L'ultima luna
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Anteprima del libro
L'ultima luna - Camillo Carrea
633/1941.
PREFAZIONE
Leggendo ‘L’ultima Luna’ ho immaginato di vederla brillare sul mio paese nelle notti d’estate che avevano il caldo delle masserie, i ritornelli di canzoni da donare alla propria bella, le cicale assordanti per richiamare lo scirocco e le lucciole a illuminare maggio, tra il grano vestito di verde e di rossi papaveri a girare i girasoli al sole che mira la sua luna. Poi, mi sono accorta d’esser rimasta sospesa, tra ogni rigo di punteggiatura, intrisa dalle parole, tanto da tornare a capo e continuare un viaggio che di giorno rincorre la notte per sedersi e guardare la Luna. Ogni Luna è Luna nuova, anche al suo tramontare: riconosce il cielo che l’accoglie e la terra che la racconta tra i vicoli.
Una ricca memoria pervade questo racconto di Camillo Carrea: un ricordo ricorrente, quasi vissuto nel raccontarlo, come un flash back tra il narratore di oggi e il protagonista d’allora. Vivere è narrare le voci tra le strade, le leggende, i dolori, gli odori, i suoni, l’amore, la morte, le canzoni.
Il valore di ogni uomo racconta la leggenda di ogni donna amata come Dea o come l’Idea di ella in quella sudditanza d’epoca che si ripete nel tempo con tratti diversi, e segue il comune pensare alla donna come colei che genera vita e guerra allo stesso tempo. La sostanza di ciò che accade chiude l’uomo tra il male e il bene, come Caino e Abele, chiedendoci sempre chi sia in noi a prendere il sopravvento, come la storia di Adamo ed Eva, la donna tentatrice, a sua volta vittima del serpente, che ne ‘L’ultima luna’ non è tentatore, né terrificante.
La magia regna nel racconto, come la Luna in luoghi mistici, dove le leggende del paese prendono forma da episodi tramandati e vissuti da tutti i numerosi personaggi.
La ricchezza di ogni protagonista ha un valore determinante a livello filantropico. L’abbandono e la solitudine hanno la loro rivincita nella Vita che narra Camillo Carrea ne ‘L’Ultima Luna’.
Marianna Della Penna
Luna
Tu mi hai mandato la Luna,
a regalarmi il pallore,
in quella curva di schiena
rubata alla Terra
respirano i Venti
senza soffiare...
In quei crateri
rubati ai Vulcani,
il Fuoco soffoca
ogni lapillo...
In quelle Maree
rubate alle maghe
si prevede l'Amore.
Quiete d'ansia tenue,
preme l'oscurità,
ad ogni sogno
versa le stelle
Marianna Della Penna
CAPITOLO PRIMO
Era il terzo lunedì di seguito che davano un film con Humphrey Bogart.
Lo zio Virgilio se ne stava seduto come sempre sulla poltrona color senape nel salotto della nuova casa. Nuova per così dire, perché la casa era vecchia. Vecchia, e non antica, come disse mia madre quando la visitammo per la prima volta e un’espressione di delizia le illuminò il viso mentre osservava le pietre annerite dei muri, le chiazze verdi di umidità, la polvere granulosa e bigia che ammantava le misere suppellettili. Gli odori forti che esalavano da tutto quello sfacelo, il pavimento con i mattoni malfermi sul quale zoppicavamo non distolsero mia madre dal suo incanto, fino al momento in cui si voltò verso di noi e chiese:
Vi piace, vero?
Bagliori azzurrini le guizzavano negli occhi che fino a un momento prima dovevano aver contemplato i luoghi misteriosi ai quali essa apparteneva. Distolsi lo sguardo da un punto della parete da cui pendeva un’enorme ragnatela a forma di calza, buona per la gamba di una gigantessa, oppure per un bambino che confidava troppo sulla generosità della befana.
Certo
le rispose mio padre con un sorriso che mi gettò nella disperazione. Quella parola era difatti la certezza assoluta che quel tugurio sarebbe diventato la nostra casa!
Ma è davvero qui che dobbiamo venire a stare?
La mia domanda era una nuvola nera che fluttuò inascoltata nell’aria pregna di odori stordenti e di polvere vecchia di decenni, se non di secoli. Ringhiai di nuovo, rivolto all’eterea genitrice.
Mica è qui che dovremo venire a stare, mamma?
