Più di là che di qua
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Anteprima del libro
Più di là che di qua - Giosuè Boetto Cohen
Nota dell’autore
Ai romanzi brevi e ai racconti, di solito, non serve una prefazione. Il lettore può tuffarsi tranquillamente nella storia, che anche se è profonda vive in poche pagine, e deve giocarsele bene fin dall’inizio. La regola vale anche qui, a maggior ragione perché quello che avrebbe potuto essere un prologo era già stato speso nel primo capitolo, e a questo punto non c’era molto altro da far precedere.
La storia del dottor Zenoni - hanno detto i lettori-cavia con cui l’abbiamo saggiata - si legge in una notte. E non solo perché è snella e le manca la prefazione. Pare vada giù abbastanza d’un fiato. E questo è un bene perché - dice il protagonista - è una di quelle storie che non poteva non essere raccontata. Se fosse rimasta una memoria intima, i fatti avrebbero perso una parte della loro valenza. E lasciato nel dubbio colui che li ha intensamente vissuti.
Giunto più di là, che di qua
, il dottor Zenoni avrebbe potuto benissimo continuare verso ciò che stava iniziando a scorgere. Anzi, lui lo desiderava proprio. Ma qualcosa si è messo di traverso e lo ha rimandato al mittente. Perché? E con quali conseguenze?
Aver immaginato questo racconto cerca di dare ragioni al quesito e all’uomo che lo ha posto. Ma non solo: altri compagni di strada fanno la loro comparsa in queste paginette, partecipi appassionati o spettatori casuali della vicenda, e di altre affatto lontane. Ma che, guardate in trasparenza, potrebbero anche essere legate. E persino il narratore, che si accinge al suo compito con misura e qualche riluttanza, perderà alla fine un po’ di questa e di quella.
PIÙ DI LÀ
CHE DI QUA
1
Incredibile.
La mia amica Melina se n’era andata. Amica, sorella maggiore, mamma-mancata, consulente e consigliera: trentacinque anni senza mai smettere di vederci, o sentirci, almeno una volta alla settimana. Lei perennemente acciaccata e proprio per questo un po’ meno credibile nelle sue lamentazioni, persino negli ultimi anni, nella guerra al tumore. Che sì era stato grave, e imperscrutabile come tutti i cancri. Ma alla fine l’aveva lasciata vivere, un po’ più acciaccata di prima, ma in piedi, iperattiva e ben radicata in questo mondo.
Fino a quella sera d’agosto.
Se c’era una persona per cui il confine della psicosomatica era difficile da tracciare, questa era Melina.
Provata, senza dubbio; tormentata per mesi e anni, certamente; da patologie più che concrete, ovvio. Ma, ai miei occhi, anche per colpa dei guai che ogni tanto si costruiva da sola. Grane vere o proiezioni di grane, piccole e grandi, nate per conto loro o andate a cercare, senza le quali Melina sembrava non poter sopravvivere. Problemi personali e quelli di tutti i suoi badati
, un plotone di afflitti, a cui si aggiungevano sempre nuovi aspiranti, man mano che uno, magari, riusciva a sfangarla. E lei costantemente pronta, generosa oltre il dovuto, a suo modo autentica. Sommando i malanni degli altri ai propri era chiaro che si poteva mettere insieme un caso di cronicità perfetta, che mai sarebbe guarito e contro il quale erano inutili molti dei ragionamenti che io, affettuosamente ma pedantemente, tornavo ogni tanto a proporle.
E invece Melina se n’era andata. Dopo qualche settimana di fiacca peggiore delle altre, aggravata dalla calura estiva e dalla depressione strisciante che sei mesi di pandemia stavano seminando per Milano. Ma da qui a morirsene, in cinque minuti, guardando la televisione a letto…
Al funerale eravamo in pochi perché era agosto, c’era ancora il virus e forse perché molti degli amici e badati non erano, in fondo, così amici. I famigliari si prendevano buona cura di Pino, il marito di Melina, che anche se camminava e parlava continuamente con tutti era a pezzi. Gli stessi legami che me la rendevano cara valevano per lui, avrei voluto abbracciarlo, ascoltarlo, ma in quel momento la famiglia aveva una precedenza – in modo sincero, mi parve – mentre io, che conoscevo i parenti solo di vista, dovevo stare in disparte.
Da lontano, davanti alla chiesa riconobbi un vecchio amico di Pino e Melina. Con lui non ci eravamo mai frequentati, ma lo avevo incontrato, tanti anni prima, in una situazione che poi era diventata grottesca. Soprattutto ricordavo – perché me ne avevano parlato tanto - alcuni aneddoti della sua vita, e molto delle cose fatte insieme ai miei amici. L’ultima era stata un lavoro ambizioso, una banca dati per il Web, in cui Melina si era lanciata a capofitto, qualche anno prima, aggiungendo il suo formidabile, infaticabile contributo.
Mi avvicinai a Gian Andrea, che se ne stava anche lui solo, nel triangolo d’ombra che gli aggetti della facciata offrivano ai dolenti.
«Buongiorno… si ricorda? Sono Giosuè…»
Sorriso di risposta, ma appena accennato.
«Si… mi pare…»
Non ero mai riuscito a provare una simpatia incondizionata per questo signore. Grande professionista, esperto di successo nel suo ramo, perdeva qualche punto per certe sue manie di agi e debolezze. Nei resoconti dei miei amici, famose erano le sue calze sempre di cachemire, i portaombrelli ricavati nel piede di un elefante sparato in Africa, le partite di golf a metà settimana. E persino l’aereo privato con pilota, che poi, alla fine, era diventato davvero troppo e si era dovuto vendere.
Ma per me, in quel momento, Gian Andrea era solo il benvenuto: un’ancora contro l’impaccio della triste situazione, di quella solitudine inquieta e forse qualcosa di più. Anche