l'origine del sublime analizzando ciò che avviene in se stesso, dando così «una base pseudo-scientifica all'irrazionalità del sublime», rivelando per primo «un tipo di sublime destinato ad aver gran voga, il sublime del terrore» ¹⁰. Come veniva tradotto nell'edizione italiana del 1804: «Qualunque cosa è atta a suscitare in qualche maniera l'idea della pena, o del perìcolo, cioè qualunque cosa è in qualche modo terribile, o versa sopra terrìbili obbietti, ovvero opera in maniera analoga al terrore, è sorgente del sublime, vale a dire produttrice del più forte commovimento che l'animo può sentire» ¹¹ . Il sublime diviene insomma una categorìa «atta a contestare tutti quegli aspetti dell'arte che non quadravano con le regole neoclassiche» ¹² : Shakespeare e Milton, Ossian e Michelangelo vengono messi in un solo mazzo, se ne ricerca il «fuoco elementare», approdando spesso (come negli stravaganti, improbabili dipinti di Fùssli) a una teatralità di maniera. Sulla scia di Burke, per non citare che qualche esempio dei più notevoli, Richard Hurt identificherà «the more sublime and creative poetry» con il meraviglioso «gotico»; John e Anna Laetitia Aikin scrìveranno il saggio On the Pleasures Derived from Objects of Terror (1773); Nathan Drake, in Literary Hours (1798), enuncerà una vera e propria poetica del «tale of terror»; per non parlare dell'anonimo autore dell' Enquiry Concerning the Principles of Taste, che nel 1785 così definirà il sublime: «the pinnacle of beatitude, bordering upon horror, deformity, madness; an eminence from whence the mind that dares to look further is lost» ¹³ .

    Nel 1739, durante il cosiddetto «grand tour» in Europa, il giovane Horace Walpole scriveva all'amico Richard West: «Precipizi, montagne, torrenti, lupi, valanghe, Salvator Rosa. [...] Eccoci solitari signori di prospettive magnifiche e desolate» ¹⁴ . Walpole si rivela quindi «tra i primissimi annunciatori della sensibilità romantica» ¹⁵ ; è ancora lui che nel 1762 rimette in onore lo stile gotico nei suoi Anecdotes of Painting, ed è a lui, infine, in questa «epoca di solido mogano e argento pesante» ¹⁶ , che si deve quello che è unanimously considerato il capostipite del romanzo gotico, ovvero il primo racconto fantastico della letteratura inglese moderna, The Castle of Otranto, in cui «si trovano riuniti per la prima volta tutti quei procedimenti, temi, personaggi che, attraverso una catena d'influssi ormai perfettamente documentata, si combineranno per almeno due generazioni in decine di romanzi» ¹⁷ , con visibili debiti, tra l'altro, verso la letteratura sentimentale inaugurata da Richardson con Pamela e Clarissa, nonché curiose quanto inquietanti analogie con i romanzi del Marchese de Sade.

    La prima edizione del romanzo, in cinquecento copie, compare il 24 dicembre 1764 (ma il frontespizio reca la data 1765) presso l'editore londinese Thomas Lownds di Fleet Street, senza il nome dell'autore: The Castle of Otranto, a story. Translated by William Marshal, Gent. from the Originai Italian of Onuphrio Muralto, Canon of the Church of St Nicholas at Otranto. Un'antica cronaca, dunque? Nella prefazione, infatti, il supposto traduttore non esita a informare con una certa dovizia di particolari i lettori: «The following work was found in the library of an ancient catholic family in the north of England. It was printed at Naples, in the black letter, in the year 1529...» ¹⁸ . Insomma, «perfino uno scettico dilettante come Horace Walpole fiuta la nuova temperie» ¹⁹ e immagina un fittizio originale per rendere più solido lo scenario su cui proiettare i suoi rèves d'échafauds. Osserva Walter Scott, introducendo nel 1811 l'edizione Ballantyne del romanzo, che «Walpole, incerto su come sarebbe stata accolta un'opera tanto nuova nella sua impostazione, e non volendo forse cadere nel ridicolo se avesse sbagliato, mandò nel mondo il suo Castle of Otranto come una traduzione dall'italiano, e non sembra che per allora l'autenticità del racconto fosse sospetta» ²⁰ . Un escamotage, dunque? O una sofisticata civetteria?... Certo è che pochi mesi dopo, indubbiamente incoraggiato dal successo ottenuto, Walpole pubblica una seconda edizione del libro - dove il sottotitolo «a story» viene significativamente mutato in «a gothic story» - con l'aggiunta di un'epigrafe, di una nuova prefazione e di un sonetto dedicatorio all'amica Lady Mary Coke, firmato in calce con le iniziali «H. W.» che lo fanno subito identificare come l'autore del romanzo. Ed è in questa occasione che lo scrittore, oltre a riconoscere, in pratica, la paternità dell'opera, spiega il suo progetto letterario: «Si è trattato di un tentativo di fondere i due generi del romanzo, quello antico e quello moderno. Nel primo ogni cosa era governata dall'immaginazione e dall'inverosimiglianza: nel secondo l'intento, che a volte si trova ben realizzato, è sempre di imitare la natura. Non vi manca l'invenzione, ma le grandi risorse della fantasia sono state chiuse entro gli argini di una rigorosa aderenza alla vita comune. Ma se in quest'ultima specie la natura ha paralizzato l'immaginazione, non si è trattato che di una rivincita, poiché essa era stata totalmente esclusa dai vecchi romanzi. Le azioni, i sentimenti, le conversazioni degli eroi e delle eroine dei giorni che furono ci appaiono tanto innaturali quanto le concatenazioni che li mettevano in moto» ²¹ . Vede giusto, dunque, David Punter, (che, tra l'altro, non manca, a ragione, di segnalare il romanzo The Adventures of Ferdinand Count Fathom, 1753, di Tobias Smollet come modello fondamentale per certi «atteggiamenti atroci» dei personaggi del «tale of terror» assenti nel libro di Walpole) ²² quando afferma che The Castle of Otranto è soprattutto «la prima e più importante manifestazione del revival del romance sul finire del Settecento, cioè di quelle più antiche tradizioni di letteratura in prosa che erano state apparentemente soppiantate dall'avvento del romanzo» ²³ . Tra paesaggi notturni e cieli tempestosi, in «un arsenale di elmi magici, quadri parlanti, giganti spettrali» ²⁴ , su sfondi di stregata misteriosità degni del pennello di Salvator Rosa o del «sublime sogno del Piranesi» ²⁵ , i personaggi di Walpole si dibattono tra surreale e quotidiano, tra irrazionale e raisonnable nei cinque capitoli (o per meglio dire, «atti») del romanzo senza però convincere sempre fino in fondo, in un incubo che spesso rischia di essere solo bizzarria, ostentando una gestualità concitata un po'troppo da palcoscenico, in un linguaggio ricco di arcaismi ed echi elisabettiani a volte più «preziosi» che pertinenti. Si tenta - non senza stridori - di fondere il Medioevo con Shakespeare e Richardson, ma la terribile visione iniziale dell'enorme, luttuoso elmo ornato di nere piume frementi a poco a poco sfuma e si stempera in un 'atmosfera aerea di fiaba. Come nota con una punta di malizia Mario Praz, The Castle of Otranto finisce per somigliare a Strawberry Hill, la casa di campagna che lo scrittore volle trasformare a suo capriccio in una sorta di piccolo castello irto di torri merlate e padiglioni, zeppo di armature, umboni, spade e lance da giostra: «è soltanto rococò camuffato da gotico. Ci si sarebbe spinti ben oltre, nell'arte di evocare il terrore, al tempo di Mrs Shelley: terrore che, in Frankenstein, diverrà un vero senso d'ossessione» ²⁶ .

