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I fantasmi non invecchiano
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I fantasmi non invecchiano
E-book339 pagine5 ore

I fantasmi non invecchiano

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Info su questo ebook

«Non dovete temere il passato, e neppure il futuro. Che cosa abbiamo tra le mani, signora, se non il momento che scorre come l'onda limpida in un fiume?».

Durante un viaggio in Francia Valeria incontra in un castello il fantasma di Noir de Castelbouc, che la coinvolge in una drammatica vicenda accaduta ottocento anni prima.

Ritornata a Milano trova una città immersa in un futuro senza memoria e dominata da una potente tecnologia di controllo collettivo Spinta ai margini della società e in cerca della sua famiglia, Valeria è costretta a fare i conti con i segreti delle sue origini.

Un intrigante viaggio tra passato e futuro che suggerisce al lettore come tornare al presente.

Nadia Silistriniè nata nel 1960. Vive e lavora come psicologa in provincia di Milano. Nel tempo libero scrive poesie, racconti e diari di viaggio, per non dimenticare le strade percorse e per sognarne altre.
LinguaItaliano
Data di uscita16 nov 2020
ISBN9791220304634
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    I fantasmi non invecchiano - Nadia Silistrini

    Durante un viaggio in Francia Valeria incontra in un castello il fantasma di Noir de Castelbouc, che la coinvolge in una drammatica vicenda accaduta ottocento anni prima.

    Ritornata a Milano trova una città immersa in un futuro senza memoria e dominata da una potente tecnologia di controllo collettivo. Spinta ai margini della società e in cerca della sua famiglia, Valeria è costretta a fare i conti con i segreti delle sue origini.

    Un intrigante viaggio tra passato e futuro che suggerisce al lettore come tornare al presente.

    Questa edizione digitale inoltre include Note e Capitoli interattivi, Notizie recenti sull'autore e sul libro e un link per connettersi alla comunità di Goodreads e condividere domande e opinioni.

    Nadia Silistrini è nata nel 1960. Vive e lavora come psicologa in provincia di Milano. Nel tempo libero scrive poesie, racconti e diari di viaggio, per non dimenticare le strade percorse e per sognarne altre.

    © Nadia Silistrini, 2020

    © FdBooks, 2020. Edizione 1.0

    L’edizione digitale di questo libro è disponibile su Amazon, Google Play e altri negozi online.

    In copertina:

    Progetto grafico di © Andrea Tagliabue

    (Instagram: @andrea_tagliabue)

    Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore, è vietata ogni riproduzione, anche parziale, non autorizzata.

    Questo libro è un’opera di fantasia. Personaggi e luoghi citati sono invenzioni dell’autrice e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi e persone, vive o scomparse, è assolutamente casuale.

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    I fantasmi non invecchiano

    Romanzo

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    A Fabrizio e Mario,

    a Francesca e Marilena

    Nadia Silistrini

    I fantasmi non invecchiano

    Raggiunsi il portico del palazzo storico che ospitava il convegno, dove tre camerieri pronti a ristorarci con ogni ben di Dio ci aspettavano dietro i tavoli disposti a ferro di cavallo.

    Ero assai grata che in quella minuscola città di provincia non si fosse badato a spese. Buttata la giacca sulla spalla feci onore alla tarte tropézienne, le cui brioche disposte sulla tovaglia bianca e blu riempivano il disegno di una vela al vento.

    Il sole spazzolava il prato colorato dai cespugli di rose e dalle aiuole di lavanda. Una targa con la scritta Quatre verts rifletteva la luce verso il cancello d’ingresso e trasformava una delle colonne in un fascio di metallo fuso.

    Avevo dimenticato gli occhiali scuri e il mal di testa che mi tormentava dal mattino era peggiorato. Questo non mi trattenne dal ripetere coscienziosamente un altro giro davanti ai biscotti alle mandorle e ai fagottini ripieni di frutta. Passai accanto ad alcuni colleghi che volevano assaggiare il vino proveniente dalle cantine del palazzo. Il professor Charles Villani, che aveva aperto la conferenza, chiese se volevo favorire.

