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L'ultima luna
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E-book246 pagine3 ore

L'ultima luna

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Info su questo ebook

"Abbondanti riferimenti storici e curiosi elementi fantastici si intrecciano in una combinazione intrigante, dando vita ad un romanzo corale…"

"Il libro di Carrea persegue una sola grande verità: non possiamo più restare fermi a vedere come la creatività venga imbrigliata dalla razionalità. Il romanzo pertanto risulta una lettura piacevole e avvincente che colpisce il lettore sin dalle prime pagine grazie all'atmosfera intrisa di mistero, il linguaggio colorito e il connubio ben riuscito fra riferimenti storici e l'ambientazione fantastica." Recensione di Grace Di Mauro – IL MONDO INCANTATO DEI LIBRI.

"Lo ammetto, se non avessi avuto una recensione da consegnare alla fine della lettura, probabilmente avrei mollato dopo le prime venti pagine e sarebbe stato un peccato". "In bilico tra la leggenda e la cronaca, tra il ricordo e il presente, questa storia si dipana con pazienza, grazie alla curiosità e al coinvolgimento che crescono lentamente ma inesorabili pagina dopo pagina ". DALIDA LORENZI – BABETTE BROWN LEGGE PER VOI.
LinguaItaliano
Data di uscita17 mar 2020
ISBN9788831661874
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    Anteprima del libro

    L'ultima luna - Camillo Carrea

    633/1941.

    PREFAZIONE

    Leg­gen­do ‘L’ul­ti­ma Lu­na’ ho im­ma­gi­na­to di ve­der­la bril­la­re sul mio pae­se nel­le not­ti d’esta­te che ave­va­no il cal­do del­le mas­se­rie, i ri­tor­nel­li di can­zo­ni da do­na­re al­la pro­pria bel­la, le ci­ca­le as­sor­dan­ti per ri­chia­ma­re lo sci­roc­co e le luc­cio­le a il­lu­mi­na­re mag­gio, tra il gra­no ve­sti­to di ver­de e di ros­si pa­pa­ve­ri a gi­ra­re i gi­ra­so­li al so­le che mi­ra la sua lu­na. Poi, mi so­no ac­cor­ta d’es­ser ri­ma­sta so­spe­sa, tra ogni ri­go di pun­teg­gia­tu­ra, in­tri­sa dal­le pa­ro­le, tan­to da tor­na­re a ca­po e con­ti­nua­re un viag­gio che di gior­no rin­cor­re la not­te per se­der­si e guar­da­re la Lu­na. Ogni Lu­na è Lu­na nuo­va, an­che al suo tra­mon­ta­re: ri­co­no­sce il cie­lo che l’ac­co­glie e la ter­ra che la rac­con­ta tra i vi­co­li.

    Una ric­ca me­mo­ria per­va­de que­sto rac­con­to di Ca­mil­lo Car­rea: un ri­cor­do ri­cor­ren­te, qua­si vis­su­to nel rac­con­tar­lo, co­me un fla­sh back tra il nar­ra­to­re di og­gi e il pro­ta­go­ni­sta d’al­lo­ra. Vi­ve­re è nar­ra­re le vo­ci tra le stra­de, le leg­gen­de, i do­lo­ri, gli odo­ri, i suo­ni, l’amo­re, la mor­te, le can­zo­ni.

    Il va­lo­re di ogni uo­mo rac­con­ta la leg­gen­da di ogni don­na ama­ta co­me Dea o co­me l’Idea di el­la in quel­la sud­di­tan­za d’epo­ca che si ri­pe­te nel tem­po con trat­ti di­ver­si, e se­gue il co­mu­ne pen­sa­re al­la don­na co­me co­lei che ge­ne­ra vi­ta e guer­ra al­lo stes­so tem­po. La so­stan­za di ciò che ac­ca­de chiu­de l’uo­mo tra il ma­le e il be­ne, co­me Cai­no e Abe­le, chie­den­do­ci sem­pre chi sia in noi a pren­de­re il so­prav­ven­to, co­me la sto­ria di Ada­mo ed Eva, la don­na ten­ta­tri­ce, a sua vol­ta vit­ti­ma del ser­pen­te, che ne ‘L’ul­ti­ma lu­na’ non è ten­ta­to­re, né ter­ri­fi­can­te.