    Sebbene The Castle of Otranto abbia indubbiamente inaugurato un genere, dovranno passare altri tredici anni prima di veder apparire un successore, ovvero The Champion of Virtue di Clara Reeve ²⁷ , nel 1777 (ripubblicato l'anno seguente con il titolo The Old English Barone romanzo «ricco di contenuti psicologici ma non all'altezza dì Walpole per quanto riguarda la forza della suggestione ²⁸ , al quale vanno affiancati, nella ricca corrente della letteratura gotica femminile, i libri di Sophia Lee ²⁹ (The Recess, in tre volumi, pubblicato tra il 1783 e il 1785) e di Charlotte Smith ³⁰ (Emmeline, the Orphan of the Castle, del 1788; Ethelinde; or, The Recluse of the Lake, del 1789). Il 1786 è l'anno del Vathek di William Beckford - scritto in francese, nella tradizione del conte philosophique -, assai ammirato da Byron e dalla Radcliffe, che però si discosta alquanto dal filone centrale del romanzo gotico per la sua ambientazione orientale (Le Mille e una notte vengono tradotte in Francia e in Inghilterra all'inizio del Settecento) e che indubbiamente deve molto anche al Rasselas, Prince of Abyssinia (1759) di Samuel Johnson. Nel 1796 il ventunenne Matthew Gregory Lewis pubblica The Monk romanzo «sacrilego» e «inconcepibile» il cui immediato successo fu pari soltanto allo scandalo sollevato: basti dire che circa una decina di mesi dopo la sua pubblicazione, una società per la soppressione del vizio chiese al Procuratore Generale di promuovere un'ingiunzione che ne limitasse la vendita. Osserva Malcom Skey: «Il libro di Lewis è così esplicito nelle sue descrizioni di atroci torture e di crudeltà inaudite, [...] così consapevole nell'analisi della sessualità repressa del protagonista, il monaco Ambrosio, abate del convento dei cappuccini a Madrid, che ricorda allo stesso tempo le tragedie degli elisabettiani Webster e Tourneur, e le opere del suo quasi contemporaneo il Marchese de Sade» ³¹ . Bisogna dire a questo punto che Lewis conosceva per certo l'opera di Sade, e che anzi nel 1792 aveva probabilmente acquistato una copia di Justine. Giudicare la portata di una tale influenza è assai difficile, ma lo stesso Sade dimostra di avere una chiara visione dei legami tra la sua opera e quella dello scrittore inglese, traendone le debite conclusioni nel suo Une Idée sur les romans, dove afferma di ritenere The Monk «superiore'sotto tutti i punti di vista alle esotiche esplosioni della brillante fantasia della Radcliffe» ³² . Senza dubbio, «sembra esservi una precisa vena di sadismo nei rapporti che Lewis ha con i suoi personaggi e i suoi lettori» ³³ e sebbene questa tendenza in seno al «gotico» fosse già presente in precedenza (come nel già citato Fathom di Smollet), «non è soltanto il contenuto di The Monk a fame un libro che turba e ad aver quasi continuamente messo in moto la censura sin da quando fu scritto: è anche la snervante mescolanza di insufficienza e di violenta reazione nel lettore che Lewis è intenzionato a ottenere, nonché la sensazione che lo stesso lettore ha di essere lui l'oggetto principale della feroce animosità dell'autore» ³⁴ , sentendosi chiamato direttamente in causa, «improvvisamente trasformato in partecipante creativo» ³⁵ .

    Un anno dopo, nel 1797, veniva stampato The Italian; or, The Confessional of the Black Penitents, l'opera più prestigiosa - e più pagata: ottocento sterline, una cifra da capogiro per quei tempi - di Ann Radcliffe, la quale aveva già al suo attivo alcuni romanzi di notevole successo, come The Castles of Athlin and Dumbayne (1789), A Sicilian Romance (1790), The Romance of the Forest (1791) e soprattutto The Mysteries of Udolpho (1794). The Italian (scritto, pare, quasi come una polemica risposta al romanzo di Lewis, pur mantenendone il procedimento antirealistico di «una costruzione essenzialmente gotica di un mondo di narrazioni che si convalidano a vicenda e sono strutturalmente più reali della stessa realtà» ³⁶ , è un libro assai sofisticato e consapevole, di attenta indagine psicologica, dove tutto converge in modo stringente verso una complessa trama centrale di cui l'autrice riesce a tenere saldamente le fila, dimostrando di conoscere bene, oltre agli elisabettiani - nel perfido Schedoni si ritrovano tutti i connotati del villain machiavellico di Shakespeare, Marlowe, Webster - anche la letteratura francese e quella tedesca (Baculard d'Arnaud, Naubert, Grosse e soprattutto Schiller, dal cui Geisterseher era già stata influenzata in Udolpho). Figure fluttuanti nell'oscurità, sconosciuti strumenti di tortura, notturne voci misteriose, il tutto viene reso con un tocco quasi impressionistico: «la Radcliffe replica alla vistosità di Lewis e dei primi scrittori gotici con una dimostrazione virtuosistica del potere immaginifico delle cose intraviste e solo in parte spiegate, come a voler dimostrare che ci sono tipi di vividezza dipendenti meno da una concreta descrizione da parte dell'autore che dall'aver fatto scattare la molla della fantasia del lettore» ³⁷ . Romanzo tutt'altro che di evasione o «popolare» (questo termine, spesso applicato alla narrativa gotica, per una serie di motivi sociali ed economici non va affatto inteso così come noi lo intendiamo al giorno d'oggi: lo stile della Radcliffe, ad esempio, irto di allusioni classiche e shakespeariane, non è e non vuole essere - come già quello di Walpole, del resto - neppure alla lontana uno stile popolare); romanzo tutt'altro che «frìvolo», dunque, ma anzi, «felice intuizione di un 'arte sottile» ³⁸ , The Italian esige un lettore perspicace e preparato. In esso la Radcliffe, confondendo consapevolmente il confine tra realtà e fantasia, comincia a costruire, sulla base di un suggerimento di Sophia Lee, «un tipo di narrativa in cui si debba diffidare dello stesso narratore e perciò comporre il nostro testo personale dagli accenni, dalle conversazioni e dai documenti messi un po' alla volta a nostra disposizione» ³⁹ . Un notevole processo di raffinamento, dunque, dove il «gotico» non è più un'evasione dal reale, ma la sua decostruzione e il suo smembramento: «laddove Udolpho accettava molte delle convenzioni della narrativa precedente e The Monk si sforzava di capovolgerle direttamente grazie al semplice ribaltamento del comunicabile e del permissibile accettato in precedenza, The Italian è già andato molto incontro alle sconvolgenti circonvoluzioni di fantasia e narrativa che daranno frutti nelle straordinarie complessità di Melmoth the Wanderer di Maturìn» ⁴⁰ .