    «Molto gentile, grazie. Oggi preferisco l’acqua».

    «Parigina, vero? È venuta in questo posto sperduto della Linguadoca per ascoltare le nostre relazioni?».

    «Diciamo che ho colto l’occasione. Sono italiana, vengo da Milano».

    «Città fantastica. Credo che a Milano le cose da non perdere…».

    Nessuna domanda sul perché una milanese partecipasse a un convegno di geriatria nel sud della Francia sfoggiando un perfetto accento parigino. Cominciò a illustrare la mia città come avrebbe fatto una guida turistica esperta; forse era stato davvero a Milano, forse aveva letto tutto su Wikipedia, ma il torrente delle sue parole permetteva solo un m-m di assenso.

    Sentendolo accennare al Medioevo un collega gli chiese se c’erano luoghi interessanti da visitare nei pressi e lui abbandonò immediatamente Duomo e Navigli per parlare del vicino castello di Plan Vuire. Lo descrisse in tutti i particolari, dal barbacane alle feritoie, dalle caditoie alle merlature, usando un linguaggio specialistico di cui – con mia grande consolazione – non capivano nulla neppure i francesi.

    Gli altri si limitavano a contenere gli sbadigli e gli sguardi che spaziavano a trecentosessanta gradi, mentre io non riuscii a mordermi la lingua e lo interruppi per chiedergli se tutto quell’amore per le difese fosse dovuto a qualche complesso non risolto.

    «Mi deve scusare, sono psichiatra».

    Prese la domanda come una battuta di spirito e rise ammiccando. Congratulazioni Valeria, volevi chiudergli il becco e hai ottenuto il risultato opposto.

    Dovetti mostrare un reverente stupore per i concetti di compartimento stagno, rocca di transizione e scarpatura, mentre maledicevo l’emicrania e l’aria soave da madonnina che da sempre attira i tipi paterni, i narcisisti e gli psicopatici.

    Alla fine spostai la giacca mettendo in bella mostra la catena dell’orologio da tasca di bisnonno Aldo. Lo estrassi con nonchalance, come se avessi voluto metterlo meglio e non lo guardai, lo rimisi semplicemente via.

    Funzionò. Il collega tacque sorpreso e interruppe la lezione di architettura militare.

    «Bello – borbottò – Proprio bello», e smise di magnificare la fortezza e le tecniche costruttive che l’avevano resa quasi imprendibile nei secoli oscuri dell’Età di mezzo.

    Purtroppo prese a parlare degli orologi cylindre remontoir in voga tra le donne tra Ottocento e Novecento e dopo un po’ i miei neuroni si arresero e cominciarono a disconnettersi uno a uno più per sfinimento che per tatto, esattamente come i colleghi che accampavano la scusa di un secondo dolcetto e un altro caffè per eclissarsi.

    Ero sempre più pentita di essermi iscritta a un seminario che non riguardava neppure la mia specialità.

    Beh, mi giustificai mentre tornavo a sedermi, che altro potevo fare? Non conoscevo nessuno e Giordi era ancora impegnato a Montserrat. Però inserire nel curriculum un attestato di partecipazione a un convegno all’estero butta sempre fumo negli occhi. Sapevo che avrei fatto meglio a noleggiare una macchina e passare la giornata nei dintorni, oppure visitare la mostra sulle fontane costruite in paese nell’arco di tre secoli. Ne aveva fatto cenno il sindaco portando i saluti dell’Amministrazione. Semplici manufatti che nel Settecento avevano cambiato la vita delle donne, costrette a massacrarsi in estate come in inverno per rifornirsi d’acqua alla sorgente: chiaro che la speranza di vita non arrivasse a cinquant’anni.

    La sera cenai al tavolo delle infermiere declinando l’invito del professore tuttologo, e nonostante la tempia ticchettasse come l’orologio del bisnonno feci sparire tutto ciò che i camerieri mi posavano davanti. Le signore ridevano, si complimentavano e raccontavano storie divertenti sui mangioni del luogo.