    La ma­gia re­gna nel rac­con­to, co­me la Lu­na in luo­ghi mi­sti­ci, do­ve le leg­gen­de del pae­se pren­do­no for­ma da epi­so­di tra­man­da­ti e vis­su­ti da tut­ti i nu­me­ro­si per­so­nag­gi.

    La ric­chez­za di ogni pro­ta­go­ni­sta ha un va­lo­re de­ter­mi­nan­te a li­vel­lo fi­lan­tro­pi­co. L’ab­ban­do­no e la so­li­tu­di­ne han­no la lo­ro ri­vin­ci­ta nel­la Vi­ta che nar­ra Ca­mil­lo Car­rea ne ‘L’Ul­ti­ma Lu­na’.

    Ma­rian­na Del­la Pen­na

    Lu­na

    Tu mi hai man­da­to la Lu­na,

    a re­ga­lar­mi il pal­lo­re,

    in quel­la cur­va di schie­na

    ru­ba­ta al­la Ter­ra

    re­spi­ra­no i Ven­ti

    sen­za sof­fia­re...

    In quei cra­te­ri

    ru­ba­ti ai Vul­ca­ni,

    il Fuo­co sof­fo­ca

    ogni la­pil­lo...

    In quel­le Ma­ree

    ru­ba­te al­le ma­ghe

    si pre­ve­de l'Amo­re.

    Quie­te d'an­sia te­nue,

    pre­me l'oscu­ri­tà,

    ad ogni so­gno

    ver­sa le stel­le

    Ma­rian­na Del­la Pen­na

    CAPITOLO PRIMO

    Era il ter­zo lu­ne­dì di se­gui­to che da­va­no un film con Hum­ph­rey Bo­gart.

    Lo zio Vir­gi­lio se ne sta­va se­du­to co­me sem­pre sul­la pol­tro­na co­lor se­na­pe nel sa­lot­to del­la nuo­va ca­sa. Nuo­va per co­sì di­re, per­ché la ca­sa era vec­chia. Vec­chia, e non an­ti­ca, co­me dis­se mia ma­dre quan­do la vi­si­tam­mo per la pri­ma vol­ta e un’espres­sio­ne di de­li­zia le il­lu­mi­nò il vi­so men­tre os­ser­va­va le pie­tre an­ne­ri­te dei mu­ri, le chiaz­ze ver­di di umi­di­tà, la pol­ve­re gra­nu­lo­sa e bi­gia che am­man­ta­va le mi­se­re sup­pel­let­ti­li. Gli odo­ri for­ti che esa­la­va­no da tut­to quel­lo sfa­ce­lo, il pa­vi­men­to con i mat­to­ni mal­fer­mi sul qua­le zop­pi­ca­va­mo non di­stol­se­ro mia ma­dre dal suo in­can­to, fi­no al mo­men­to in cui si vol­tò ver­so di noi e chie­se:

    Vi pia­ce, ve­ro?

    Ba­glio­ri az­zur­ri­ni le guiz­za­va­no ne­gli oc­chi che fi­no a un mo­men­to pri­ma do­ve­va­no aver con­tem­pla­to i luo­ghi mi­ste­rio­si ai qua­li es­sa ap­par­te­ne­va. Di­stol­si lo sguar­do da un pun­to del­la pa­re­te da cui pen­de­va un’enor­me ra­gna­te­la a for­ma di cal­za, buo­na per la gam­ba di una gi­gan­tes­sa, op­pu­re per un bam­bi­no che con­fi­da­va trop­po sul­la ge­ne­ro­si­tà del­la be­fa­na.