    Nel 1818, lo stesso anno in cui esce, postumo, Northanger Abbey di Jane Austen, divertita parodia dei romanzi della Radcliffe e dei suoi epigoni⁴¹, un 'altra donna, la ventiduenne Mary Shelley, usa l'elemento gotico come una sorta di scenario per il suo Frankenstein; or, The Modem Prometheus, opera la cui popolarità e il cui influsso sono stati - e restano tuttora - enormi⁴²-. L'idea di Frankenstein (che non tutti considerano un romanzo gotico, ma che di certo è anche un romanzo gotico) aveva cominciato a prendere corpo circa due anni prima, in una ormai famosissima sera di giugno del 1816 a villa Diodati, a Ginevra, quando i componenti di una singolare comitiva - George Gordon Byron, il suo amico nonché medico personale John William Polidori, Percy Bysshe Shelley e la stessa Mary, sua futura seconda moglie - decisero, a causa del maltempo che li costringeva a restarsene chiusi in casa, di scrivere, per svagarsi, ciascuno un racconto dell'orrore. Polidori e la giovane Mary furono i soli a tenere davvero fede all'impegno (Shelley ⁴³, che nel 1810 e nel 1811 aveva pubblicato due brevi romanzi «gotici», Zastrozzi e St. Irvyne, partorì un'opera decisamente minore, The Assassins; Byron una storia alla quale pensava da tempo, The Burial, elaborandone però solo poche pagine): il primo creando, nel suo racconto The Vampire, Il personaggio di Lord Ruthwen, ambiguo prototipo di ogni futuro vampiro⁴⁴ , la seconda dando vita, appunto, a Frankenstein, dove attinge al mito di Prometeo (dichiarandolo senza mezzi termini fin dal sottotitolo) e a quello di Faust, passando attraverso il Paradise Lost di Milton e servendosi del galvanismo e delle teorie sulla vita di Erasmus Darwin, nonché dell'anarchismo filosofico di William Godwin, suo padre (autore, tra l'altro, di alcuni romanzi come Caleb Williams (1794), St. Leon (1799), Mandeville (1817) che sia pure a livello «metafisico» o «interiore» rientrano senza meno nella categorìa del «gotico» ⁴⁵. Mary ebbe l'intuizione della vicenda di Frankenstein attraverso un incubo notturno -ed è curioso notare che anche The Castle of Otranto era nato da un sogno, come da un sogno nasceranno The Strange Case of Dr Jekyll and Mr Hyde e Dracula -: «Vidi l'orrìbile fantasma di un uomo disteso dare qualche segno di vita, per merito di un potente meccanismo: lo vidi agitarsi, ancora informe ma già quasi umano. Era qualcosa di spaventoso, perché spaventosa deve essere la conseguenza di ogni tentativo dell'uomo di sostituirsi al Supremo Creatore» ⁴⁶. In effetti, ha ragione David Punter quando osserva come il principale motivo di rifiuto del barone Frankenstein nei confronti della propria creatura «non sia altro che il disappunto estetico» ⁴⁷. Tabula rasa al momento della «nascita» - e dunque, proprio secondo le teorie di Godwin che Mary sottoscrive in pieno, perfettibile - la «creatura» (che, non a caso, è priva di un nome, ma a questo rimedierà il pubblico, battezzandolo, con ammirevole intuito, come il suo creatore) viene senza troppa coerenza chiamata sbrigativamente «mostro» solo in base alla sua apparenza fisica, guadagnandosi subito, senza altro motivo, l'odio del barone Frankenstein e del lettore. Vi è nel romanzo della Shelley «un'intensa paura del brutto, dell'imprevedibile, del dirompente» ⁴⁸ che affiora senza troppo controllo in ogni pagina: il mostro è diverso, e in quanto tale va punito, perché può provocare solo panico e sgomento, seminando distruzione e morte. A lui non sono consentiti né gioia né amore: l'unico sentimento che può conoscere è l'odio, odio verso il mondo che non può amarlo e verso chi lo ha generato a una tale sofferenza. Per questo «come le Furie inseguono tutta la vita un colpevole [...], come l'omuncolo di Paracelso che ministro di una giustizia immanente è forse destinato a perseguitare senza scampo l'imprudente genitore, così la creatura di Frankenstein non dà tregua -fino alla morte - al suo creatore. Morto il creatore, muore anche la creatura, sua parte e sua proiezione. Frankenstein, fabbricando il suo mostro, fa il primo passo verso Hyde» ⁴⁹.

    Devendra P. Varma, nel suo studio The Gothic Flame dichiara: «A giudicare dal numero delle recensioni, il 1794 sembra aver segnato il culmine della parabola narrativa gotica» ⁵⁰. Certo è che il numero dei romanzi gotici pubblicati nel trentennio che va dal 1790 al 1820 è davvero enorme: «gli scrittori popolari del genere sembrano essere diventati sempre più capaci di fornire un prodotto convenzionale nel giro di qualche settimana, e il definitivo declino nella popolarità del gotico è, almeno in parte, da imputare a un'inondazione del mercato» ⁵¹. La narrativa minore del periodo non fa che riproporre, spesso stancamente, situazioni e temi ampiamente collaudati (il patto con il diavolo, il castello infestato, i riti demoniaci nei conventi etc.) al solo scopo di catturare una categoria di lettori ormai dal palato non troppo esigente: Castle of Wolfenbach (1793) di Eliza Parson ⁵², The Children of the Abbey (1796) di Regina Maria Roche ⁵³, The Orphan of the Rhyne (1798) di Eleanor Sleath, The Midnight Bell⁵⁴ (1798), Astonishment!!! (1802), The Mysterious Freeboter (1806) del prolifico e popolare Francis Lathom ⁵⁵, The Monk of Udolpho (1807) di T.J. Horsley Curties ⁵⁶, Barozzi (1815) di Catherine Smith ⁵⁷, e ancora, la produzione, spesso abbondantissima, di scrittori come Charlotte Dacre ⁵⁸ («Rosa Matilda»), William Henry Ireland ⁵⁹, Julia Anne Curtis («Anne of Swansea») ⁶⁰, Mary Meeke («Gabrìelli») ⁶¹, Mary Anne Radcliffe (i cui romanzi sono spesso firmati semplicemente «Mrs Radcliffe», giocando sulla quasi omonimia con la celebre scrittrice) ⁶², Isabella Kelly ⁶³... Comunque, al punto massimo del boom comincia a manifestarsi una reazione di rifiuto: The Criticai Review nel 1795, a proposito di The Castle of Ollada di Francis Lathom, scrive: «Ancora un castello infestato dai fantasmi! Ormai anche le signorine dovrebbero essersi stancate di tutti questi spettri e assassini»; e in un 'altra recensione (al romanzo The Haunted Cavern di John Palmer): «Occorre dire che ormai i castelli gotici, le torri cadenti, i bastioni avvolti nelle nubi hanno fatto il loro tempo. Questa storia di fantasmi ululanti e di crimini di sangue è stata ripetuta fino alla nausea» ⁶⁴. Nel momento stesso in cui il «gotico» si inflaziona scadendo nel facile mestiere, giunge però anche al massimo del raffinamento con il romanzo Melmoth the Wanderer di Charles Robert Maturìn, «che per la sua sottigliezza di penetrazione nei terrori dell'anima già annunzia Poe» ⁶⁵. Solenne, vertiginoso, demoniaco, ferocemente anticlericale, Maturin (che, paradossalmente, era un ecclesiastico) possiede, come giustamente afferma Varma, «una visione più profonda, più chiara e più organizzata dei suoi predecessori del ruolo del male nel mondo» ⁶⁶. Melmoth è un testo che potremmo definire paranoico, in cui la malvagità diviene la sua stessa giustificazione: il mondo non sarà affatto purificato dalla morte di Melmoth come lo è da quella dell'Ambrosio di Lewis o dello Schedoni della Radcliffe, poiché egli «non è a capo del male, ma un rappresentante del male perenne degli altri» ⁶⁷, e l'enorme macchina persecutoria continuerà spietatamente a funzionare indisturbata anche senza dì lui. Come scrisse il Blackwood's Edinburgh Magazine, Maturin possiede «un genio tanto fervidamente poderoso quanto distintamente originale», e «procede quasi senza rivali, sia tra i morti che i viventi, in molte delle più oscure, ma al tempo stesso più maestose, sfere del romance» ⁶⁸. Libro di vastissima influenza, Melmoth fu molto amato e ammirato da scrittori come Scott, Poe, Stevenson, Baudelaire e Balzac, che nei suoi Études philosophiques scrisse il racconto Melmoth réconcilié ⁶⁹; ma oggi il libro può apparire una sorta di testo enciclopedico sulle ossessioni di un 'epoca, troppo prolisso e stracolmo per ricevere tutta l'attenzione che merita. Vera e propria summa di un genere, il romanzo di Maturin sembra quasi il segno di un congedo; il «gotico», dimostrando notevoli capacità di rinnovamento, si spanderà in varie direzioni, e moltissimi, in varia misura, dovranno saldare più di un debito nei suoi confronti: da Walter Scott a Bulwer-Lytton, da G.P.R. James a William Harrison Ainsworth a G.W.M. Reynolds; da Charles Dickens a Wilkie Collins (che lo «democratizzeranno», addomesticandolo, per così dire, con tocchi di humour e sveltendo il ritmo della narrazione, adeguandolo al gusto dell'ormai più vasta classe di lettori) alle sorelle Brontè (si pensi al signor Rochester di Jane Eyre o all'Heathclijf di Wuthering Heightsj ⁷⁰; da Poe agli altri americani come Henry James, Hawthorne, Mary Wilkins Freeman, Edith Wharton; da Joseph Sheridan Le Fanu (il cui Uncle Silas, del 1864, è stato definito «il primo capolavoro inglese propriamente gotico dai tempi di Melmoth the Wanderer») ⁷¹, ad Arthur Conan Doyle e Montague Rhodes James; fino al Dracula di Bram Stoker, tardivo «ultimo romanzo gotico» o, forse, «ponte tra l'orripilante romantico e il thrilling moderno» ⁷².

