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Un Amore... Una Vita
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E-book1.326 pagine20 ore

Un Amore... Una Vita

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Info su questo ebook

Anna è una giovanissima ragazza che vive nella provincia italiana del dopoguerra. A differenza delle altre ragazze sue coetanee, desidera con tutte le sue forze un futuro diverso per sé stessa, che la veda come donna impegnata, autonoma, indipendente, emancipata, non vincolata necessariamente a un uomo, lontana da una famiglia che la obblighi a una vita di sacrifici e costrizioni, senza una realizzazione personale. Con l’aiuto di un’importante figura legata alle origini della sua famiglia, si metterà in gioco, gettandosi anche in situazioni non facili da gestire e del tutto imprevedibili. Seppur vivendo un’esistenza complessa e fuori dall’ordinario, saprà andare ben oltre i suoi obiettivi, dimostrando che con la forza di volontà è possibile superare tutti gli ostacoli, soprattutto quando a guidare tutto c’è l’amore vero.
LinguaItaliano
Data di uscita17 set 2023
ISBN9791220146111
Un Amore... Una Vita

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    Anteprima del libro

    Un Amore... Una Vita - Maura Sociali

    PARTE PRIMA

    Capitolo 1

    Quindici anni, quale età meravigliosa e tremendamente complicata. Quante fantasie e sogni nascosti nel proprio intimo, irreali e oltretutto irrealizzabili in quell’anno del signore del 1965 in un paesino dell’Emilia Romagna, ora in preda ad un’espansione epocale per le tante fabbriche di ceramica che avevano spinto i contadini a disfarsi dei loro poderi per diventare dei ceramisti. L’Italia si era ripresa dalla sconfitta della guerra e la gioventù nata dopo questa tragedia, non ne sentiva le conseguenze e le loro preoccupazioni erano quelle di seguire taluni canoni di bellezza come le modelle delle varie riviste settimanali. Quelle ragazzine con forme tipicamente mediterranee, in quella comitiva di giovinette che si conoscevano dai tempi delle elementari, si sentivano a disagio sfogliando le riviste del tempo. Tutte erano piccole e rotondette, eppure tutte sognavano di essere somiglianti alle dive e alle modelle che si vedevano sugli schermi del cinema locale. Tutte fantasticavano di seguire le orme di quelle stelle del cinema che apparivano nei rotocalchi immortalate dalle bellissime foto dei paparazzi di allora. Quei film e quelle fotografie le facevano sognare e le spingevano a odiare il paesino dove erano nate e dove abitavano. Erano quasi convinte che se fossero venute alla luce in una grande città quale Roma, Parigi, Londra, il loro destino sarebbe cambiato e anche loro avrebbero avuto la possibilità di diventare parte di quel mondo dorato a scapito della loro apparenza. La loro ingenuità le spingeva a credere che la bellezza si poteva forgiare a loro volere e comando. Bisognava dimagrire qualche chilo, andare dall’estetista e il tutto si sarebbe risolto.

    Quanti sogni sul muretto di quel canale che scorreva davanti alla fabbrica di Ballarini, la più importante del luogo, dove il gruppetto trascorreva le domeniche del pomeriggio guardando le macchine che sfrecciavano su quella strada di provincia dirigendo la loro corsa verso le Terme della Salvarola e oltre. Loro aspettavano la sera per andare a ballare, unico svago di tutta la settimana.

    Erano quelli i momenti in cui Anna si sentiva a disagio come se costretta in una prigione, intrappolata in una vita piatta e normale come quella della madre oppure della sorella, più grande di lei, che già lavorava come domestica: e si sentiva male, fisicamente, come se le mancasse il respiro. Era allora che si insinuava in lei quel malessere, quella frenesia di alzarsi dal quel muretto per correre, ma dove se era costretta a ritornare comunque e sempre nello stesso luogo da dove si augurava di evadere. Sognare per poi ritrovarsi nello stesso paese con le stesse amiche, seduta sullo stesso muretto a sprecare le sue domeniche sognando avventure in paesi lontani. Era quello il loro svago pomeridiano della domenica, che altro in un paese di contadini e operai.

    «Allora che si fa stasera?» chiedeva una di loro tanto per rompere il silenzio nel quale il gruppetto di ragazzine si rifugiava per fantasticare sul possibile incontro di quella sera, l’unica della settimana, con il loro ragazzo.

    «Andiamo a ballare come al solito, cos’altro...» rispondevano.