    Cer­to le ri­spo­se mio pa­dre con un sor­ri­so che mi get­tò nel­la di­spe­ra­zio­ne. Quel­la pa­ro­la era di­fat­ti la cer­tez­za as­so­lu­ta che quel tu­gu­rio sa­reb­be di­ven­ta­to la no­stra ca­sa!

    Ma è dav­ve­ro qui che dob­bia­mo ve­ni­re a sta­re?

    La mia do­man­da era una nu­vo­la ne­ra che flut­tuò ina­scol­ta­ta nell’aria pre­gna di odo­ri stor­den­ti e di pol­ve­re vec­chia di de­cen­ni, se non di se­co­li. Rin­ghiai di nuo­vo, ri­vol­to all’ete­rea ge­ni­tri­ce.

    Mi­ca è qui che do­vre­mo ve­ni­re a sta­re, mam­ma?

    Lei si gi­rò ver­so di me, fis­san­do­mi con i ba­glio­ri az­zur­ri­ni. Mia ma­dre, che ve­ne­ra­va quei mu­ri con le pie­tre an­ne­ri­te e sol­ca­te dai can­cri ver­di di umi­di­tà e da cui pen­de­va­no ra­gna­te­le enor­mi a for­ma di cal­za. Che pas­sa­va in pun­ta di pie­di su quei mat­to­ni ler­ci co­me il più de­vo­to de­gli imam sul pa­vi­men­to d’oro di una mo­schea. Che re­spi­ra­va pro­fon­da­men­te, co­me fos­se os­si­ge­no par­to­ri­to da fo­re­ste in­con­ta­mi­na­te, le esa­la­zio­ni me­fi­ti­che di quel­la co­stru­zio­ne squal­li­da e ab­ban­do­na­ta, un cu­po edi­fi­cio a due pia­ni con le ca­me­re di­spo­ste una do­po l’al­tra. Un tre­no fat­to di stan­ze. Nell’ul­ti­mo ‘va­go­ne’ tro­vam­mo quel­la or­ri­bi­le im­ma­gi­ne scol­pi­ta che oc­cu­pa­va qua­si mez­za pa­re­te: un ser­pen­te av­vol­to in spi­re. Fis­sai quell’im­ma­gi­ne col fia­to che mi si era bloc­ca­to nel­la go­la. Il ser­pen­te te­ne­va in boc­ca qual­co­sa che mi sem­brò a pri­ma vi­sta una pal­la. Mi gi­rai a guar­da­re mia ma­dre e lei mi par­lò, pri­ma che io po­tes­si chie­der­le di co­sa si trat­tas­se. La pau­ra non ave­va of­fu­sca­to del tut­to la mia cu­rio­si­tà.

    Si ha pau­ra di ciò che non si co­no­sce, Ales­san­dro. Ap­prez­zo dun­que la tua vo­glia di sa­pe­re. Il ser­pen­te non è il mo­stro che la gen­te pen­sa che sia. È un es­se­re man­sue­to e af­fet­tuo­so, in­ve­ce mi dis­se con la sua vo­ce che era po­co più di un sof­fio, e sen­za stac­ca­re gli oc­chi dall’im­ma­gi­ne. Sfio­rò con una ma­no l’im­ma­gi­ne scol­pi­ta sul mu­ro soz­zo, sor­ri­den­do con lan­gui­da te­ne­rez­za. Il re­spi­ro mi re­stò in go­la, co­me un sas­so ghiac­cia­to. L’espres­sio­ne im­per­tur­ba­bi­le di mio pa­dre, a cui ave­vo ri­vol­to lo sguar­do in cer­ca di aiu­to, mi di­ce­va che per lui tut­to pro­ce­de­va in mo­do re­go­la­re, in­ve­ce. Ov­ve­ro che le scon­vol­gen­ti pa­ro­le di ap­prez­za­men­to per quel tu­gu­rio ap­pe­na pro­nun­cia­te da mia ma­dre, la sua esta­si di fron­te a tut­to quel­lo sfa­ce­lo, il fol­le in­ten­to di ve­nir­ci a vi­ve­re, le te­ne­re ca­rez­ze al ser­pen­te era­no ge­sti che rien­tra­va­no nel­la quo­ti­dia­na nor­ma­li­tà, e l’esta­si di sua mo­glie per il tu­gu­rio era pa­ra­go­na­bi­le a ciò che un ap­pas­sio­na­to di ar­te pro­va nel pas­seg­gia­re nel­le sa­le del Lou­vre o del Pra­do.