    RICCARDO REIM

    ¹D. Punter, The Literature of Terror. A History of Gothic Fictions from 1765 to the Present Day, Longman, Londra 1980 (trad. it. Storia della letteratura del terrore. Il «gotico» dal Settecento ad oggi, a cura di Ottavio Fatica, Editori Riuniti, Roma 1980).

    ²Vedi nota 1.

    ³ Vanno messe nel conto anche le scarse cognizioni di storia sulle invasioni barbariche (nonché sul Medioevo in genere) del Settecento. Per «medievale» si intendevano tutte quelle cose antecedenti a circa la metà del xvil secolo.

    ⁴ Non bisogna dimenticare che «pittoresco», all'origine, significa «di - o da - pittore», poi «degno di essere ritratto da un pittore». Grande cultore del pittoresco fu il reverendo William Gilpin, il quale pubblicò, a partire dal 1782, numerosi volumi di Observations, frutto dei suoi pellegrinaggi soprattutto nella Scozia e nel Galles.

    ⁵Vedi nota 1.

    ⁶M. Praz, La letteratura inglese, voi. i, Dal Medioevo all'Illuminismo, nuova edizione aggior nata, Sansoni/Accademia, Firenze-Milano 1967.

    ⁷Vedi a questo proposito D. Punter, Storia della letteratura del terrore, cit.; vedi anche Pat Rogers, The Oxford Illustrated History of English Literature, O.U.P. 1987 (trad. it. Storia della letteratura inglese, a cura di Paola Faini, Lucarini 1990).

    ⁸ Vedi nota 6.

    ⁹ M. Praz, La letteratura inglese, voi. n, Dai Romantici al Novecento, nuova edizione aggiornata, Sansoni/Accademia, Firenze-Milano 1967.

    ¹⁰Per questa e per la citazione precedente vedi nota 6.

    ¹¹ La citazione è ripresa dal libro, prezioso, di Malcom Skey Il romanzo gotico. Guida alla lettura e bibliografia ragionata, Theoria, Roma 1984.

    ¹² Vedi nota 9.

    ¹³ Come riporta Mario Praz: «Il pinnacolo della beatitudine, confinante con l'orrore, la deformità, la follia: un fastigio che fa smarrir la mente che osa guardar oltre». M. Praz, La letteratura inglese vol. II, Dai Romantici al Novecento, op. cit.

    ¹⁴ La lettera è in data 28 settembre.

    ¹⁵Andrea Cane, «Introduzione» a H. Walpole, Il castello di Otranto, trad. di Linda Gaia Romano, Theoria, Roma 1985; poi anche Bompiani, Milano 1990.

    ¹⁶ Vedi nota 6.

    ¹⁷ Vedi nota 15.

    ¹⁸ H. Walpole, «Preface» in The Castle of Otranto, cit. La traduzione è di Mario Prayer, Newton Compton, Roma 1992.

    ¹⁹ Vedi nota 9.

    ²⁰H. Walpole, The Castle of Otranto. A Gothic Story, Ballantyne, Edimburgo 1911. L'introdu zione di Walter Scott è riportata nell'edizione italiana curata da Francesco Valeri (Sugar, Milano 1968; poi Longanesi, Milano 1974).

    ²¹ H. Walpole, «Preface to the Second Edition», in The Castle of Otranto, cit.

    ²² Vedi a questo proposito D. Punter, Storia della letteratura del terrore, cit.

    ²³ Vedi nota 1.

    ²⁴Vedi nota 1.

    ²⁵ La frase è dello stesso Walpole, il quale ebbe parole di vero entusiasmo per l'opera dell'incisore italiano nel IV volume dei suoi Anecdotes ofPainting in England (1771). Nota Mario Praz: «È nella sproporzione tra le possenti costruzioni dedalee del Piranesi e le figurette d'uo mini ai loro piedi, che va ravvisato il germe dell'idea dominante nel Castello di Otranto [...] Un trofeo sormontato da un monumentale elmo piumato appare sia nelle Opere varie, in una scena di poderose arcate e scalinate, sia in una scena delle Carceri; e in una l'elmo pencola minacciosamente sugli uomini sottostanti, rimpiccioliti alle dimensioni di formiche». (M. Praz, Three Gothìc Novels, Penguin, Harmondsworth 1968; ora anche in H. Walpole, Il castello di Otranto [Una nota al romanzo], Bompiani, Milano 1990.)

    ²⁶ M. Praz, Una nota al romanzo, ora in H. Walpole, Il Castello di Otranto, cit.

    ²⁷ Clara Reeve (1729-1807). Di The Old English Baron esiste un'edizione critica a cura di James Trainer nella collana «Oxford English Novels», O.U.P. 1967; poi negli «Oxford paper- backs», ivi 1977. The Old English Baron è stato tradotto in italiano da Sergio Marconi (Il vecchio barone inglese, Theoria, Roma 1985).

    ²⁸ Giorgio Spina, «Prefazione» a Ann Radcliffe, Il confessionale dei penitenti neri (L'Italiano), Sugar, Milano 1967.

    ²⁹ Sophia Lee (1750-1824). The Recess è stato ristampato anastaticamente, con una prefa zione di J.M.S. Tompkins e un'introduzione di Devendra P. Varma, Arno Press, New York 1972.

    ³⁰ Charlotte Smith (nata Turner, 1749-1806). Di Emmeline, the Orphan of the Castle, esiste un'edizione critica a cura di Anne Henry Ehrenpreis negli «Oxford English Novels», O.U.P. 1971.

    ³¹ Malcom Skey, «Introduzione» a Jane Austen, L'abbazia di Northanger, trad. di Linda Gaia Romano, Theoria, Roma 1982.

    ³² Vedi a questo proposito D. Punter, Storia della letteratura del terrore, cit.; vedi anche M. Praz, Il patto col serpente, Mondadori, Milano 1972.

    ³³ Vedi nota 1.

    ³⁴ Vedi nota 1.

    ³⁵ Vedi nota 1.

    ³⁶ Vedi nota 1.

    ³⁷Vedi nota 1. Vedi anche, a proposito della tecnica narrativa della Radcliffe, l'interessante introduzione di Frederick Garber a Ann Radcliffe, L'Italiano ovvero il confessionale dei penitenti neri, trad. di Giorgio Spina, Theoria, Roma 1990.

    ³⁸ Vedi nota 28.

    ³⁹ Vedi nota 1.