    Tornai a piedi all’albergo lungo stradine illuminate da una tenue luce ambrata, ascoltando il rumore dei passi sovrastato solo dal passaggio di qualche macchina. Il cielo si era scrollato di dosso il calore del giorno e i contorni levigati delle montagne schiarivano in un azzurro da acquario.

    Le infermiere mi avevano chiesto perché non avevo cercato una stanza in paese. Avevo confessato di aver scelto quella locanda fuori mano sedotta dalla simpatia che i proprietari Minerve e Sernin Guilhem sprizzavano dal loro sito Internet e per il nome della pensione, che riecheggiava i romanzi della Tavola Rotonda: Al Re Pescatore. Nel Dipartimento, avevo saputo, Minerve era un mito. Le sue torte vincevano regolarmente premi e riconoscimenti, una volta aveva partecipato a una trasmissione su France 2. Era stata lei a fornire al catering i dolci che ci avevano allietato durante la pausa caffè.

    Superato lo slargo che separava la locanda dalla strada, notai all’esterno, quasi a ridosso delle fucsie che ingentilivano l’ingresso, un piccolo bibliobus. Sernin volle presentarmi l’autista, un bel ragazzone alto e dalla pelle olivastra che dopo una cordiale stretta di mano si dispiacque di non potermi prestare alcun libro, tranne quella sera, se avessi gradito.

    «Lascia perdere, Jean Marie – intervenne Minerve notando gli occhi da procione che mi abbelliscono quando ho mal di testa – Meglio che faccia una bella dormita», e mi preparò una coppa di sorbetto al basilico limone, una varietà che trovava portentosa per qualunque disturbo, dall’unghia incarnita alle crisi isteriche con i clienti pretenziosi.

    La ringraziai di cuore, imboccai le scale salendo lungo una passatoia disegnata a rombi che assorbì il rumore dei tacchi e mi chiusi in camera. Poggiai il sorbetto sul comodino, facendo volare le scarpe e allungandomi nel letto monumentale.

    Scambiai qualche WhatsApp con le amiche, prima fra tutte Laura, inossidabile compagna di banco al liceo. Rispose con un video di lei che faceva il bagnetto al piccolo William, detto Billi. Guardai con tenerezza i suoi occhi grigio azzurri e il solco simile a un’onda marina che gli segnava la fronte. Sua madre l’aveva concepito in una zona di guerra con un collega giornalista, un russo siberiano con cui aveva condiviso uno scantinato al riparo dalle granate. Una volta tornata in Italia aveva tergiversato sul che fare fino alle soglie della sala parto e contro il parere di tutti – a distanza di un anno – aveva ripreso elmetto e giubbotto antiproiettile con la scritta press, partendo per un altro fronte caldo e lasciando Billi ai nonni.

    A me, che l’avevo previsto dal momento in cui aveva mandato il laconico WhatsApp: «Ho fatto una fesseria con Nikolaj, che è pure sposato», le amiche avevano affibbiato la patente della strega senza palla di vetro. Non era tanto difficile capire che sarebbe andata così. Guardavo il piccolo sguazzare nell’acqua felice come un pinguino e Laura che faceva numeri da acrobata per parlare con me mentre lo inquadrava, lavava e impediva che affogasse; era lampante che dovesse offrire ai genitori un risarcimento per il cardiopalma che li aveva afflitti da quando l’unica figlia aveva deciso di fare l’inviata di guerra.

    Loro, tranquilli gestori di una tranquilla merceria situata in una tranquilla via di Milano, avevano ricevuto Billi come un tesoro destinandogli la cameretta che era stata di Laura e che lo era tuttora quando rientrava per riposarsi tra un reportage e l’altro.

    Le volte in cui andavo a trovarla e sedevamo sul tappeto con la schiena poggiata al letto come facevamo da ragazze scambiandoci le nostre confidenze, terminava la serata con l’inevitabile: «Se trovo il tipo giusto resto qui e mi occupo di moda».

