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Il Vero Oro Nero
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E-book267 pagine3 ore

Il Vero Oro Nero

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Info su questo ebook

Il Vero Oro Nero racconta di Davide, trentenne romano che si barcamena tra un lavoro insoddisfacente, un capo dispotico e un amore infelice.

Dalla sua, però, gli amici di una vita e uno sguardo teneramente ironico sul variegato panorama di bizzarri personaggi che lo circondano. E così ecco Giò, il burbero titolare del negozio di dischi Dirty Fingers, Krantz, il dentista tedesco melomane, e i gemelli Tomlin circensi ormai in pensione. Improvvisamente però Davide metterà in discussione tutta la sua vita, intraprendendo un percorso di crescita personale che lo porterà ad affermare la propria identità in quello che potrebbe essere considerato un moderno romanzo di formazione. E sullo sfondo lei, la musica, vera compagna e protagonista ultima del racconto.

LinguaItaliano
Data di uscita7 mar 2016
ISBN9788893370165
Il Vero Oro Nero

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    Anteprima del libro

    Il Vero Oro Nero - Marco Di Nicola

    gratitudine.

    PARTE PRIMA

    1.

    «Ieri ho comprato una t-shirt dei Rolling Stone. Dovresti vederla, è una bomba».

    «Sssssss».

    «Ssssssssss, che cosa?»

    «Rolling Stones. Con la esse finale».

    «E io che ho detto?»

    «Rolling Sto… Vabbè, lasciamo perdere».

    «Non lasciamo perdere proprio un bel niente. Io l’ho detto bene il nome del gruppo. Cacchio, mica stiamo parlando di cinque sconosciuti. Stones, con la esse finale. Stai diventando sordo, ecco cosa. È chiaro o no?»

    «Se lo dici tu. Muddy Waters si starà rivoltando nella tomba».

    «Muddy Waters non è morto».

    «Sì che è morto. Nel 1983. E comunque, se fosse presente a questa stupida discussione, cadrebbe a terra stecchito in ogni caso».

    Non c’è da stupirsi.

    Luca ha sempre avuto la tendenza a non ammettere i suoi errori. Capita a tutti. Siamo degli esseri umani, no? Solo che a lui capita molto più spesso del necessario. Quasi sempre, a essere sinceri.

    Sto proprio ripensando a questo episodio, uno tra migliaia di esempi, quando un collega si affaccia alla porta.

    Viso serio.

    «Monsanti, il capo ti vuole parlare».

    Monsanti, hai capito? Il capo ti vuole parlare. Che fai ora, dici che non ci vai? Fingi di sentirti male? O ti alzi, e bravo bravo mandi giù questo schifo di sbobba?

    Walter Liquido mi toglie la voglia di respirare.

    Quando è arrivato a sostituire il vecchio De Caroli nell’ottobre scorso, ho subito capito che c’era qualcosa in lui che non andava.

    Il modo in cui veste, la camminata balorda e i suoi sorrisi falsi.

    E quel dopobarba nauseante, poi.

    Mi ha chiamato nel suo ufficio perché dice che vuole conoscerci tutti, uno per uno. Vuole che diventiamo amici sul serio, così magari veniamo a lavorare con il sorriso sulle labbra e il rendimento schizza alle stelle.

    Ora tocca a me, e non posso sottrarmi.

    Mentre mi parla, fisso quel pizzetto curato in maniera quasi maniacale. Mi sono chiesto a cosa servano veramente quei peli che gli nascondono parte del viso. Ogni tanto lo sfiora lievemente con la mano destra, come se fosse una specie di talismano, come se lo stesse implorando di mandargliela liscia anche stavolta, facendo in modo che chi gli sta davanti si beva tutte quelle belle parole. Mentre escono dalla sua bocca, perdono sempre più di significato e dignità.

    Non gli presto molta attenzione, a dire la verità.

    I colleghi mi hanno già detto tutto, raccontandomi dei loro colloqui privati nei minimi particolari. Sono convinto che quell’uomo è il perfetto contrario di ciò che vuole farci credere. Ora posso scoprirlo da me, in maniera diretta.