    Le sale da ballo del paese erano due: quella estiva e l’altra invernale. Una era Il giardino d’estate, naturalmente quello estivo. Si trovava in zona viale grande al centro del paese, dove si passeggiava nel pomeriggio dei giorni festivi per pavoneggiarsi nei vestiti della domenica, sognando di trovare un ragazzo che le invitasse a ballare per quella sera e magari fidanzarsi. Poi c’era la sala da ballo invernale, che loro chiamavano Il Calderone. Era un locale malandato e senza finestre, per cui, dopo un paio d’ore, si iniziava a sudare come dannati. Considerando che a quei tempi i deodoranti non si usavano, il fetore della sudorazione si innalzava ad ammorbare l’aria, accresciuto dall’odore di chiuso e addizionato alle emissioni dei muri ammuffiti, le esalazioni che fuoriuscivano dai loro corpi accaldati non li infastidivano. Quella era la loro serata di libertà totale, senza che i genitori li tenessero d’occhio. Ognuna di loro aveva una simpatia per un ragazzo particolare e l’unico posto dove potersi abbracciare, baciare e strusciarsi, era proprio in quella baraonda di corpi sudaticci, in quel locale malconcio che loro chiamavamo sala da ballo.

    A fine serata chi aveva avuto la fortuna di fare coppia con il suo ragazzo rientrava accompagnata da lui con la possibilità di appartarsi nella penombra del portone di casa per baciarsi, toccarsi e sperimentare i primi approcci dell’amore. Come quella sera di dicembre. Erano già alcuni giorni che nevicava senza sosta e il paese era coperto da una spessa coltre di neve. Le temperature notturne erano scese di alcuni gradi sotto lo zero rendendo le strade impraticabili per cui era impossibile usare la bicicletta, il loro trasporto domenicale. Si rischiava di cadere a ogni nuova pedalata ragione per cui quella domenica avevano deciso di andare a piedi per la solita serata da trascorrere al calderone. Distava circa un chilometro e sarebbe stato piacevole camminare su quel soffice tappeto bianco. Al rientro assieme ai loro ragazzi, con la scusa di battagliare con le palle di neve, avrebbero avuto la possibilità di scherzare e magari, così per caso, di scivolare sulla morbida distesa di neve ancora vergine finendo l’uno addosso all’altra: quale migliore occasione per un abbraccio, un bacio o una palpatina nei punti sensibili. I loro corpi erano in ansia per questo rituale, e lo attendevano con impaziente cupidigia per placare, in parte, quel subbuglio di sensazioni.

    «Sei pronta?» Maria, la sua amica del cuore, chiamò dalla strada da dove la stava aspettando «Qui fa un freddo cane. Possibile che tu sia sempre l’ultima?».

    «Scendo subito. Arrivo... arrivo!» urlò Anna. Uscì sbattendo la porta dietro di sé, e ignorando i rimproveri della madre che le intimava di prenderla con calma, infilò le scale di corsa accertandosi di non scivolare sui gradini intaccati dall’usura del tempo, saltando come era solita gli ultimi tre scalini. L’appartamento dei genitori era al terzo piano e lei aveva fretta di arrivare in fondo alle scale per non incontrare il padrone di casa. Entrambi da tempo immemorabile si cimentavano, quasi godendo, ad importunarsi a vicenda per una antipatia reciproca. Lui cercava di bloccarla per le scale per mollargli qualche schiaffone mentre lei, per fargli dispetto, saccheggiava i fiori del suo giardino a cui teneva tanto. Comunque, essendo più svelta, il poveretto aveva una gamba fuori uso e scendeva le scale a rilento, riusciva a scantonarlo e allora sicura di essere abbastanza lontana dalle sue manate, ricambiava le sue minacce con dei sberleffi.

    «Dove sono le altre»? chiese Anna, una volta raggiunta l’amica.

    «Hanno deciso di non venire».

    «Ci hanno preceduto – rispose Maria – Lella aveva fretta di arrivare al Calderone per incontrare il suo nuovo filarino».

    «Chi è? Lo conosci?».

    «No, non l’ho ancora incontrato, anzi, nessuna di noi lo conosce. Sembra che non sia di qui, proviene da un paese qui vicino».

    «Fortunata lei che ha un ragazzo che viene da chi sa dove per incontrarla. Figurati invece che sono mesi che corro dietro a Paolo ma quello neanche si accorge di me».