    «Non ci sono tipi giusti per te – le avevo risposto con franchezza l’ultima volta – Torni solo per partire. Nemmeno se Nikolaj fosse stato libero avresti messo su famiglia con lui, anzi credo che tu l’abbia scelto tra tutti i colleghi ammassati nella cantina per il fascino – indiscutibile, lo ammetto – del suo volto tartaro, e per la fede al dito. Per non parlare della Siberia, che in caso di ripensamento ti avrebbe garantito una lontananza adeguata dal parentado».

    Mi aveva fissato con un sospiro.

    «Mi conosci troppo bene. Perché non sono come te, che vivi bene in branco?».

    «Solo se posso fare il capo», avevo sorriso.

    Dopo i consueti abbracci affettuosi e virtuali con lei mandai qualche foto a mia madre e infine parlai con Giordano, che mi invitò a prolungare il soggiorno fino a lunedì.

    «Vivì mi spiace, credimi. Pensavo di aver finito con l’arcobaleno lunare sopra la montagna, ma domani è previsto un temporale e non posso perdere l’occasione».

    Mi mandò un sacco di baci e appena terminata la conversazione rinunciai a spedirgli un’emoticon tutta fulmini e tempeste che anticipasse il diluvio previsto per il giorno dopo. Troppo mal di testa. Qualcuno stava battendo sulle mie tempie con chiodi e martello.

    Inghiottii una compressa, dimenticando il sorbetto e lasciando vagare lo sguardo sul trolley già pronto per essere spedito in Italia e sullo zaino con l’attrezzatura per il canyoning e qualche indumento di ricambio. Con Giordano si viaggiava leggeri come fringuelli. «A me bastano un paio di pantaloni, una maglietta e il tuo sorriso» diceva e la dottoressa Valeriana Visso, chiamata sottovoce Godzilla dal direttore e dai tirocinanti impacciati, si trasformava in morbida crema. Che stralunato, godevo del pensiero che ancora un giorno e ci saremmo visti.

    Il suono imperioso di una notifica mi riportò nel letto. Una compagna di università – con tanto di cuoricini, lieti calici e pollice alto – ricordava che l’indomani 7 luglio sarebbero passati dieci anni esatti dal giorno della nostra laurea. Seguì un bombardamento di messaggi. Alla compagnia si unirono un’archeologa e un professore di matematica. Quando c’è una festa sono tutti benvenuti scrisse una collega, magnanima, mentre con poca carità cristiana pensavo che si trattava dei soliti imbucati. Si concordò per una pizzata a fine agosto e i trilli diventarono sempre più rari, fino a tacere.

    Fuori soffiava un vento vivace e dalle finestre spalancate entrava il frinire sommesso delle cicale. L’arrivo di un’altra videochiamata mi distrasse. Era Ornella, una collega del Centro psicosociale, che sorrideva nonostante una compressa di garza le nascondesse metà guancia e un orecchio.

    «Ciao Valeria cara, come te la passi?».

    «Ornella, dovrei chiederlo io a te. Ti ha picchiato un paziente?».

    «Peggio. Come diceva quel tale: i veri matti stanno fuori dal manicomio, non dentro. È stato un bozzo con i jeans strappati e la testa vuota, ci saresti voluta tu che sei…».

    «Godzilla».

    «Scema, volevo dire un tipo direttivo, che mette in riga tutti».

    «Sì sì, lascia perdere, sono calunnie del direttore… capoccione! Dimmi piuttosto cosa è successo, sembri l’autoritratto di Van Gogh».

    «Grazie, tesoro. È successo che stavo andando verso il metrò e un ragazzo mi veniva incontro, tutto intento a messaggiare. Ho pensato: Quello stordito all’ultimo momento si sposterà. Dovevo spostarmi io, che stavo a destra?».

    «L’hai sfidato a duello come fra Cristoforo e lui ti ha staccato un orecchio?».

    «Figurati. Mi è venuto addosso e mi ha spedito contro il muro. E ho strisciato la faccia. Lui non ha fatto una piega, ’sto bastardo, e ha continuato come se niente fosse con occhi e dita sulla tastiera. Gli ho augurato di pestare tutte le cacche che c’erano a terra».