    «Allora Davide, qua la mano e dacci sotto, d’accordo?»

    Quell’ultima parola mi è suonata più come una minaccia, che un invito a dare il meglio.

    Per alcuni istanti, ho continuato a fissargli quegli stupidi peli che gli spuntano dal mento e dal labbro superiore.

    «D’accordo».

    Non ci metto molto entusiasmo. Sorrido con i denti. Ma lui sembra soddisfatto. Una volta tornato al mio posto, cerco di riesaminare quella conversazione. Non ne ricordo quasi nulla, ma la cosa non mi stupisce.

    Pensavo che sarebbe durata un’eternità, invece è filata via liscia come l’olio.

    Quegli stupidi peli.

    Forse mi sono concentrato così tanto sui particolari, proprio per non essere costretto a trovarmi di fronte il quadro completo delle cose, una volta fuori di lì.

    Mi rigiro una spillatrice tra le mani per qualche secondo, ne valuto bene il peso e la superficie fredda e dura al tatto, poi la metto giù e ritorno a fare quello che avevo lasciato in sospeso.

    Arrivata l’ora della pausa pranzo, decido che oggi è ora di cambiare. Senza dire niente agli altri, mi dirigo verso il parco. Voglio stare da solo.

    Ormai so che ci vogliono poco più di dieci minuti a piedi per arrivare. Passo svelto, elastico. Mi piace andare al parco, anche se non potrò rimanere molto a lungo, prima di dover tornare in ufficio. Il tempo passa sempre troppo in fretta lontano da lì.

    Non fa freddo per essere una giornata di pieno inverno, anche se il cielo non promette niente di buono. Ho troppa voglia di allontanarmi, però, anche a costo di dovermi inzuppare fino al midollo.

    Mangio il mio panino seduto su una vecchia panchina di legno, assaporando ogni singolo boccone, mentre guardo giocare i bambini.

    Sono uno spasso, i bambini.

    Mi danno sempre una grande sensazione di serenità, gioia, ma anche un po’ di malinconia, a dire il vero. Di quella dolce però, alla quale non si dovrebbe mai rinunciare definitivamente nella vita.

    Certe volte ripenso alla mia d’infanzia, alle mie giornate passate giù in cortile, con la primavera che avanzava a grandi passi. Quando mi rituffo in quelle immagini, sembra sempre essere primavera. Un’infinita stagione di bel tempo e grandi speranze. Quel periodo della mia vita mi manca sempre di più, ogni anno che passa, a ogni tangibile segno che il tempo è determinato a fare il suo corso in maniera inesorabile. Non aspetta nessuno, che si tratti di te o qualcun’altro. Soldi. Posizione sociale. Colore della pelle.

    Non contano nulla. Esiste solo lui, il Grande Egoista.

    Dopo aver finito il mio pranzo, butto la carta sporca in un cestino, mi pulisco la bocca con il dorso della mano e mi rincammino verso l’ufficio.

    Quelle nuvole non mi piacciono affatto, ma alla fine si comporteranno bene. Ne sono sicuro.

    *

    Proprio oggi sono dieci anni esatti da quando ci siamo visti per la prima volta.

    È stato durante una festa di compleanno, a casa di una sua amica.

    Non avevo mai provato nulla del genere per nessuna ragazza prima di lei; ho sentito che dovevo conoscerla, a tutti i costi.

    Respiravo a fatica e il resto della stanza, gli altri invitati, tutto insomma, era scivolato fuori dalla mia vista, fuori dalla mia vita. Fuori dal mondo intero.

    Esisteva solo lei.

    Chiesi a Lucilla di presentarci, ma era il suo compleanno, e probabilmente non le andò giù che non fosse lei il vero e unico centro dell’attenzione quella sera.

    Mi è stato detto, qualche tempo dopo che Miriam e io avevamo iniziato a frequentarci, che lei era interessata a me.

    Ha fatto di tutto per metterci i bastoni tra le ruote, la cara Lucilla, ma poi la maledizione del Faraone le si deve essere ritorta contro.