Lei si girò verso di me, fissandomi con i bagliori azzurrini. Mia madre, che venerava quei muri con le pietre annerite e solcate dai cancri verdi di umidità e da cui pendevano ragnatele enormi a forma di calza. Che passava in punta di piedi su quei mattoni lerci come il più devoto degli imam sul pavimento d’oro di una moschea. Che respirava profondamente, come fosse ossigeno partorito da foreste incontaminate, le esalazioni mefitiche di quella costruzione squallida e abbandonata, un cupo edificio a due piani con le camere disposte una dopo l’altra. Un treno fatto di stanze. Nell’ultimo ‘vagone’ trovammo quella orribile immagine scolpita che occupava quasi mezza parete: un serpente avvolto in spire. Fissai quell’immagine col fiato che mi si era bloccato nella gola. Il serpente teneva in bocca qualcosa che mi sembrò a prima vista una palla. Mi girai a guardare mia madre e lei mi parlò, prima che io potessi chiederle di cosa si trattasse. La paura non aveva offuscato del tutto la mia curiosità.
Si ha paura di ciò che non si conosce, Alessandro. Apprezzo dunque la tua voglia di sapere. Il serpente non è il mostro che la gente pensa che sia. È un essere mansueto e affettuoso, invece
mi disse con la sua voce che era poco più di un soffio, e senza staccare gli occhi dall’immagine. Sfiorò con una mano l’immagine scolpita sul muro sozzo, sorridendo con languida tenerezza. Il respiro mi restò in gola, come un sasso ghiacciato. L’espressione imperturbabile di mio padre, a cui avevo rivolto lo sguardo in cerca di aiuto, mi diceva che per lui tutto procedeva in modo regolare, invece. Ovvero che le sconvolgenti parole di apprezzamento per quel tugurio appena pronunciate da mia madre, la sua estasi di fronte a tutto quello sfacelo, il folle intento di venirci a vivere, le tenere carezze al serpente erano gesti che rientravano nella quotidiana normalità, e l’estasi di sua moglie per il tugurio era paragonabile a ciò che un appassionato di arte prova nel passeggiare nelle sale del Louvre o del Prado.
Sentii il sasso ghiacciato che avevo nella gola rotolarmi giù fino allo stomaco.
I miei genitori erano pazzi, dunque! Avvertivo dolori al petto, segno inequivocabile che il cuore stava per cedere.
Visto? Non è cattivo
mi disse mia madre, pazza e rapita dal serpente.
L’idea mi balenò in quel momento, tragica, assurda e verosimile insieme: la palla in bocca al serpente era una mela. Anzi, La mela! E i miei genitori erano la reincarnazione di Adamo ed Eva. Io, uno dei loro due figli sciagurati!
Caino oppure Abele.
Ma ero il primo o il secondo? Si chiese la mia mente sconvolta. Con questo dubbio atroce nel cuore che stava per cedere, scesi le scale consunte e lerce alle spalle di Adamo e di Eva, che mi precedevano in quel posto che doveva essere senz’altro l’inferno dove Dio li stava costringendo dopo la cacciata dall’Eden. I due derelitti, per non dar soddisfazione all’Onnipotente, facevano buon viso a cattivo gioco. Questo mi diceva la mente sconvolta. E il cuore recepì, vagliò quello che aveva appena detto la mente, riconobbe che quelle congetture avevano ottime possibilità di essere verità assolute e si mise subito a battere all’impazzata. Non cedette come avevo temuto, seppure sentissi le gambe molli e un formicolio alle braccia, come se il sangue si fosse fermato, mentre il sasso ghiacciato rotolato dalla gola allo stomaco sarebbe presto calato nelle viscere. Se non avesse ceduto il cuore, sarei morto dunque per un blocco intestinale!
Non volevo morire, seppure avere per genitori Adamo ed Eva appena scacciati dall’Eden e costretti a vivere in un orribile tugurio fosse peggio della morte. Stavo per urlare, ma di nuovo restai senza fiato. Un’immagine ancor più paurosa della morte si fermò davanti ai miei occhi, prima che potessi urlare. Adamo ed Eva mi osservavano mentre morivo, muti e immobili, indifferenti come due statue di sale. Dunque, ogni dubbio era dissipato. Ero Caino! Avevo ucciso mio fratello Abele, quello buono, servizievole e timorato di Dio, che avrebbe dato lustro e onore alla famiglia. Non meritavo che la morte nell’indifferenza e nel disprezzo dei miei genitori, dunque.
Non vedevo l’ora di uscire dal tugurio e dissipare al sole quei pensieri folli.