    «Sei stata troppo accomodante. Io l’avrei rincorso e spinto in un tombino».

    Sul suo volto, arrotondato dalla ripresa, si allargò un ghigno benevolo.

    «Dopo non dire che è il capoccione a chiamarti Godzilla».

    Parlammo un po’ di come andavano le cose al Centro, le raccontai del convegno e del fatto che avrei dovuto aspettare Giordano ancora un giorno.

    «Saluta il tuo trasteverino – disse alla fine – Digli che può venire lui a Milano, invece di portare te a Roma».

    «Gelosa».

    «Macché, sei la nostra colonna. Una volta l’ha riconosciuto perfino il capoccione».

    «Mi ricordo, aveva appena tirato una pipata d’oppio con il paziente cinese».

    È sempre difficile salutare Ornella. Siamo prese tutte e due da una sorta di ansia da separazione e cominciamo a inanellare una serie di assurdità cui solo la stanchezza per il gran ridere può mettere fine.

    Chiusi e vidi un WhatsApp di mia madre che ricordava i pochi anni vissuti in Linguadoca dopo che i suoi si erano trasferiti da Parigi. Non aveva aggiunto che a Tolosa aveva incontrato un ragioniere italiano che viaggiava per conto suo e che tra loro era scoppiato il colpo di fulmine, al punto che in autunno aveva mollato ogni cosa e si era precipitata a vivere con lui a Milano. Mia madre non parlava più di mio padre. Nemmeno la veduta più bella del paesaggio occitano doveva richiamare il ricordo dei vent’anni di cure continue che gli aveva prodigato dopo l’incidente che lo aveva reso tetraplegico; o forse il ricordo dei silenzi sempre più lunghi e penosi fra loro, che mi affannavo a interrompere come se lo avessero imposto gli dei.

    Spedii le foto anche alla nonna e al nonno, senza parzialità. Nonno Celestino non amava che la moglie andasse da lui, tutta giuliva, a dirgli che avevo scritto a lei pregandola di salutare anche lui. E non accettava che nonna Rosa gli ricordasse che trattava il telefonino come un aggeggio utile per avvisare quando si è in ritardo e non ricordava mai dove l’aveva messo. La fanciulla rispose dopo un secondo esatto, mostrando un’incipiente dipendenza da smartphone; il nonno invece ci mise dieci minuti buoni. Utilizzò la chiamata per dirmi, con il suo forte accento abruzzese, che non ricordava di aver sepolto il telefonino sotto i libri di Ignazio Silone e Rocco Scotellaro. I rimbrotti della nonna lo avevano convinto a cercarlo, ma non l’avrebbe trovato se lei non avesse chiamato con il suo cellulare guidandolo uno squillo dopo l’altro fino al posto giusto. Come la mamma e la nonna ricordò il periodo trascorso nel sud della Francia e mi chiese se avevo visto questo, quell’altro, quell’altro ancora…

    «Nonno Cele, magari – sospirai – Ho solo partecipato a un convegno che mi ha peggiorato il mal di testa».

    «Ti fa male la testa, brillocche d’oro? – si preoccupò – Prendi qualcosa, devi tenerla bene la tua testa».

    Lo rassicurai, lui mi disse di riposare e passare una buona notte, e di informare il mio fidanzato che non è bello lasciare una ragazza sola, spersa per il mondo. Gli mandai tanti baci e posai il cellulare sul bordo del letto, chiudendo gli occhi. Volevo assaporare il frinire sempre più intenso delle cicale.

    Nonno Celestino mi aveva fatto da padre, da nonno, da guida. Aveva passato tre quarti della vita in Francia e quando sarebbe stato il momento di tornare con la nonna in Abruzzo, nella loro mai dimenticata casa di Santo Stefano di Sessanio, mio padre aveva avuto l’incidente, mia madre si era licenziata e loro avevano deciso di raggiungerli a Milano per crescere me; in silenziosa competizione con la madre e la nonna di mio padre, che mi tenevano come i diamanti della Corona.