    Parlo di maledizione del Faraone, anche se la cosa mi fa sorridere, perché poco tempo prima era stata in vacanza al Cairo con la famiglia, e una volta tornata, la ragazza era diversa, molto diversa.

    Un amico comune sosteneva, che animata dalla sua solita curiosità morbosa, avesse tentato di scoperchiare un sarcofago o qualcosa del genere, e da allora erano cominciati i suoi guai.

    Non aveva saputo tenere le mani a posto.

    Fatto sta che un paio di mesi dopo quella festa, e svariati tentavi di far andare alle ortiche la mia relazione con la sua amica Miriam, il padre di Lucilla, venne trasferito per lavoro ad Alessandria (non Alessandria D’Egitto, ma la cittadina piemontese dello stesso nome, e per quello che mi riguarda, le andò anche troppo bene), e da allora, non abbiamo più saputo nulla di lei.

    Ricordo la sua partenza con un misto di sollievo e inquietudine.

    Sono passati dieci anni.

    Quanto tempo… ma quello che provo per Miriam non è affatto cambiato, anche se non glielo dico mai.

    Rifarei tutto da capo, senza alcuna esitazione, anche quando le cose non vanno come dovrebbero. Un buon segno, questo.

    Ci sono anche altre cose, lasciando da parte le relazioni interpersonali, che purtroppo hanno degli alti e bassi piuttosto spiacevoli, nella mia vita.

    Sciopero dei mezzi pubblici.

    Per l’andata non ci sono stati troppi problemi, ma per il tragitto inverso la vedo brutta. Di esperienza ne ho da vendere.

    Scorgo quello che forse sarà l’ultimo autobus disponibile per tornare a casa a un orario decente.

    Purtroppo è lontanissimo, ma provo lo stesso a raggiungerlo.

    Inizia una corsa disperata in direzione della fermata. Da lontano vedo un sacco di gente ammassata alle entrate della vettura, e questo è un bene. Con quell’arrembaggio piratesco, impediranno di sicuro al veliero nemico di ripartire troppo presto, evitandomi così di dover aspettare seduto su una panchina per chissà quanto tempo. Mi faccio coraggio, e continuo a correre come un pazzo.

    Quando finalmente riesco a farmi largo tra quella moltitudine di corpi, non so nemmeno io come, e a guadagnare un posticino accanto alla macchinetta per timbrare i biglietti, verso in uno stato pietoso: niente scarpe, camicia fuori dai pantaloni e sudata da marcia longa.

    Sento un rumore metallico sul pavimento. Forse sono le chiavi di casa che mi sono scivolate da un buco nella tasca dei pantaloni. Vivo nel terrore di perderle.

    Abbasso la testa per cercare di capire se quello che temo è successo sul serio o no, anche se già so che si tratterà di un’impresa disperata. Vedo solo un sacco di scarpe diverse. Ho le tasche vuote, e una strana sensazione comincia a invadermi il corpo. Comincio a sentire il viso che si fa caldo, mentre lungo la spina dorsale partono le prime scariche. Brividi di freddo. Cerco di farmi spazio con il corpo per chinarmi, ed è allora che alla mia destra intravedo una piccola donna asiatica. È seduta, con gli occhi chiusi e la testa piena di capelli neri e lucidi appoggiata al finestrino. Da un lato della bocca le scende un rivolo di saliva.

    Non riesco a capire se sta solo dormendo o forse, più tragicamente, è passata a miglior vita.

    Per un attimo mi dimentico delle chiavi. Provo a toccarla. Nessuna reazione.Sono piuttosto scosso, ma provo comunque a concentrarmi sul da farsi: forse dovrei richiamare l’attenzione del conducente, ma intanto il poveraccio è impegnato in un duello all’ultimo sangue con un’anziana vestita da capo a piedi come Giuseppe Bavastro, il valoroso corsaro genovese che nell’anno di grazia 1800, armato di tre cannoni e un piccolo manipolo di galeotti, attaccò le navi della flotta inglese, bloccando i bombardamenti sulla sua amata città natale.