    Sen­tii il sas­so ghiac­cia­to che ave­vo nel­la go­la ro­to­lar­mi giù fi­no al­lo sto­ma­co.

    I miei ge­ni­to­ri era­no paz­zi, dun­que! Av­ver­ti­vo do­lo­ri al pet­to, se­gno ine­qui­vo­ca­bi­le che il cuo­re sta­va per ce­de­re.

    Vi­sto? Non è cat­ti­vo mi dis­se mia ma­dre, paz­za e ra­pi­ta dal ser­pen­te.

    L’idea mi ba­le­nò in quel mo­men­to, tra­gi­ca, as­sur­da e ve­ro­si­mi­le in­sie­me: la pal­la in boc­ca al ser­pen­te era una me­la. An­zi, La me­la! E i miei ge­ni­to­ri era­no la rein­car­na­zio­ne di Ada­mo ed Eva. Io, uno dei lo­ro due fi­gli scia­gu­ra­ti!

    Cai­no op­pu­re Abe­le.

    Ma ero il pri­mo o il se­con­do? Si chie­se la mia men­te scon­vol­ta. Con que­sto dub­bio atro­ce nel cuo­re che sta­va per ce­de­re, sce­si le sca­le con­sun­te e ler­ce al­le spal­le di Ada­mo e di Eva, che mi pre­ce­de­va­no in quel po­sto che do­ve­va es­se­re senz’al­tro l’in­fer­no do­ve Dio li sta­va co­strin­gen­do do­po la cac­cia­ta dall’Eden. I due de­re­lit­ti, per non dar sod­di­sfa­zio­ne all’On­ni­po­ten­te, fa­ce­va­no buon vi­so a cat­ti­vo gio­co. Que­sto mi di­ce­va la men­te scon­vol­ta. E il cuo­re re­ce­pì, va­gliò quel­lo che ave­va ap­pe­na det­to la men­te, ri­co­nob­be che quel­le con­get­tu­re ave­va­no ot­ti­me pos­si­bi­li­tà di es­se­re ve­ri­tà as­so­lu­te e si mi­se su­bi­to a bat­te­re all’im­paz­za­ta. Non ce­det­te co­me ave­vo te­mu­to, sep­pu­re sen­tis­si le gam­be mol­li e un for­mi­co­lio al­le brac­cia, co­me se il san­gue si fos­se fer­ma­to, men­tre il sas­so ghiac­cia­to ro­to­la­to dal­la go­la al­lo sto­ma­co sa­reb­be pre­sto ca­la­to nel­le vi­sce­re. Se non aves­se ce­du­to il cuo­re, sa­rei mor­to dun­que per un bloc­co in­te­sti­na­le!

    Non vo­le­vo mo­ri­re, sep­pu­re ave­re per ge­ni­to­ri Ada­mo ed Eva ap­pe­na scac­cia­ti dall’Eden e co­stret­ti a vi­ve­re in un or­ri­bi­le tu­gu­rio fos­se peg­gio del­la mor­te. Sta­vo per ur­la­re, ma di nuo­vo re­stai sen­za fia­to. Un’im­ma­gi­ne an­cor più pau­ro­sa del­la mor­te si fer­mò da­van­ti ai miei oc­chi, pri­ma che po­tes­si ur­la­re. Ada­mo ed Eva mi os­ser­va­va­no men­tre mo­ri­vo, mu­ti e im­mo­bi­li, in­dif­fe­ren­ti co­me due sta­tue di sa­le. Dun­que, ogni dub­bio era dis­si­pa­to. Ero Cai­no! Ave­vo uc­ci­so mio fra­tel­lo Abe­le, quel­lo buo­no, ser­vi­zie­vo­le e ti­mo­ra­to di Dio, che avreb­be da­to lu­stro e ono­re al­la fa­mi­glia. Non me­ri­ta­vo che la mor­te nell’in­dif­fe­ren­za e nel di­sprez­zo dei miei ge­ni­to­ri, dun­que.