    Paolo, il suo eroe, un vero fusto. Alto, atletico, bello. Inoltre aveva almeno cinque anni più di lei, che n’aveva quindici: un vero uomo, mentre lei era una stupida adolescente quindicenne che sognava e si illudeva.

    Camminando, scivolando e sospirando le due amiche arrivarono a destinazione. Tutto il gruppo era già entrato nel locale e si trovava al solito posto. Lella era avvinghiata al suo nuovo ragazzo dimentica del resto della comitiva. Stavano ballando muovendosi appena alle note di un slow che stimolava i sensi per la sua musica lenta e appassionata.

    «Sembra che Lella si sia presa una bella cotta per quel ragazzo – costatò Maria – Che Dio la aiuti».

    «Per quale ragione ha bisogno di un aiuto da Dio. Sembra che anche lui sia molto attratto da lei. Ha l’aria di essere molto innamorato. Guarda come si sbaciucchiano» disse Anna.

    «Purtroppo mi e stato confidato che ha già una fidanzata».

    «Ma va... speriamo che non sia vero, comunque e meglio augurarle tanta fortuna».

    Amore, sensualità: quelle parole le erano sconosciute. A volte si sentiva diversa da tutte le altre che parlavano di emozioni alla vista di un ragazzo, di quel languore che le avvolgeva mentre ballavano. Quando un partner, nel ballare, la stringeva a sé provocandola e facendole pressione con le parti più intime il suo corpo non reagiva, e neppure quando in preda a un rimescolamento sessuale il ragazzo, suo malgrado, si trovava ad affrontare erezione improvvisa. Anche quel dimenarsi premendo quel membro turgido contro il suo ventre per arrivare a un orgasmo non la toccava, non era in grado di smuovere quella sua indifferenza. Anna lo sopportava per buona educazione, per pietà verso il ragazzo che smaniava, sudava e tremava: le pareva tutto così ridicolo. Aveva preso il carattere della madre, che difficilmente si lasciava trascinare dalle emozioni.

    Anna da sempre e in qualsiasi situazione, prima di prendere una decisione analizzava il pro e il contro di quello che le si proponeva, come pure di certi impulsi che a volte la sovreccitavano: la sessualità era nel suo elenco negativo in quel particolare momento della sua esistenza. Lei non aveva tempo per l’amore. Voleva una vita diversa, avventurosa, interessante. Una vita come la vivevano le eroine dei film di avventura dei tanti romanzi che divorava di nascosto per evitare i rimproveri della madre, che contestava la sua mania di leggere di notte. Le ripeteva che si sarebbe rovinata gli occhi, di un azzurro cielo che erano veramente la parte più bella del suo viso. Di romanzi d’avventura lei ne aveva tanti e a volte rimaneva sveglia sino alle prime ore del mattino per finire il libro che aveva cominciato a leggere in giornata, non riuscendo a staccarsi da quella narrazione immaginaria che lei viveva con l’eroina, anzi di più, come la vera protagonista. Allora diventava una spia della CIA oppure l’amante di un avventuriero, un uomo misterioso di un paese lontano: e sognava, sognava, sognava...

    «Allora facciamo questo ballo? Ehi, mi senti oppure sei nel solito mondo dei sogni».

    Anna, con fastidio, riemerse da quelle riflessioni per rispondere seccata alla persona che aveva interrotto quel suo fantasticare. Per poco non cadde in deliquio. Chi l’aveva invitata a ballare era Paolo: ancora più bello del solito con un vestito blu scuro, la camicia a righe bianche e blu e il suo sorriso scanzonato, quel sorriso che le faceva tremare le gambe e che la lasciava quasi senza respiro. Lo seguì come un automa tanto era il turbamento che provava quando lui le rivolgeva la parola, e con il cuore che sembrava impazzito da come le saltava in petto. Quello era un sentimento nuovo per lei, era forse quel non so che per cui le sue amiche sospiravano.

    Così non va bene – pensò tra di sé – Bisogna pur darsi un contegno si disse, considerando che il gruppetto delle sue amiche la fissava invidiandola e augurandosi di essere al posto suo.

    Fece un respiro profondo, raddrizzò le spalle cercando di sembrare più alta del solito e lo seguì sulla pista da ballo con le ginocchia che ancora le tremavano. Come mai l’aveva invitata a ballare? Si era finalmente accorto di lei?