    Non ha di sicuro tempo da perdere con me e la mia nuova amica.

    Non so cosa fare. Con ogni probabilità, una volta che la vettura sarà arrivata al capolinea, uno dei responsabili, tra una pausa caffè e l’altra, accerterà il probabile decesso e procederà a tumulare la poveretta nel bagno di una sala giochi non troppo distante da lì.

    Una roba sbrigativa, ma come biasimarli? Non vorrei essere nei loro panni, in fondo. Come si affrontano casi come questo?

    Scendo alla solita fermata, e guardo il 77 barrato ripartire immerso in una nuvola di fumo nero e maleodorante. Mi accorgo di avere indosso un cappotto non mio.

    Infilo le mani in tasca e a testa bassa, mi avvio verso casa. Addio dolce donnetta asiatica. Stasera qualche anziana signora troppo ricca e vecchia per chinarsi a raccogliere una forchetta caduta da tavola, sentirà la tua mancanza.

    Entro in casa (tanto per la cronaca, mentre ero ancora in ufficio e mi preparavo a fuggire, ho preso il mazzo di chiavi che avevo nella tasca destra dei pantaloni e l’ho ficcata nella borsa a tracolla, cosa che di solito non faccio mai), mi cambio e decido che ho bisogno di qualcosa per tirarmi su.

    Accendo lo stereo. Il meglio dei Beach Boys.

    Armonie vocali perfette. Spiagge calde e acque cristalline. Mi sento subito meglio.

    Passa un giorno. Sempre sullo stesso mezzo stracolmo di persone, tento di farmi venire un’idea geniale per ricucire i rapporti con la famiglia di Miriam, e in particolare con il padre, visto che vorrei chiederle di andare a convivere,se possibile in un appartamento leggermente più grande di un uovo, che è più o meno la dimensione di quello che occupo adesso. L’aiuto dei suoi genitori, almeno per i primi tempi, potrebbe essere decisivo.

    I miei, bontà loro, si sono già impegnati a regalarmi abbracci e varie altre dimostrazioni d’affetto, in quantità quasi infinita, quindi sotto quel profilo siamo abbondantemente coperti.

    Adesso mancano solo un po’ più di soldi, almeno per i primi tempi, come detto, quelli più duri.

    Nonostante tutto, mi sento positivo. Il traffico della mattina scorre via abbastanza liscio; c’è un netturbino dall’altra parte della strada che fa il suo dovere senza particolare fretta, scopa in mano e occhi fissi a terra, mentre un suo collega a bordo di un piccolo mezzo bianco, lo segue passo passo. Bambini in grembiule tengono per mano i genitori che li accompagnano a scuola, trainando delle cartelle monumentali, ma senza fretta. Le nuvole scure sono sparite.

    Una mattinata serena, insomma.

    Dal fondo dell’autobus, improvvisamente, sento arrivare un gran baccano.

    Due uomini, piuttosto in là con gli anni per giunta: uno ha un cappello grigio calcato in testa, sciarpa di colore verde scuro attorno al collo, e un montone così pesante, ma così pesante, che sarebbe sicuramente giudicato troppo caldo persino da un gruppo di ricercatori in partenza per il Polo Nord.

    L’altro è un tipo dritto come un fuso, nonostante l’età. Veste un bel cappotto marrone bordato di pelo scuro sul bavero, ed è pettinato come Piola subito dopo la vittoria dei Mondiali del 1938.

    Non ho capito perché stiano litigando, ma quello che era partito sicuramente come un garbato scambio di opinioni sull’attuale situazione politica del paese o sul prezzo assurdo che hanno raggiunto gli ortaggi, per quello che ne so io, è presto degenerato in un feroce duello rusticano.

    L’uomo con il cappello dà inizio alle danze con un ceffone ben assestato, al quale Piola risponde con una sberla da cineteca.