    Non ve­de­vo l’ora di usci­re dal tu­gu­rio e dis­si­pa­re al so­le quei pen­sie­ri fol­li.

    Sul pia­ne­rot­to­lo tro­vam­mo una por­ti­ci­na che rac­chiu­de­va un bu­gi­gat­to­lo en­tro il qua­le vi era­no un ba­gno al­la tur­ca e un la­va­bo di me­tal­lo a tre pie­di. Una fo­la­ta d’aria fred­da en­trò da una pic­co­la fi­ne­strel­la in al­to, sol­le­van­do gra­nel­li di pol­ve­re. Per un at­ti­mo gli odo­ri stor­den­ti sem­bra­ro­no da­re tre­gua.

    Ec­co, que­sta sa­rà la stan­za da ba­gno dis­se mia ma­dre.

    La stan­za da... da ba­gno, que­sta? do­man­dò mio pa­dre, sba­lor­di­to. Era un buon se­gno. Lo guar­dai, pie­no di spe­ran­za.

    Sì, il ba­gno con­fer­mò mia ma­dre.

    Ah, be­ne pro­nun­ciò mio pa­dre con un sor­ri­so, ov­ve­ro una smor­fia di sor­pre­sa e di di­sgu­sto in­sie­me, che bru­ciò la mia re­si­dua spe­ran­za

    La ca­sa è so­lo da ri­pu­li­re. Tor­ne­rà splen­di­da co­me tem­po fa, ve­dre­te.

    Co­sì dis­se mia ma­dre ap­pe­na fum­mo usci­ti al­la lu­ce ras­si­cu­ran­te del gior­no e al cal­do pri­ma­ve­ri­le.

    La vec­chia ca­sa, di­ce­va mia ma­dre di quel­la che in­ve­ce era sta­ta co­strui­ta ap­pe­na cin­que an­ni pri­ma, gran­de, spa­zio­sa, lu­mi­no­sa, pro­fu­ma­ta dall’es­sen­za dei ti­gli che bor­deg­gia­va­no la stra­da ap­pe­na fuo­ri dal pae­se e ri­pa­ra­ta dal sol­leo­ne esti­vo gra­zie all’om­bra scu­ra dell’Eter­na, co­sì il pae­se chia­ma­va la quer­cia gi­gan­te­sca che s’in­nal­za­va a po­chi me­tri dal­la ca­sa. Si rac­con­ta­va­no stra­ne sto­rie su quel­la pian­ta dal­la mae­sto­si­tà in­na­tu­ra­le. Sto­rie in­quie­tan­ti di don­ne bru­cia­te vi­ve e di de­mo­ni che le pos­se­de­va­no. An­cor pri­ma di es­se­re fi­ni­ta, la ca­sa era già abi­ta­ta dal mi­ste­ro e dall’igno­to, co­me mol­te ca­se del pae­se, ov­ve­ro­sia quel­le del Quar­to Glio­stro, vec­chie e de­cre­pi­te. Il tu­gu­rio sta­va ap­pun­to in quel quar­tie­re dai se­gre­ti im­pe­ne­tra­bi­li. La me­la, il pec­ca­to ori­gi­na­le e Dio non c’en­tra­va­no. E nep­pu­re il ser­pen­te. An­da­re via dall’Eden era sta­ta una de­ci­sio­ne di Eva e quel­la scel­ta era sta­ta la me­la agra che Ada­mo, per amo­re di lei che ave­va de­ci­so di an­dar via, si era sor­bi­to.