    Mentre mi appisolavo, mi svegliavo e mi riaddormentavo, l’aria scuriva dolcemente. La luna piena evidenziava il profilo frastagliato e scosceso dell’altura su cui sorgeva il castello di Plan Vuire. Grandi nuvole bianche si spostavano dando l’impressione che fossero la luna e la rocca sulla montagnola a rincorrere un punto imprecisato nel cielo.

    Il mal di testa mi era passato. Qualcuno in giardino cominciò a suonare. Quella musica aveva uno strano fascino; l’avrei definita, prendendo le parole in prestito da non ricordo chi, un balsamo per le orecchie e lo spirito.

    Il cellulare interruppe l’incantesimo con le sue notifiche. Lo presi in mano: era Giordano che mi stava inviando delle foto. Non le guardai, volevo solo ascoltare i suoni che cadevano come gocce di pioggia tiepida sul davanzale.

    Alla fine mi alzai per vedere chi stesse suonando. La fioriera zeppa di gerani ostacolava la vista e lasciai la stanza per scendere in giardino. Qualche cliente ritardatario stava cenando sui tavolini all’aperto, in mezzo a loro vidi Sernin intento a suonare un chitarrone. Presi una sedia e mi sedetti accanto a lui, sperando di non disturbare. Lui sorrise come se gli avessi fatto un regalo.

    Stava provando. Perciò cominciava, s’interrompeva, ricominciava e tutti rispettavano il suo impegno cercando di contenere il tono della voce. Iniziò a cantare usando il dialetto provenzale, e in qualche modo capii che si trattava della storia di una ragazza che si era sposata in segreto con il capitano del castello. Il feudatario che lo governava aveva messo gli occhi su di lei e, comprendendo quanto era accaduto a sua insaputa, aveva allontanato il capitano nella speranza che fosse ucciso in guerra e l’aveva insidiata al punto che la poveretta non aveva potuto fare altro che cercare scampo nella morte, gettandosi dalle mura. La canzone terminava deprecando la gelosia e l’invidia che bruciavano nel cuore del signorotto contro il suo fedele capitano e piangendo l’amore infelice dei due giovani.

    Non era esattamente la storia di cui sentivo il bisogno però Sernin suonava benissimo e aveva una voce molto maschile, di quelle che catturano subito l’attenzione, per intenderci. Quando smise di suonare gli domandai se stesse studiando per un concerto.

    «Proprio così – rispose – Come tutti gli anni ci sarà la Rievocazione, che parla dell’amore tra Blanchette de Roman e Noir de Castelbouc, troncato dalla cattiveria di Goupil, il giovane visconte di Plan Vuire. Ne ha sentito parlare? Tutti i castelli hanno qualche storia di questo tipo».

    Girò lo spartito verso di me perché potessi leggere le parole e riprese la canzone dall’inizio. Appena l’ultimo accordo si spense sotto le sue dita, mi consigliò di visitare il castello, nonostante fosse piuttosto malridotto. L’abbandono e l’incuria avevano preparato il terreno ad alcuni dissennati cercatori di tesori che si erano messi in testa che nascondesse forzieri pieni di monete d’oro. Con picconi e badili avevano fatto peggio del re di Francia durante la Crociata contro i Catari.

    «Credere che in ogni castello sia nascosto un tesoro è una cosa abbastanza comune, come credere che vi soggiorni un fantasma».

    «Addirittura?!».

    «Sì, il fantasma di Noir, che continua a cercare la sua adorata Blanchette senza trovarla. C’è chi dice di averlo fotografato. Alla biglietteria vendono delle cartoline con questa figura trasparente. È piuttosto impressionante ma lei non deve preoccuparsi, si vede solo di notte e alle sei il castello chiude».

    «Non credo ai fantasmi».

    «Non è male che qualcuno ci creda – intervenne sua moglie, che andava avanti e indietro con liquori e caffè e aveva sentito i nostri discorsi – Porta turisti, soprattutto nei giorni in cui si tiene la Rievocazione».

    «Ho sposato una donna pratica» commentò Sernin con affettuosa ironia.