    La zuffa non ci mette molto a incattivirsi. Dopo quel primo scambio, segue una fase di studio abbastanza lunga e tesa. Il centravanti della Nazionale campione del mondo, dopo un tentativo di destro sui denti andato a vuoto, si fa largo verso la postazione di guida, scalciando e sbuffando come un toro pazzo. Poi si lancia in direzione dell’avversario; l’intenzione è di colpirlo al centro dello sterno con la testata più micidiale che si ricordi a memoria d’uomo.

    Parte la rincorsa, ma il bersaglio umano si scansa appena in tempo con una mossa alla Dominguìn, ineguagliato idolo delle folle spagnole.

    Per fortuna, ho pensato io. L’intensità del traffico è salita in maniera vertiginosa nel giro di pochissimo tempo.

    Calcolando che siamo a Roma, un’autoambulanza ci avrebbe messo diverse ore a raggiungere il luogo del disastro.

    Il toro nel frattempo è finito tra le braccia dei passeggeri che si trovano in fondo all’autobus; loro fanno finta di volerlo trattenere, ma in verità pagherebbero oro per vedere un’altra rincorsa del genere, magari con una conclusione sensibilmente più felice.

    In men che non si dica i due contendenti rientrano in contatto, e tenendosi saldamente per il bavero dei rispettivi cappotti, si scuotono come si farebbe con degli antichi tappeti che abbiano accumulato diversi anni di polvere.

    Io li guardo quasi ammirato. Questa è violenza, violenza pura; a me non è mai piaciuta, ma non riesco a smettere di pensare che la generazione dei nati negli anni venti o giù di lì, è fatta proprio di un’altra pasta.

    Le privazioni li hanno resi forti.

    Sembrano ancora fatti di lucido acciaio e speranze ben riposte.

    I due si guardano dritto negli occhi per un tempo così lungo che alla maggior parte dei passeggeri-spettatori, me compreso, sembra di essere in fila dal dentista quando si ha un brutto ascesso.

    Poi si tolgono le grinfie di dosso, e si stringono la mano energicamente, con il reciproco e profondo rispetto di due giovani cadetti, che seppur feriti gravemente, riconoscono appieno il valore dell’avversario.

    Con il tipico stile contenuto del nostro popolo, tutto l’autobus esplode in un applauso assordante. Le ostilità sono ufficialmente terminate.

    Sceso dal mezzo pubblico, mi volto. Tutti i testimoni di quel bizzarro e affascinante evento sono in strada. Salutano il grande Piola e il suo degno coetaneo con una magnifica hola.

    Sono seduto davanti al computer da appena cinque minuti, e tiro giù un veloce bilancio della mattinata: devo ancora trovare il modo di ricomprarmi un uomo scorbutico e manesco, se proprio voglio mettere su casa con Miriam, ma non ho idea di come fare; due vecchi si sono quasi uccisi di botte, anche se poi tutto è andato per il meglio; ho fatto tardi al lavoro per seguire i festeggiamenti del dopo-sommossa, e per questo mi sono preso una bella lavata di capo.

    Domanda: ma che tipo di vita faccio?

    Mi passo una mano tra i capelli in maniera sconsolata.

    Però, a dire il vero, tutta quell’inquietante umanità già mi manca terribilmente.

    *

    È domenica.

    Se mi trovassi in un’altra situazione, direi grazie a Dio.

    Ma oggi non è davvero il caso; devo andare a pranzo a casa di Miriam e trovare il modo di affrontare la questione della grana con suo padre.

    Mi sono svegliato molto presto, e non posso dire di aver riposato bene stanotte.

    Non sapendo come impegnare il tempo, decido di fare colazione giù al bar, così, tanto per concedermi un tipico lusso da giornata libera. Me lo merito, soprattutto con quello che mi aspetta.

    Scendo le scale del palazzo di buona lena, così mi scaldo un po’, e una volta in strada, mi riparo bene dall’aria gelata che incontro non appena esco dal portone. Mi infilo il più velocemente possibile nel Bar Davide.

    Eccomi qui.

    Curiosamente il locale porta il mio stesso nome, forse perché il proprietario, chissà, si

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