    ⁴⁰Vedi nota 1. Aggiunge ancora Punter: «I romanzi di visione e di ossessione di Lewis e della Radcliffe tendono necessariamente verso certi nuovi tipi di ruoli per il lettore, in quanto i rapporti fra lettore, narratore e personaggio differiscono a seconda di quanto siano in gioco aspetti pubblici o privati del personaggio. Quando un narratore descrive il volto di un perso naggio, normalmente noi accettiamo senza obiezioni la descrizione; quando ci descrive i processi mentali e le reazioni emotive di un personaggio noi li confrontiamo con quanto ci è stato detto dalla realtà esterna e su questa base formuliamo un giudizio; ma quando il narratore ci indica che la presa che il personaggio ha sulla realtà è nel caso migliore vacillante e nel caso peggiore illusoria, siamo costretti a un diverso tipo di reazione, e il nostro ruolo interpretativo si fa più grande e anche più ambiguo. [...] The Italian trapassa vertiginosamente dalla distorsione alla realtà, facendoci attribuire valori e posizioni differenti a elementi differenti della storia e chie dendoci di distinguere i vari sottotesti che la Radcliffe ha saldato assieme. Da collaboratore famigliare e vittima semiconsenziente, il lettore si è improvvisamente trasformato in parteci pante creativo».

    ⁴¹ Il romanzo della Austen, scritto negli anni 1798-1799 (prima con il titolo Susan, poi Cathe rine) venne pubblicato una ventina di anni dopo, quando l'autrice era morta da sei mesi. Tra gli altri autori che hanno scritto parodie del romanzo gotico, va innanzitutto ricordato Thomas Love Peacock (Nightmare Abbey, 1818), e poi Edward Dubois, Sarah Green, Eaton Stannard Barret e l'autore del Vathek, William Beckford, con due singolari romanzi: Modem Novel Writing; or, The Elegant Enthusiast; and interesting emotions ofArabella Bloomville; a rhapsodical romance, interspersed with poetry. By the Right Hon. Lady Harriet Marlow ( 1796) e Azemia: a descriptive and sentimental novel, interspersed with pieces ofpoetry. By Jacquetta Agneta Mariana Jenks, ofBellgrove Priory in Wales. Dedicated to the Right Honorable Lady Harriet Marlow. To which are added, criticisms anticipated (1797).

    ⁴² Frankenstein deve gran parte della sua popolarità presso il pubblico di oggi anche alle numerose versioni cinematografiche. Ricordiamo qui, a titolo di curiosità, i dati dei primi due, storici film: Frankenstein di Searle Dawley, dall'Edison Kinetogram, U.S.A. (1910); Frankenstein di James Whale, Universal, U.S.A. (1931), operatore Arthur Edeson; soggetto di John Balder- stone e Robert Ploray; sceneggiatura di Garret Ford e Francis E. Faraogh; con: Colin Clive nel ruolo del barone Harbert von Frankenstein e Boris Karloff nel ruolo del Mostro, truccato da Jack Pierce.

    ⁴³ Shelley aveva una vera predilezione per i romanzi di Charles Brockden Brown (1771-1810), il capostipite del romanzo gotico americano, i cui libri conobbero un grande successo anche in Inghilterra, e che, curiosamente, fu molto influenzato da William Godwin, padre di Mary.

    ⁴⁴ Il racconto di Polidori venne pubblicato nel 1819.

    ⁴⁵ William Godwin (1756-1836). Pur non essendo uno «scrittore gotico», Godwin è autore di due romanzi che, come nota Malcom Skey (Il romanzo gotico, cit.) «sono pieni - e anche consapevolmente pieni - di situazioni e di elementi tipicamente gotici»: St. Leon: a Tale of the Sixteenth Century (1799) e Mandeville; a Tale of the Seventeenth Century in England (1817). St. Leon è stato ristampato anastaticamente con una prefazione di Devendra P. Varma e un'introduzione di Juliet Beckett, Arno Press, New York 1972.

    ⁴⁶ La citazione è tratta dal volume Frankenstein & Company, a cura di Ornella Volta, Sugar, Milano 1965.

    ⁴⁷ Vedi nota 1.

    ⁴⁸ Vedi nota 1.

    ⁴⁹ O. Volta, nota introduttiva a M. Shelley, Frankenstein, in Frankenstein & Company, cit.

    ⁵⁰ Devendra P. Varma, The Gothic Flame. Being a History of the Gothic Novel in England: its Origins, Efflorescence, Disintegration, and Residuary Influences, Arthur Barker, Londra 1957; nuova ed. Russell & Russel, New York 1966.

    ⁵¹Vedi nota 1.

    ⁵² Eliza Parson (7-1811). Autrice di una sessantina di romanzi gotici e paragotici. Skey (Il romanzo gotico, cit.) ne segnala soprattutto due: The Castle of Wolfenbach, a German Story (1793) e The Mysterious Warning, a German Tale (1796). Castle of Wolfenbach è uno dei sette «Northanger Novels» ovvero i sette romanzi del terrore che Isabella Thorpe raccomanda calorosamente all'amica Catherine Morland nel cap. vi di Northanger Abbey, per molti anni creduti di invenzione della Austen. Michael Sadleir dimostrò invece nel 1927 che i titoli citati dalla scrittrice corrispon devano ad altrettanti romanzi in voga in quel periodo, i quali vennero ripubblicati in cofanetto nel 1968, a cura di Devendra P. Varma.

    ⁵³ Regina Maria Roche (nata Dalton, 17647-1845). Di lei va ricordato almeno un altro romanzo appartenente al filone del «gotico»: The Nocturnal Visit, a Tale (4 voll., William Lane, Minerva Press, Londra 1800), ora ristampato anastaticamente con una prefazione di Robert D. Mayo e un'introduzione di F. G. Atkinson, Arno Press, New York 1977.

    ⁵⁴ Eleanor Sleath (?-?). Di lei non si sa praticamente nulla. Skey (Il romanzo gotico, cit.) segnala questi altri titoli: Who's the Murderer; or, The Mystery of the Forest (1802); The Nocturnal Minstrel; or, The Spirit of the Wood (1810), Pyrenean Banditti (sic) (1811).

    ⁵⁵ Francis Lathom (1777-1832) era anche un attore piuttosto noto. Oltre a un buon numero di romanzi gotici scrisse anche vari drammi di successo.

    ⁵⁶ T.J. Horsley Curtis (?-?). Non se ne sa praticamente nulla all'infuori dei titoli di alcuni romanzi, a dire il vero non troppo attraenti, fra cui: Ancient Records; or, The Abbey of St Oswythe, a Romance (1801); The Scottish Legend; or, The Isle of Clothair, a Romance (1802); St Botolph's Priory;or, The Sable Mask, an Historical Romance (1806). The Monk of Udolpho è stato ristampato anastaticamente, con una prefazione di Devendra P. Varma e un'introduzione di Mary Muriel Tarr, Arno Press, New York 1977.

    ⁵⁷ Catherine Smith (?-?). Anche di lei mancano notizie. Barozzi è stato ristampato anastatica- mente, con una introduzione di Devendra P. Varma, Arno Press, New York 1977.

    ⁵⁸ Charlotte Dacre («Rosa Matilda», 1782-1842). Di lei vanno ricordati quattro romanzi gotici che conobbero una buona accoglienza: Confessions of the Nun of St. Omer, a Romance (1805); Zoloya; or, The Moor: a Romance of the Fifteenth Century (1806, molto amato dal giovane Shelley); The Libertine (1807); The Passions (1811). Tutti e quattro sono stati ristampati dalla Arno Press a cura di Devendra P. Varma: il primo nel 1972, gli altri tre nel 1977.