    An­cor pri­ma del­le noz­ze, mia ma­dre ave­va do­vu­to pren­der­si cu­ra de­gli ul­ti­mi tre fi­gli di non­no Bo­ni­fa­cio, due ma­schi e una fem­mi­na, ri­ma­sti or­fa­ni ap­pe­na na­ti. In un mat­ti­no di mag­gio in cui il so­le era na­sco­sto die­tro una sot­ti­le ben­da vio­la­cea che mai s’era vi­sta, Ar­te­mi­sia, la ma­dre, non s’era sve­glia­ta. Il suo cuo­re si era fer­ma­to nel son­no la­scian­do Bo­ni­fa­cio con i tre pic­co­li na­ti il gior­no pri­ma. Ar­te­mi­sia ave­va mes­so al mon­do so­lo un fi­glio, pri­ma che i tre ge­mel­li le sca­tu­ris­se­ro, uno do­po l’al­tro, dal ven­tre squar­cia­to dal ce­sa­reo, le boc­che aper­te e i pic­co­li ar­ti che si agi­ta­va­no fre­ne­ti­ci, smuo­ven­do l’aria asfit­ti­ca di quell’esta­te. Non­no Bo­ni­fa­cio si era uni­to al pian­to dei ge­mel­li, sot­to gli oc­chi at­to­ni­ti del suo pri­mo e fi­no ad al­lo­ra uni­ge­ni­to fi­glio, al­lo­ra ven­ti­cin­quen­ne e pros­si­mo al­le noz­ze con quel­la stra­na ra­gaz­za del Quar­to Glio­stro, fi­glia di Ce­le­sti­no, il ba­ri­sta mat­to, ov­ve­ro il suo peg­gior ne­mi­co.

    Co­me avreb­be vis­su­to sen­za Ar­te­mi­sia? Si chie­se non­no Bo­ni­fa­cio, tra uno scop­pio di pian­to e l’al­tro. Co­me avreb­be man­te­nu­to quei tre pic­co­li es­se­ri con­ce­pi­ti in quel­la not­te di lu­na in cui Ar­te­mi­sia era tor­na­ta a es­se­re la bam­bi­na con­tur­ban­te che lo ave­va se­dot­to ven­ti­sei an­ni pri­ma?

    Tut­to que­sto si do­man­dò, pas­san­do­si la ma­no sul pet­to in cui un fio­re ros­so, un bu­co an­co­ra fre­sco e do­lo­ro­so, era il ri­cor­do del­la fu­ci­la­ta con cui ave­va ten­ta­to di to­glier­si la vi­ta do­po il fu­ne­ra­le del­la mo­glie. Si sen­ti­va de­bo­le e inu­ti­le. Non ave­va nes­su­na vo­glia di far qual­co­sa, tan­to­me­no di se­der­si al de­sco per ri­pren­de­re a ri­pa­ra­re scar­pe co­me ave­va sem­pre fat­to. Co­me avreb­be pa­ga­to i de­bi­ti con i mu­ra­to­ri che ave­va­no co­strui­to la ca­sa? Quel­la che tut­ti con­si­de­ra­va­no sa­cri­le­ga, che i mu­ra­to­ri del pae­se e per­fi­no quel­li dei din­tor­ni s’era­no ri­fiu­ta­ti di co­strui­re, co­strin­gen­do Bo­ni­fa­cio a ri­cor­re­re a mae­stran­ze lon­ta­ne cen­ti­na­ia di chi­lo­me­tri e che nul­la sa­pe­va­no del­la quer­cia mil­le­na­ria, dei de­mo­ni e del­le don­ne bru­cia­te vi­ve pro­prio nel pun­to do­ve lui ave­va fat­to sca­va­re fon­da­men­ta e in­nal­za­re mu­ri.

    Bo­ni­fa­cio sta­va scon­tan­do l’af­fron­to fat­to al dia­vo­lo, di­ce­va il pae­se. Quel par­to as­sur­do e la mor­te ful­mi­nea di Ar­te­mi­sia, la not­te do­po, non era­no che la pu­ni­zio­ne per la sua fol­le sfi­da.