Sul pianerottolo trovammo una porticina che racchiudeva un bugigattolo entro il quale vi erano un bagno alla turca e un lavabo di metallo a tre piedi. Una folata d’aria fredda entrò da una piccola finestrella in alto, sollevando granelli di polvere. Per un attimo gli odori stordenti sembrarono dare tregua.
Ecco, questa sarà la stanza da bagno
disse mia madre.
La stanza da... da bagno, questa?
domandò mio padre, sbalordito. Era un buon segno. Lo guardai, pieno di speranza.
Sì, il bagno
confermò mia madre.
Ah, bene
pronunciò mio padre con un sorriso, ovvero una smorfia di sorpresa e di disgusto insieme, che bruciò la mia residua speranza
La casa è solo da ripulire. Tornerà splendida come tempo fa, vedrete.
Così disse mia madre appena fummo usciti alla luce rassicurante del giorno e al caldo primaverile.
La vecchia casa, diceva mia madre di quella che invece era stata costruita appena cinque anni prima, grande, spaziosa, luminosa, profumata dall’essenza dei tigli che bordeggiavano la strada appena fuori dal paese e riparata dal solleone estivo grazie all’ombra scura dell’Eterna, così il paese chiamava la quercia gigantesca che s’innalzava a pochi metri dalla casa. Si raccontavano strane storie su quella pianta dalla maestosità innaturale. Storie inquietanti di donne bruciate vive e di demoni che le possedevano. Ancor prima di essere finita, la casa era già abitata dal mistero e dall’ignoto, come molte case del paese, ovverosia quelle del Quarto Gliostro, vecchie e decrepite. Il tugurio stava appunto in quel quartiere dai segreti impenetrabili. La mela, il peccato originale e Dio non c’entravano. E neppure il serpente. Andare via dall’Eden era stata una decisione di Eva e quella scelta era stata la mela agra che Adamo, per amore di lei che aveva deciso di andar via, si era sorbito.
Ancor prima delle nozze, mia madre aveva dovuto prendersi cura degli ultimi tre figli di nonno Bonifacio, due maschi e una femmina, rimasti orfani appena nati. In un mattino di maggio in cui il sole era nascosto dietro una sottile benda violacea che mai s’era vista, Artemisia, la madre, non s’era svegliata. Il suo cuore si era fermato nel sonno lasciando Bonifacio con i tre piccoli nati il giorno prima. Artemisia aveva messo al mondo solo un figlio, prima che i tre gemelli le scaturissero, uno dopo l’altro, dal ventre squarciato dal cesareo, le bocche aperte e i piccoli arti che si agitavano frenetici, smuovendo l’aria asfittica di quell’estate. Nonno Bonifacio si era unito al pianto dei gemelli, sotto gli occhi attoniti del suo primo e fino ad allora unigenito figlio, allora venticinquenne e prossimo alle nozze con quella strana ragazza del Quarto Gliostro, figlia di Celestino, il barista matto, ovvero il suo peggior nemico.
Come avrebbe vissuto senza Artemisia? Si chiese nonno Bonifacio, tra uno scoppio di pianto e l’altro. Come avrebbe mantenuto quei tre piccoli esseri concepiti in quella notte di luna in cui Artemisia era tornata a essere la bambina conturbante che lo aveva sedotto ventisei anni prima?
Tutto questo si domandò, passandosi la mano sul petto in cui un fiore rosso, un buco ancora fresco e doloroso, era il ricordo della fucilata con cui aveva tentato di togliersi la vita dopo il funerale della moglie. Si sentiva debole e inutile. Non aveva nessuna voglia di far qualcosa, tantomeno di sedersi al desco per riprendere a riparare scarpe come aveva sempre fatto. Come avrebbe pagato i debiti con i muratori che avevano costruito la casa? Quella che tutti consideravano sacrilega, che i muratori del paese e perfino quelli dei dintorni s’erano rifiutati di costruire, costringendo Bonifacio a ricorrere a maestranze lontane centinaia di chilometri e che nulla sapevano della quercia millenaria, dei demoni e delle donne bruciate vive proprio nel punto dove lui aveva fatto scavare fondamenta e innalzare muri.
Bonifacio stava scontando l’affronto fatto al diavolo, diceva il paese. Quel parto assurdo e la morte fulminea di Artemisia, la notte dopo, non erano che la punizione per la sua folle sfida.
Il luogo dove sorgeva la casa era territorio del diavolo. E lui era stato così pazzo da sfidare Belzebù. Se l’era voluta. Questo disse il paese.