    ⁵⁹ William Henry Ireland (1777-1835). È soprattutto noto per le sue falsificazioni: «fabbricò» addirittura i manoscritti di due drammi pseudo-shakespeariani, Vortigern and Rowena e Henry III, che riuscirono a ingannare parecchi filologi settecenteschi. È autore del singolare poema critico Scribbleomania (1815) che contiene un intero canto sul genere «gotico». Il suo romanzo più interessante è The Abbes, a Romance (1799).

    ⁶⁰Julia Anne Curtis («Anne of Swansea», 1764-1838), sorella della celebre attrice Sarah Siddons. In italiano è reperibile il suo lungo racconto The Knight of the Blood-Red Piume, inserito nell'antologia di racconti a cui dà il titolo: Il cavaliere dalla piuma rosso-sangue e altri racconti (trad. di Pietro Meneghelli), Lestoille, Roma 1978.

    ⁶¹ Mary Meeke («Gabrielli», 7-1816?). È autrice di oltre cinquanta romanzi, di cui il più notevole è Count St Blancard; or, The Prejudiced Judge (1795), oggi ristampate anastaticamente con una prefazione di John Garrett, Arno Press, New York 1977.

    ⁶²Mary Anne Radcliffe (?-?). Nonostante la quasi omonimia, non ha nulla a che fare con l'autrice di Udolpho e The halian. Il suo romanzo più fortunato è indubbiamente Manfroné; or, The One-handed Monk, a Romance, 4 voll., J.F. Hughes, Londra 1809, riproposto dieci anni più tardi dalla Minerva Press e oggi ristampato anastaticamente dalla Arno Press (New York 1972), con una prefazione di Devendra P. Varma e un'introduzione di Coral Ann Howells.

    ⁶³ Isabella Kelly (?-?). Fu autrice di numerosi romanzi e vari libri per ragazzi. Tra la sua produzione nel campo del romanzo gotico, va ricordato The Abbey of St Asaph, a Novel (1795), oggi ristampato anastaticamente con un'introduzione di Devendra P. Varma, Arno Press, New York 1977.

    ⁶⁴ Le due citazioni sono tratte dalla «Introduzione» a Jane Austen, L'abbazia di Northanger, op. cit., del sempre puntuale e affidabile Malcom Skey.

    ⁶⁵ Vedi nota 9.

    ⁶⁶ Vedi nota 50.

    ⁶⁷ Vedi nota 1. Vedi a questo proposito anche il saggio introduttivo di Giorgio Manganelli all'edizione italiana di Melmoth, l'uomo errante (trad. it. di Diana Buonacossa), Bompiani, Mi lano 1968; poi Edgar, Interno Giallo, Milano 1991.

    ⁶⁸ La citazione è tratta da D. Punter, Storia della letteratura del terrore, cit.

    ⁶⁹ Il racconto di Balzac è del 1835.

    ⁷⁰ Ambedue i romanzi vennero pubblicati nel 1847.

    ⁷¹ Vedi nota 1.

    ⁷²Francesco Saba Sardi, «Introduzione» a Bram Stoker, Dracula, Mondadori, Milano 1972. Vedi a questo proposito anche Riccardo Reim, «Introduzione» a Bram Stoker, Dracula a cura di Paola Faini, Newton Compton, Roma 1993.

    Horace Walpole

    IL CASTELLO DI OTRANTO

    Una storia gotica

    SONETTO

    ALLA MOLTO ONOREVOLE

    LADY MARY COKE

    La nobil dama di cui ho qui narrato

    Oscura e tormentata la vicenda,

    Signora graziosa, avrà negato

    che sul tuo viso una lacrima scenda?

    No; mai fu sordo il cuore tuo pietoso

    Dell'uman gregge a' trepidi tormenti;

    Tenero, seppur fermo, segue ansioso

    Gli spasimi che angustian l'altre genti.

    Difendi le stranezze ch'io ti affido

    'un'ambizion che il fato ha spodestato,

    Dal biasimo della ragione infido:

    Se mi sorriderai, l'audace afflato

    D'aprir a dolci fantasie confido;

    Sorridimi, e l'allor m'è assicurato.

                                              H.W.

    Nota introduttiva

    Horace Walpole nasce a Londra il 24 settembre 1717, ultimogenito di Sir Robert Walpole, primo ministro del governo whig sotto Giorgio I e Giorgio II Hannover (1721-'42). Educato a Eton (1727-'35) e al King's College di Cambridge (1735-39), compie il «grand tour» in compagnia del poeta Thomas Grayt suo collega di università e ospite, viaggiando per due anni in Francia e in Italia. È in questo periodo che Walpole inizia il suo celebre, brillante epistolario - comprendente più di tremila lettere di carattere politico, storico, artistico, letterario e mondano - al quale egli deve, con The Castle of Otranto, la sua fama di scrittore. Nel 1747 prende in affitto sulle rive del Tamigi, nel sobborgo londinese di Twinkenham, la villa di Strawberry Hill (di cui due anni più tardi diverrà proprietario), dedicandosi per circa un quarantennio a trasformarla in un piccolo castle ben presto ammirato e famoso in tutta Europa e che rimane l'esempio forse più significativo del revival gotico in architettura. La villa sarà perfino dotata, a partire dal 1757, di una tipografia privata, «The Elzevirianum», che pubblicherà, fino al 1789, gran parte della produzione dello scrittore oltre a pregevoli edizioni di classici e opere di amici, come le Odes di Thomas Gray con i disegni di R. Bentley. Nel 1791, alla morte del nipote, Walpole assume il titolo di Earl of Oxford. Muore a Londra il 2 marzo 1797, all'età di settantanove anni, e viene seppellito nella tomba di famiglia a Houghton.

    The Castle of Otranto, a Story. Translated by William Marshal, Gent. from the Original Italian of Onuphrio Muralto, Canon of the Church of St. Nicholas at Otranto, 1 vol., Thomas Lownds, London 1765.

    Il frontespizio reca la data MDCCLXV, ma il volume compare in libreria il 24 dicembre 1764, al prezzo di tre scellini. La seconda edizione viene pubblicata da William Bathoe e Thomas Lownds VII aprile 1765, e contiene alcune significative modifiche: il sottotitolo «A Story» diventa «A Gothic Story»; inoltre, vengono aggiunte un'epigrafe (un 'apparente citazione - in realtà una variazione - di alcuni versi tratti dall'Ars Poetica di Orazio), un sonetto dedicatoria all'amica Lady Mary Coke e una seconda prefazione più lunga e programmatica di quella che già corredava il volume. Nel corso del Settecento il romanzo conoscerà numerose ristampe: 1766; 1782; 1786; due edizioni nel 1791; due edizioni nel 1793; 1794; 1796; 1797, fino a quella definitiva nelle opere complete di Walpole (voi. n) nel 1798. Di gran pregio è l'edizione della prima traduzione italiana stampata a Parma da Bodoni per l'editore Edwards di Londra. Tra i moderni curatori del Castle of Otranto vanno citati: Caroline Spurgeon (Chatto & Windus, Londra 1907); Montague Summers (Constable, Londra 1924); Oswald Daughty (Scholartis Press, Londra 1929); Devendra P. Varma (The Folio Society, Londra 1976); Wilmarth Sheldon Lewis e Joseph W. Reedjr. (O. U. P. 1964, nuova ed. 1982).

    Oltre a varie opere di argomento storico e artistico-antiquario, Walpole è autore di un dramma di gusto gotico, The Mysterious Mother (1768) e di un bizzarro volumetto di racconti orientaleggianti e parzialmente gotici, Hieroglyphic Tales (7 785), stampato in soli sei esemplari.