    Il luo­go do­ve sor­ge­va la ca­sa era ter­ri­to­rio del dia­vo­lo. E lui era sta­to co­sì paz­zo da sfi­da­re Bel­ze­bù. Se l’era vo­lu­ta. Que­sto dis­se il pae­se.

    Bo­ni­fa­cio ave­va su­pe­ra­to la mez­za età quan­do i tre ge­mel­li ven­ne­ro al mon­do. La ma­dre era mor­ta po­co do­po, il tem­po di ri­cu­cir­le il ven­tre pri­ma li­scio e bian­co e ora pro­fa­na­to, co­sì co­me era sta­ta vio­la­ta la ter­ra che Bo­ni­fa­cio ave­va vo­lu­to fe­ri­re sca­ra­ven­tan­do nel­la pia­ga ce­men­to e fer­ro. Tre vi­te nuo­ve, giun­te tut­te in­sie­me nel pae­se che sta­va mo­ren­do. Non ac­ca­de­va da se­co­li, dis­se il pae­se. Quan­do Ar­te­mi­sia gli ave­va det­to che era in­cin­ta, Bo­ni­fa­cio ave­va cre­du­to a uno scher­zo del­la mo­glie, che in fon­do era an­co­ra gio­va­ne. Un al­tro fi­glio do­po mol­ti an­ni gli ave­va da­to pen­sie­ro. Si era sen­ti­to in col­pa ver­so sua mo­glie e per­si­no ver­so mio pa­dre. La se­re­ni­tà gli era tor­na­ta per l’in­co­rag­gia­men­to di Ar­te­mi­sia e per­fi­no di mio pa­dre che, in ve­ri­tà, un fra­tel­lo o una so­rel­la li avreb­be vo­lu­ti an­ni pri­ma, al­lor­ché si era sen­ti­to so­lo, co­me mol­ti dei ra­gaz­zi del pae­se, fi­gli uni­ci co­me lui. C’era­no tan­ti fi­gli sen­za fra­tel­li né so­rel­le in pae­se. E al­tret­tan­te cop­pie che non ave­va­no avu­to nep­pu­re la sod­di­sfa­zio­ne dell’uni­co fi­glio. Trop­pe, per la ve­ri­tà. Que­sto era uno dei non po­chi mi­ste­ri sui qua­li il pae­se sem­bra­va es­se­re sta­to fon­da­to. Tut­ta­via, Bo­ni­fa­cio non eb­be mai a im­pres­sio­nar­si per quel­lo che si di­ce­va sul­la sua ca­sa e su ciò che poi gli era ac­ca­du­to. L’ar­ri­vo dei tre ge­mel­li e la qua­si si­mul­ta­nea mor­te di sua mo­glie non era­no sta­ti una pu­ni­zio­ne per il suo sa­cri­le­gio. La quer­cia mil­le­na­ria, le stre­ghe, i de­mo­ni e tut­te le sto­rie che si rac­con­ta­va­no era­no so­lo idio­zie. Bo­ni­fa­cio di­ce­va che i suoi com­pae­sa­ni era­no scioc­chi e su­per­sti­zio­si, sep­pu­re non riu­scis­se a di­men­ti­ca­re la not­te in cui Ar­te­mi­sia gli era ap­par­sa ai pie­di del let­to, bian­ca e ful­gi­da al­la lu­ce lu­na­re. Era di nuo­vo la pic­co­la dea quin­di­cen­ne che lo ave­va se­dot­to ven­ti­cin­que an­ni pri­ma. Quel­la not­te, al­la lu­ce sfa­vil­lan­te del­la lu­na, lui l’ave­va ama­ta co­me la pri­ma vol­ta che l’eb­be nel suo let­to, fi­nal­men­te sua, la pic­co­la dea. Quel­la not­te in cui la lu­na era gran­de e bril­la­va più del nor­ma­le, ave­va­no con­ce­pi­to i tre ge­mel­li.