Bonifacio aveva superato la mezza età quando i tre gemelli vennero al mondo. La madre era morta poco dopo, il tempo di ricucirle il ventre prima liscio e bianco e ora profanato, così come era stata violata la terra che Bonifacio aveva voluto ferire scaraventando nella piaga cemento e ferro. Tre vite nuove, giunte tutte insieme nel paese che stava morendo. Non accadeva da secoli, disse il paese. Quando Artemisia gli aveva detto che era incinta, Bonifacio aveva creduto a uno scherzo della moglie, che in fondo era ancora giovane. Un altro figlio dopo molti anni gli aveva dato pensiero. Si era sentito in colpa verso sua moglie e persino verso mio padre. La serenità gli era tornata per l’incoraggiamento di Artemisia e perfino di mio padre che, in verità, un fratello o una sorella li avrebbe voluti anni prima, allorché si era sentito solo, come molti dei ragazzi del paese, figli unici come lui. C’erano tanti figli senza fratelli né sorelle in paese. E altrettante coppie che non avevano avuto neppure la soddisfazione dell’unico figlio. Troppe, per la verità. Questo era uno dei non pochi misteri sui quali il paese sembrava essere stato fondato. Tuttavia, Bonifacio non ebbe mai a impressionarsi per quello che si diceva sulla sua casa e su ciò che poi gli era accaduto. L’arrivo dei tre gemelli e la quasi simultanea morte di sua moglie non erano stati una punizione per il suo sacrilegio. La quercia millenaria, le streghe, i demoni e tutte le storie che si raccontavano erano solo idiozie. Bonifacio diceva che i suoi compaesani erano sciocchi e superstiziosi, seppure non riuscisse a dimenticare la notte in cui Artemisia gli era apparsa ai piedi del letto, bianca e fulgida alla luce lunare. Era di nuovo la piccola dea quindicenne che lo aveva sedotto venticinque anni prima. Quella notte, alla luce sfavillante della luna, lui l’aveva amata come la prima volta che l’ebbe nel suo letto, finalmente sua, la piccola dea. Quella notte in cui la luna era grande e brillava più del normale, avevano concepito i tre gemelli.
Bonifacio avrebbe voluto godersi la nuova casa. I debiti da saldare con i muratori non lo preoccupavano. A poco a poco li avrebbe pagati. Il suo mestiere di ciabattino portava buoni guadagni, seppure per poco tempo ancora. Aveva notato che la gente cominciava a buttare scarpe consumate appena, solo perché non erano più alla moda. I troppi soldi nelle tasche della gente avrebbero presto seccato la sua colla e resi inutili i suoi chiodi.
Anche suo figlio avrebbe contribuito a pagare il debito della casa che un giorno sarebbe stata anche sua e di quella ragazza dello Gliostro che stava per prendere come moglie. Ecco! Questo sì che gli dava pensiero! Quella ragazza che sarebbe diventata sua nuora, strana come tutti gli abitanti dello Gliostro. E questo era il meno. Ciò che lo rendeva davvero nervoso era che fosse la figlia di quel pazzo di Celestino il barista. Buon sangue non mente, ma neppure il cattivo! Bonifacio era sicuro che alla ragazza mancasse più di qualche rotella, visto che suo padre le aveva perse del tutto. Aveva tentato di convincere quel testone di suo figlio a non prenderla in moglie, e ciò non solo per il fatto che lui e Celestino si odiassero a morte da sempre. Non si rendeva conto del pericolo che correva. Non aveva voluto sentire ragione neppure quando lui gli aveva parlato del codice genetico. Quella ragazza era folle come suo padre e sua madre, e come la maggior parte di quelli del Quarto Gliostro! Con molta probabilità, anzi con assoluta certezza, avrebbe avuto un figlio pazzo. Dunque, sarebbe stata una grazia divina se la coppia fosse stata tra quelle sterili di cui il paese abbondava. E in questo aveva sperato, in cuor suo.
Bonifacio aveva inoltre fondati dubbi sul fatto che quella ragazza sarebbe venuta ad abitare con loro. Ogni volta che suo figlio la portava a vedere la casa in costruzione lei diventava inquieta, quasi smaniosa, e non vedeva l’ora di andar via, come se quel posto e quella casa le causassero dolore.
Già! I matti del paese erano tutti rintanati in quel manicomio a cielo aperto che era lo Gliostro, e lui avrebbe avuto come nuora quella ragazza, figlia di gente strana e ribelle, superstiziosa e crudele. E se la grazia