    Qualcosa nel suo sguardo mi fece capire che a lui piaceva parlare di cose successe secoli fa, non importa quanto vere.

    Come avevo fatto con il professor Villani che mi aveva rintronato con i dettagli delle difese del castello, gli dissi impulsivamente ciò che mi passava per la testa e lui annuì soddisfatto.

    «Proprio così. Sono un appassionato di storia locale e di leggende. Guardi i film che la gente spinge per andare a vedere, o i libri fantasy tutti basati sulla lotta tra il Bene e il Male: questa lotta è il senso del Medioevo. Non è forse il senso della nostra vita? Mio fratello prete dice che gli uomini sono figli di Adamo, in lotta perpetua contro il Male».

    Gli chiesi se fosse un pessimista antropologico, come Hobbes, e auspicasse l’avvento di uno Stato autoritario per la salvezza del genere umano.

    «Neanche per sogno – protestò – Che ne sappiamo noi di com’è l’uomo per natura? Chi ha mai visto Adamo, nato adulto? I filosofi amano perdere tempo a ragionare su cose che nessuno saprà mai; io parlo di quello che vedo, madame Valerià. Se gli uomini sono per natura peccatori, sono per natura portati anche al bene; questo vedo quando osservo mia moglie, le mie figlie, i miei vicini. Meno quando guardo il telegiornale, infatti lo seguo poco. Sa in cosa non credo? Nel progresso inevitabile e automatico verso un mondo di pace e di giustizia. Sono convinto che ogni generazione e ogni persona debba impegnarsi per quello e possa farlo. Quanto a realizzarlo no, però la cosa non ci deve scoraggiare, bisogna farlo e basta. A tempi di guerra succedono tempi di pace, e il ciclo ricomincia. Il Medioevo l’abbiamo dentro. Tutto questo non lo trova prima, nell’Iliade o nell’Odissea. Li ha letti?».

    Confessai che ai tempi del liceo avevo odiato l’Iliade con tutta me stessa; era permeata di una tristezza ossessiva, di una ricerca di atti guerreschi e valorosi che non facevano la felicità di nessuno, neppure dei vincitori.

    Grazie a quelle inspiegabili sintonie che si creano a volte tra le persone iniziammo a parlare di letteratura. Era piacevole intrattenersi con questo oste francese appassionato come un professore e con due mani da maniscalco capaci di suonare uno strumento complesso e delicato.

    «È una tiorba – disse con orgoglio battendo sulla cassa armonica come sulla spalla di un primogenito – È uno strumento rinascimentale. Sa, ho dovuto discutere un po’ con i puristi del Comitato per la Rievocazione, che lo consideravano troppo moderno».

    La moglie si aggirava tutto intorno sparecchiando tavoli e rovesciando le sedie a gambe all’aria, finché ci raggiunse con tre fette di torta e una bottiglia di Muscat de Lunel. Sedette con noi, felice che fossi guarita dal mal di testa. Mi mancò il coraggio di confessare che il merito era della chimica e che a quell’ora non sapevo in cosa si fosse trasformato il sorbetto al basilico. Sentendo che il marito mi consigliava per la terza volta di visitare il castello, mi spiegò come arrivarci con la corriera e con un quarto d’ora di sentiero facile.

    «Farà in tempo a tornare prima di pranzo e riposare un po’».

    Ne approfittai per chiedere la disponibilità della stanza per un’altra notte, dato che il mio fidanzato non sarebbe arrivato prima di lunedì.

    «Nessun problema – mi rassicurò Sernin – Il pieno di turisti sarà tra quindici giorni, per la Rievocazione».

    «Perché non vi fermate? – domandò Minerve – Potreste noleggiare un costume e girare per le stradine come due popolani o due nobili del Medioevo, in base al budget».

    «Purtroppo non abbiamo molte ferie. Andiamo a fare canyoning a Bagnères de Bigorre, poi faremo una scappata a Biarritz».

    «Capisco, volete vedere il raggio verde, quello di cui parla Jules Verne. Devo avvertirla

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