    Bo­ni­fa­cio avreb­be vo­lu­to go­der­si la nuo­va ca­sa. I de­bi­ti da sal­da­re con i mu­ra­to­ri non lo pre­oc­cu­pa­va­no. A po­co a po­co li avreb­be pa­ga­ti. Il suo me­stie­re di cia­bat­ti­no por­ta­va buo­ni gua­da­gni, sep­pu­re per po­co tem­po an­co­ra. Ave­va no­ta­to che la gen­te co­min­cia­va a but­ta­re scar­pe con­su­ma­te ap­pe­na, so­lo per­ché non era­no più al­la mo­da. I trop­pi sol­di nel­le ta­sche del­la gen­te avreb­be­ro pre­sto sec­ca­to la sua col­la e re­si inu­ti­li i suoi chio­di.

    An­che suo fi­glio avreb­be con­tri­bui­to a pa­ga­re il de­bi­to del­la ca­sa che un gior­no sa­reb­be sta­ta an­che sua e di quel­la ra­gaz­za del­lo Glio­stro che sta­va per pren­de­re co­me mo­glie. Ec­co! Que­sto sì che gli da­va pen­sie­ro! Quel­la ra­gaz­za che sa­reb­be di­ven­ta­ta sua nuo­ra, stra­na co­me tut­ti gli abi­tan­ti del­lo Glio­stro. E que­sto era il me­no. Ciò che lo ren­de­va dav­ve­ro ner­vo­so era che fos­se la fi­glia di quel paz­zo di Ce­le­sti­no il ba­ri­sta. Buon san­gue non men­te, ma nep­pu­re il cat­ti­vo! Bo­ni­fa­cio era si­cu­ro che al­la ra­gaz­za man­cas­se più di qual­che ro­tel­la, vi­sto che suo pa­dre le ave­va per­se del tut­to. Ave­va ten­ta­to di con­vin­ce­re quel te­sto­ne di suo fi­glio a non pren­der­la in mo­glie, e ciò non so­lo per il fat­to che lui e Ce­le­sti­no si odias­se­ro a mor­te da sem­pre. Non si ren­de­va con­to del pe­ri­co­lo che cor­re­va. Non ave­va vo­lu­to sen­ti­re ra­gio­ne nep­pu­re quan­do lui gli ave­va par­la­to del co­di­ce ge­ne­ti­co. Quel­la ra­gaz­za era fol­le co­me suo pa­dre e sua ma­dre, e co­me la mag­gior par­te di quel­li del Quar­to Glio­stro! Con mol­ta pro­ba­bi­li­tà, an­zi con as­so­lu­ta cer­tez­za, avreb­be avu­to un fi­glio paz­zo. Dun­que, sa­reb­be sta­ta una gra­zia di­vi­na se la cop­pia fos­se sta­ta tra quel­le ste­ri­li di cui il pae­se ab­bon­da­va. E in que­sto ave­va spe­ra­to, in cuor suo.

    Bo­ni­fa­cio ave­va inol­tre fon­da­ti dub­bi sul fat­to che quel­la ra­gaz­za sa­reb­be ve­nu­ta ad abi­ta­re con lo­ro. Ogni vol­ta che suo fi­glio la por­ta­va a ve­de­re la ca­sa in co­stru­zio­ne lei di­ven­ta­va in­quie­ta, qua­si sma­nio­sa, e non ve­de­va l’ora di an­dar via, co­me se quel po­sto e quel­la ca­sa le cau­sas­se­ro do­lo­re.

    Già! I mat­ti del pae­se era­no tut­ti rin­ta­na­ti in quel ma­ni­co­mio a cie­lo aper­to che era lo Glio­stro, e lui avreb­be avu­to co­me nuo­ra quel­la ra­gaz­za, fi­glia di gen­te stra­na e ri­bel­le, su­per­sti­zio­sa e cru­de­le. E se la gra­zia

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