    The Castle of Otranto è stato tradotto in italiano da Oreste del Buono (Rizzoli, Milano 1956), da Francesco Valeri (Sugar, Milano 1968; poi Longanesi, Milano 1974), da Linda Gaia Romano (Theoria, Roma 1983; poi Bompiani, Milano 1990, con una prefazione di Andrea Cane e una nota di Mario Praz), da Mario Prayer (Newton Compton, Roma 1992, con un'introduzione di Riccardo Reim). I racconti Hieroglyphic Tales (più altri due racconti non inclusi nella raccolta originale) sono stati tradotti in italiano da Giovanna Franci e Rosella Mangaroni: Racconti geroglifici (Studio Tesi, Pordenone 1986).

    R.R.

    Prefazione alla prima edizione

    L'opera qui presentata fu rinvenuta nella biblioteca di un'antica famiglia cattolica dell'Inghilterra del nord. Venne stampata a Napoli, in caratteri gotici, durante l'anno 1529. Quanto tempo prima fosse stata scritta non è accertabile. Gli episodi principali riflettono le credenze caratteristiche delle età più buie del cristianesimo, ma il linguaggio e la redazione non risentono affatto di quel gusto barbaro. Lo stile è il più puro italiano. Se scritta in epoca prossima agli eventi da essa narrati, questa novella potrebbe datare tra il 1095, anno della prima crociata, e il 1243, anno dell'ultima, o comunque non molto più tardi. Non vi sono altre circostanze nell'opera tali da permetterci di definire il periodo in cui si svolge la scena. I nomi dei personaggi sono evidentemente fittizi, e forse alterati di proposito: nondimeno i nomi spagnoli dei domestici sembrano indicare che l'opera venne composta non prima dell'insediamento a Napoli dei re d'Aragona, quando l'onomastica spagnola divenne alquanto popolare in quella regione. La squisitezza della dizione, e lo zelo dell'autore (fatto salvo comunque qualche suo singolare giudizio), mi inducono a ritenere che la data della composizione preceda di poco quella della pubblicazione. In Italia a quel tempo le lettere erano in piena fioritura, e contribuivano per parte loro ad abbattere l'impero della superstizione, all'epoca aspramente combattuto dai riformatori. Non è improbabile che un valente sacerdote abbia inteso rivoltare le nuove armi contro gli stessi innovatori, sfruttando le proprie capacità di scrittore per confermare il popolo nei suoi antichi errori e superstizioni. Se tale era il suo scopo, egli ha agito con notevole destrezza. Un'opera come questa saprebbe catturare la mente di centinaia di lettori comuni più di quanto abbiano fatto la metà dei libri di polemica scritti dagli anni di Lutero fino a oggi.

    Questa interpretazione dei fini dell'autore viene comunque offerta come semplice ipotesi. Quali che fossero i suoi intendimenti, o quali gli effetti determinati dalla loro realizzazione, l'opera in questione viene sottoposta al pubblico odierno esclusivamente a scopo d'intrattenimento. E anche come tale, si rende necessaria una sua apologia. Miracoli, visioni, magie, sogni, e altri eventi soprannaturali, sono oggi banditi persino dai romanzi. Così non era quando scrisse il nostro autore; ancor meno lo fu ai tempi in cui la storia stessa si svolge. La credenza in ogni sorta di prodigio era talmente radicata in quell'età tenebrosa, che un autore non sarebbe stato fedele alla maniera del suo tempo qualora avesse omesso di menzionarli tutti. Egli stesso non è obbligato a credervi, ma deve raffigurare i suoi personaggi mostrando che essi vi credono.

    Perdonata questa atmosfera del miracoloso, il lettore non troverà niente altro che non sia degno della sua attenzione. Ammettete la possibilità di tali eventi, e tutti i personaggi si comporteranno come ognuno farebbe al loro posto. Non v'è magniloquenza, né similitudini, infiorettature, disgressioni, o descrizioni superflue. Ogni elemento tende direttamente alla catastrofe. L'attenzione del lettore non è mai allentata. Le regole del dramma sono rispettate quasi per l'intero sviluppo del pezzo. I personaggi sono ben disegnati, e ancor meglio giostrati. Il terrore, motore principale dell'autore, impedisce alla storia di smorzarsi in alcun punto, ed esso è tanto spesso contrastato dalla pietà religiosa, che la mente si trova avvinta in un costante avvicendarsi di seducenti passioni.

    Qualcuno potrebbe pensare che i caratteri dei domestici siano troppo poco seri per l'ambientazione generale della storia; ma a parte il ruolo di contrasto con i personaggi principali, è l'arte dell'autore che si manifesta chiaramente nel suo trattamento dei personaggi subalterni. Essi rivelano numerose informazioni essenziali alla narrazione, che non sarebbe stato possibile portare a conoscenza del lettore se non grazie alla loro na'iveté e semplicità: in particolare, il terrore e le debolezze muliebri di Bianca, nell'ultimo capitolo, contribuiscono in maniera sostanziale all'avanzata della catastrofe.

    È naturale che un traduttore sia favorevolmente disposto nei confronti dell'opera che ha adottato. Lettori più imparziali saranno meno colpiti di quanto lo sono stato io dalle buone qualità di questo lavoro. Nondimeno non sono inconsapevole dei difetti del mio autore. Avrei preferito che egli basasse il suo piano su una morale più utile di questa: che i peccati dei padri ricadono sui figli sino alla terza e quarta generazione. Dubito che ai suoi tempi, non più che al presente, l'ambizione potesse frenare la sua brama di dominio per timore di una punizione tanto remota. E persino siffatta morale è messa in forse da una insinuazione meno diretta, ovvero che si può allontanare l'anatema per mezzo della devozione a San Nicola. Qui l'interesse per la figura del monaco rivela evidentemente il giudizio positivo dell'autore. Comunque, con tutti i suoi difetti, non ho dubbi che il lettore inglese sarà soddisfatto nel prendere visione di questo racconto. Il sentimento religioso che vi predomina dall'inizio alla fine, le lezioni di virtù che vi sono inculcate, e l'assoluta purezza dei sentimenti, esonerano quest'opera dalla censura cui troppo spesso vanno soggetti i romanzi. Dovesse incontrare il successo che spero, mi sentirei incoraggiato a far ristampare l'originale italiano, anche se questo finirebbe per svalutare il mio stesso lavoro. La nostra lingua è di gran lunga inferiore, sia per varietà che per armonia, alla perfezione dell'italiano. Quest'ultimo eccelle particolarmente nelle semplici narrazioni. È difficile in inglese raccontare senza scivolare troppo in basso o levarsi troppo in alto: un difetto evidentemente determinato dalla scarsa cura per la purezza dell'eloquio nella conversazione comune. Ogni francese o italiano di qualunque estrazione sociale si picca di parlare la propria lingua correttamente e con discernimento. Non m'illudo di aver reso giustizia al mio autore sotto questo punto di vista; tanta eleganza vi è nel suo stile, quanta maestria rivela il suo modo di trattare i sentimenti. È un peccato che egli non abbia applicato il suo talento a ciò cui esso evidentemente più si addiceva, il teatro. Non tratterrò oltre il lettore se non per una breve osservazione. Sebbene lo sviluppo delle vicende sia pura invenzione, e i nomi dei personaggi siano immaginari, non posso non credere che l'ossatura della storia abbia un fondo di verità. La scena si svolge senza dubbio in un castello reale. L'autore sembra descriverne di frequente, pur senza volerlo, alcuni elementi particolari. La camera, egli scrive, a mano destra; la porta sulla sinistra; la distanza fra la cappella e l'appartamento di Corrado: questi passi ed altri ancora fanno presumere che l'autore avesse in mente un qualche determinato edificio. I curiosi, che avranno agio di imbarcarsi in tali ricerche, potranno rintracciare negli scrittori italiani il fondamento su cui il nostro autore ha costruito. Qualora venga appurato che la sua opera prese spunto da una effettiva catastrofe in tutto simile a quella da lui descritta, questo contribuirà ad interessare il lettore, e farà del Castello di Otranto una storia ancor più commovente.

