Un soliloquio di satana
Di Dario Gumina
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Anteprima del libro
Un soliloquio di satana - Dario Gumina
Da r i o Gu m i n a
Un soliloquio di Satana
satana cornice 2Siamo tutti angeli caduti, precipitati dalle spalle dei nostri genitori alla fine dell’infanzia; nostro paradiso perduto.
La casa degli spiriti
Noi eravamo lame vibranti, al tempo in cui il desiderio di distruzione non aveva bisogno di nessun movente.
E nella casa degli spiriti trovammo ciò che cercavamo, frantumando qualsiasi cosa ci capitasse a tiro in un impeto di furia distruttiva e di gioia, scevra da qualsiasi inganno, tale da squarciare i nostri petti adolescenziali in un batticuore da lasciare senza fiato. Fu come fare l’amore a tutto spiano per un’interminabile notte, senza mai fermarsi.
Ritrovandoci poi a fissare in silenzio la vasca con le ninfee di quella misteriosa casa in stile pompeiano, il cielo sopra di essa e la limpida calma che l’acqua rifletteva come un chiaro specchio – specchio del profondo - nell’aria tiepida di quello strano e indimenticabile pomeriggio di primavera.
Satana 9p bnPrologo
Tutto ricomincia con il senso di morte. È inutile cercare di descriverlo quindi non ci proverò nemmeno.
Una sera d’estate mi trovavo in una piccola località balneare, mentre sorseggiavo una birra, rimasi a guardare un gruppo di ragazzi affollarsi vicino alle giostre. Per motivi sconosciuti quella massa variopinta e allegra, mi richiamò alla mente le montagne di cadaveri nei campi di sterminio nazisti. Il cielo sotto il quale giacevano, reso plumbeo dai fumi delle ciminiere dei forni crematori, era diventato come una pesantissima cappa di follia che incombeva sulla specie umana. Il lezzo di carne bruciata era insopportabile e, in quel momento, iniziai a ricordare ciò che era accaduto molti anni prima.
Strano a dirsi era una storia d’amore.
A un tratto fu come se una voce senza suono parlasse dentro di me. Disse cose strane, e all’inizio non capii. Sembrò avvertirmi come il percorso nella memoria fosse pieno d’insidie e, se pensavo di annoiarmi, sbagliavo di grosso. Poi continuò "dovrai tornare in quelle stanze che credevi abbandonate per sempre, laddove nulla è cambiato. Odori, sapori, suoni e spiriti maligni del passato i quali, mai sopiti, ti aspettano pronti a ossessionarti come una volta.
Perché nulla finisce mai, dentro di noi.
Comincerai il tuo racconto scrivendo come esso scaturisca dalle tenebre in cui siamo immersi, per questo motivo la narrazione sarà priva degli assi spazio temporali, potendo svolgersi ovunque e in qualsiasi epoca. Non ti farai chiamare in nessun modo, perché i demoni che ti hanno posseduto portano nomi impronunciabili, come lo schianto della folgore, il frastuono del mare in tempesta o il caos di un’orchestra impazzita. Ricorderai quando ti credevi invulnerabile, immortale e ne eri così convinto da non esserne consapevole. Percorrerai strade che pensavi essere alle tue spalle e in esse rivivrai tutto, anche quando indirizzavi ogni supplica a Satana. Poi arriverà il ricordo della tua stessa morte, quando il dolore sembrò vincerti e, in ultimo, l’insperato ritorno alla vita. E ogni cosa sarà reale e tangibile come quando l’hai vissuta per la prima volta".
Discesa agli inferi oppure un’operazione squisitamente alchemica? Il tempo e la memoria non sono forse le tappe dell’incomprensione?
Ed ecco l’inspiegabile poesia sorgere dalle acque oscure della memoria, piena di nostalgia per quegli eventi che cagionarono in me tanta sofferenza. Nessuno sa come ciò avvenga. Forse perché in passato ero inconsciamente pieno di speranza, ed essa s’imprimeva in modo indelebile su qualunque cosa vivessi. Ma è indubbio come quell’epoca rimanga per me l’età dell’oro, eterea e irraggiungibile, e l’incanto di quei giorni deliranti è destinato a essere sentito soltanto nel ricordo, mai nella contemporaneità.
OCCHI centraticapitolo 1
Prima dell’inizio del tempo
Il trascorrere del tempo.
Prima che ne avessi piena coscienza, frequentavo un amico, si chiamava Ugo, c’eravamo conosciuti alle scuole elementari, con lui avevo condiviso la prima passione della mia vita, la paleontologia, quando ancora eravamo troppo piccoli perché riuscissimo a pronunciare correttamente quella lunga e difficile parola.
Durante le vacanze estive andavo spesso a trovarlo. Lui abitava in una vecchia casa alla periferia della città, fatta di legno e muratura, piena di penombra come di mistero. Antistante alla casa c’era un giardino ben sistemato, dal quale si accedeva a un orto e, separato da un muro di cinta, si estendeva un altro grande spazio che lui chiamava il giardino di mia zia
, completamente incolto e selvaggio al quale accedevamo scavalcando.