    Prefazione alla seconda edizione

    ...Vanae,

    Fingentur species, tamen ut pes et caput unì

    Reddantur formae...

    ORAZIO

    Il favore con cui quésto breve scritto è stato accolto dal pubblico rende necessario che l'autore spieghi i motivi che ne hanno ispirato la composizione. Ma prima di esternare tali ragioni, è bene che egli si scusi con i suoi lettori per aver proposto la propria opera sotto le mentite spoglie di traduttore. Giacché una certa diffidenza verso le proprie capacità, nonché la novità del tentativo, sono stati gli unici stimoli che l'hanno indotto ad assumere tale travestimento, l'autore s'illude di essere scusabile. Egli affidò la sua creazione all'imparziale giudizio del pubblico, deciso a lasciarla scomparire nell'oscurità, se rifiutata, e non intendendo reclamare la paternità di una simile bagattella, prima che giudici più qualificati avessero sentenziato il suo diritto ad attribuirsela senza arrossire.

    Si è trattato di un tentativo di fondere i due generi del romanzo, quello antico e quello moderno. Nel primo ogni cosa era governata dall'immaginazione e dall'inverosimiglianza: nel secondo l'intento, che a volte si trova ben realizzato, è sempre di imitare la natura. Non vi manca l'invenzione; ma le grandi risorse della fantasia sono state chiuse entro gli argini di una rigorosa aderenza alla vita comune. Ma se in quest'ultima specie la Natura ha paralizzato l'immaginazione, non si è trattato che di una rivincita, poiché essa era stata totalmente esclusa dai vecchi romanzi. Le azioni, i sentimenti, le conversazioni degli eroi e delle eroine dei giorni che furono ci appaiono tanto innaturali quanto le concatenazioni che li mettevano in moto.

    L'autore delle pagine che seguiranno credette possibile riconciliare i due generi. Pur desiderando lasciare i poteri della fantasia liberi di spaziare per lo sconfinato regno dell'invenzione, e di creare perciò situazioni più avvincenti, egli si prefisse di giostrare gli attori mortali del suo dramma secondo le regole della verosimiglianza. In breve, di farli pensare, parlare e agire come semplici uomini e donne avrebbero fatto se posti in situazioni insolite. Aveva osservato che in tutti gli scritti frutto di vera ispirazione i personaggi che si trovano al cospetto di miracoli, o sono testimoni dei fenomeni più straordinari, non perdono mai di vista la propria natura umana: mentre invece nel campo delle storie romanzesche un evento inverosimile non manca mai di essere commentato da dialoghi assurdi. I personaggi sembrano smarrire il buonsenso nel momento in cui le leggi della natura cambiano tono. Visto che il pubblico ha applaudito questo tentativo, l'autore ha diritto di ammettere di essere stato per lo più all'altezza della missione intrapresa: ciononostante, se il percorso da lui scoperto aprirà la strada a uomini di più brillante talento, egli ammetterà altresì con piacere e umiltà d'essere consapevole che il suo progetto meritava di essere meglio illustrato di quanto la sua stessa immaginazione o descrizione dei sentimenti non fossero in grado di fare.

    Riguardo al contegno dei domestici, su cui mi sono soffermato nella precedente prefazione, desidero solo aggiungere qualche parola. La semplicità del loro comportamento, intesa quasi a suscitare il sorriso, e che da principio può non sembrare in sintonia con il carattere serio dell'opera, mi parve non solo tutt'altro che inappropriata, ma fu di proposito concepita in tal modo. Il mio riferimento era la natura. Per quanto gravi, importanti, o anche tristi possano essere i sentimenti di principi ed eroi, essi non imprimono uguali sensazioni nei loro domestici: per lo meno questi ultimi non esprimono, o non li si dovrebbe far esprimere, le proprie passioni nello stesso tono altisonante. Secondo il mio modesto parere, il contrasto fra la sublimità degli uni e la naiveté degli altri mette in maggior luce l'elemento patetico presente nei primi. Proprio l'impazienza che il lettore prova quando le volgari facezie dei personaggi popolani ritardano la conoscenza delle immani catastrofi di cui lui è in attesa, aumenta forse l'importanza dell'evento stesso, e di certo prova l'interesse abilmente suscitato per l'argomento nel lettore. Ma io disponevo di più alta autorità che non la mia opinione in favore di tale scelta. Il sommo maestro della natura, Shakespeare, fu il modello che imitai. Non è forse vero che tragedie quali Amleto o Giulio Cesare perderebbero una parte considerevole delle loro meravigliose attrattive e del loro spirito, se l'umorismo dei becchini, le follie di Polonio, i goffi motteggi dei cittadini romani venissero omessi o rivestiti di panni eroici? L'eloquenza di Antonio, la nobile e intensamente impassibile orazione di Bruto, non vengono artificialmente esaltate grazie alle rozze e spontanee esclamazioni pronunciate dai loro ascoltatori? Questi esempi ricordano lo scultore greco che, per trasmettere l'idea del colosso entro le dimensioni di un sigillo, vi inserì un ragazzino che ne misurava il pollice.

    No, dice Voltaire nella sua edizione di Corneille, questa miscela di buffoneria e di solennità è intollerabile. Voltaire è un genio ¹: ma non della grandezza di Shakespeare. Senza ricorrere a fonti discutibili, farò ricorso a Voltaire stesso. Non mi servirò dei suoi precedenti encomi del nostro grande poeta, sebbene il critico francese abbia tradotto due volte un medesimo passo dell'Amleto, alcuni anni fa con ammirazione, ultimamente in tono canzonatorio: e mi spiace constatare che i suoi giudizi si fanno sempre più fiacchi, quando dovrebbero invece maturarsi. Ma io farò uso delle sue stesse parole, pronunciate a proposito del teatro in generale, senza che egli pensasse né a elogiare né a deprecare la maniera di Shakespeare, e per conseguenza in un momento in cui Voltaire era imparziale. Nella prefazione al suo Enfantprodigue, un'opera squisita di cui mi dichiaro ammiratore, e che, dovessi vivere per altri vent'anni, confido di non aver mai a mettere in ridicolo, egli fa le seguenti affermazioni parlando della commedia (ma egualmente valide per la tragedia, se la tragedia consiste, come è certo che consista, in una rappresentazione della vita umana; né riesco a comprendere per qual motivo arguzie accidentali debbano venir bandite dalla scena tragica più che la patetica serietà da quella comica): Onyvoit un mélange de sérìeux et deplaisanterie, de comique et de touchant; souvent mème une seule avanture produit tous ces contrastes. Rieri n'est si commuti qu'une maison dans laquelle un pére gronde, une fille occupée de sa passion pleure; le fils se moque des deux, et quelques parens prennent part différemment à la scène, &c. Nous n'inférons pas de là que toute comédie doive avoir des scènes de bouffonnerie et des scènes attendrissantes: il y a beaucoup de très bonnes pièces où il ne règne que de la gayeté; d'autres toutes sérieuses; d'autres mélangées; d'autres où l'attendrissement va jusques aux larmes: il ne faut donner l'exclusion à aucun genre: et si l'on demandoit, quel genre est le meilleur, je répondrois, celui qui est le mieux traité ². Certamente, se una commedia può essere toute sérieuse, una tragedia può bene indulgere qua e là, sobriamente, in un sorriso. Chi lo vieterà? Sarà il critico, che per autodifesa dichiara che nessun genere dovrebbe venire escluso dalla commedia, a dettar legge a Shakespeare? So che la prefazione da cui ho citato questi passi non compare a firma di monsieur de Voltaire, ma a quella del suo editore; del resto, chi dubita che editore e autore non fossero la stessa persona? O altrimenti dov'è questo editore, che si è così brillantemente impadronito dello stile e della facilità di argomentazione del suo autore?

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