Quando il tempo non esisteva, noi passavamo i pomeriggi estivi a scalpellare conchiglie fossili dai conci di tufo, in quello screpolato muro d’orto.
Il silenzio, carico di luce e di gioia, prendeva la forma ondulata e avvolgente delle conchiglie fossili che delicatamente estraevamo dal muro. Come gemme solitarie partorite da un pensiero inconoscibile, liberate dall’inerte materia nella quale si trovavano incastonate. Tra le dita sentivo il passato sussurrare il segreto perduto di anfratti dell’esistere. In quell’orto antico, come in una macchina del tempo, il flusso degli eventi sembrava fermarsi indugiando tra le indescrivibili concrezioni madreperlacee, dov’erano cristallizzate forme raffiguranti l’eternità.
Un pomeriggio Ugo trovò due strane crisalidi di colore rosso mogano, le raccolse e aspettò che si aprissero. Dopo qualche settimana le pupe si schiusero e diedero alla luce due splendide falene. Con enorme emozione il mio amico le riconobbe subito, il loro nome era Acherontia atropos, comunemente conosciute come sfinge testa di morto. La macchia biancastra a forma di teschio risaltava sul lato dorsale del torace. La bellezza di quei lepidotteri sembrava emersa dal sogno di un dio. Si potevano trascorrere delle ore ad ammirarli. Prima che le ali si asciugassero del tutto, Ugo le ripose in una scatola divisa in due scomparti. In uno mise gli insetti nell’altro versò della benzina, e poi chiuse tutto. Pochi minuti dopo le creature erano morte, soffocate dai vapori del carburante. Fece questo per non danneggiare il loro corpo. Poi li espose in una cassettina di vetro. Uccise la bellezza nel vano tentativo di renderla eterna.
Un giorno Ugo mi spiegò per quale motivo aveva la proibizione assoluta da parte dei genitori a recarsi in cantina. Mi disse come laggiù ci fosse qualcosa di molto pericoloso, e che c’era poco da scherzare. Una volta comunque scendemmo insieme a suo padre e, dalla scala, vidi di cosa si trattava.
Scavata nella nuda roccia della parete di fronte alla gradinata, un’apertura grossolanamente rettangolare si schiudeva, nera nella penombra, minacciosa e seducente al tempo stesso. Leggenda voleva che alcune persone entrate in quella galleria non fossero mai tornate. La madre di uno di loro resa folle dal dolore, di quando in quando, ancora oggi passava per chiedere se suo figlio fosse tornato, riemergendo da quelle tenebre maledette. Anni prima, il padre di Ugo con alcuni amici avevano cercato di esplorarla, riuscendoci solo in parte. Quando, trascorse alcune ore, era tornato raccontò che dopo alcuni chilometri il tunnel si allargava improvvisamente dando origine a una camera a pianta circolare col soffitto a volta. Sulle pareti erano stati ricavati dei rozzi sedili e al centro vi era un’enorme pietra con la faccia superiore piana, a mo’ di tavolo. A quel punto gli uomini avevano deciso di invertire la rotta, anche perché il sinistro traforo si ramificava in altri cunicoli i quali continuavano ancora per chissà quanti chilometri.
Fantasticammo a lungo su quali indicibili concistori si erano svolti in quella sala nelle viscere della terra. Chi e a quale scopo avesse scavato quel tetro tunnel non era dato sapere. Quali segreti e ineffabili formule magiche erano stati pronunciati in quelle inviolabili tenebre? Questo lasciò in me una traccia profonda, mi resi conto di come, se si vuole penetrare il mistero, bisogna essere disposti a correre dei grossi rischi.
Più ore passavamo in quei giardini più ci allontanavamo dalla realtà, era come vivere in un mondo tutto nostro. Forse fu per questo che una volta, mentre stavamo giocando, accadde un fatto veramente strano. Dal giardino selvaggio arrivarono in sequenza tre piccole pietre, sorvolando il muro di cinta. La prima colpì a un’estremità un piccolo pezzo di legno ricurvo, facendolo mulinare in aria. Quando, qualche istante dopo il legnetto ricadde, arrivò la seconda pietra che lo colpì ancora scagliandolo a qualche centimetro di distanza, la terza poi lo beccò in pieno. Ci sporgemmo allora dal muro, ma nel giardino non c’era nessuno. Ad ogni modo era improbabile, per non dire impossibile a chiunque, riuscire in una simile impresa, una tale precisione e alla cieca addirittura. Nel silenzio di quel pomeriggio estivo carezzato soltanto dal canto delle cicale l’impossibilità di quell’evento ci impressionò molto, e provammo una stranissima sensazione, come se fossimo gli unici esseri umani rimasti in vita in tutto il pianeta. Poi lo dimenticammo.
Un pomeriggio ci trovò a parlare di Dio e del mistero della sua esistenza. Ugo, come me del resto, aveva ricevuto un’educazione cattolica tuttavia, mi disse, non credeva in Dio e in un certo senso se ne rammaricava. Soprattutto gli dispiaceva di non credere nel diavolo perché, mi confessò, se il principe delle tenebre esistesse davvero, non esiterei a fare un patto con lui
.