    Il ragazzo la pilotò sulla pista da ballo, la attirò a sé e cominciarono a ballare facendosi strada nel mezzo delle varie coppie che si palpeggiavano. Fortunatamente quella sera aveva portato con sé le scarpe con i tacchi e che aveva indossato appena entrata nel locale. Paolo era alto, con un corpo perfetto: ma lei pure non era male con il suo metro e sessantasei centimetri, a quei tempi, per una donna era già una buona altezza.

    «Allora – chiese Paolo stringendola a sé, forse più del necessario «Che mi dici di bello?».

    «In questi giorni prendo lezioni di inglese da Ermete» rispose Anna. La voce le usciva a malapena per il turbamento che provava al contatto di quel membro che cominciava ad animarsi nel strofinarsi contro il suo ventre. «Lo devo imparare – continuò, sforzandosi di non perdere il filo del discorso – per fare il corso di hostess».

    Il suo sogno era quello di diventare un’assistente di volo, cosa che le avrebbe dato la possibilità di viaggiare e visitare tutti quei luoghi fantastici descritti nei suoi romanzi.

    «Tu pensi che sia abbastanza imparare l’inglese per avere la possibilità per farsi accettare?» continuò Paolo, insistendo nelle sue manovre, compiacendosi nel vederla arrossire e perdere il self control di cui la sapeva capace.

    «Una lingua straniera è d’obbligo. Lo richiedono nella domanda di assunzione dell’Alitalia. Me la sono procurata, l’ho ricevuta un mese fa» disse cercando di non mostrare il suo turbamento.

    «E la bella presenza, il portamento, pensi di possedere anche quelle qualità? L’altezza, sai, richiedono delle misure speciali» Paolo riprese, continuando a strusciarsi e stringendola sempre più forte per avvicinarla al suo corpo.

    Quelle parole sarcastiche e irrisorie la colpirono come una doccia fredda riportandola alla realtà, ricordandole che si trovava tra le braccia del ragazzo che da sempre si divertiva a stuzzicarla. Era inutile, anche questa volta Paolo l’aveva invitata per burlarsi di lei, delle sue aspirazioni. Era al corrente del suo sogno, nascosto a tutti, anche alle sue più care amiche, anche alla sua famiglia. Anna si era confidata con lui una sera di circa un mese prima, quando, così per caso, si erano trovati seduti sul solito muretto. Lui che aspettava una delle sue ragazze, lei, come di consueto, per liberarsi dalla noia. Quella era stata una serata magica per lei, Paolo l’aveva invitata per una passeggiata nei campi che circondavano il paese dove si erano appartati. In quel luogo per lei magico l’aveva baciata, accarezzata, trattata come una sua ragazza mentre ora si prendeva gioco di lei.

    «Ti stai divertendo – disse, spingendolo da parte per divincolarsi dal suo abbraccio – nel dimostrarmi quanto uomo sei con quel coso lì... lasciamo perdere» continuò, facendosi largo tra le coppie per lasciare la pista da ballo.

    «Ma dai, stavo scherzando» Paolo disse, e cercò di riprenderla per continuare quel giro di danza. Anna lo spinse malamente.

    Scherzando! Era furiosa. L’unica persona a cui teneva, da cui sperava di ricevere parole di incoraggiamento si rivelava più che mai indifferente, anzi la derideva, si burlava di lei. Ma chi si credeva di essere? Solamente perché era bello pensava di poter prendere in giro chiunque? Ma che andasse a quel posto.

    «Lasciami in pace e va’ a ballare con una delle tue fiamme, con una di quelle smorfiose che ti corrono dietro e che godono nel strusciarsi contro la tua mascolinità. Tanto lo so che tu mi hai invitato per provocarmi, loro invece ci tengono a farsi sbattere da te» continuò, dirigendosi ad uno dei tavolini dove si trovavano le sue amiche.

    «D’accordo, eh, ma che permalosa che sei, vado, non preoccuparti ti lascio in pace» Paolo disse mentre la seguiva «Comunque ti annovero tra la schiera di quelle smorfiose, a quanto pare sembravi piuttosto contenta di gingillarti con la mia mascolinità, come tu la chiami, lasciamo correre... va’» aggiunse, e si diresse verso un gruppo di ragazze. Quando si sedette, le si stinsero attorno e cominciarono a parlottare, ammiccando e ridendo.

    «Quelli stanno ridendo di me» Anna ammise suo malgrado. Dopotutto se lo meritava, parlava troppo e con chi non doveva. Che l’accaduto le servisse da lezione. Tra l’altro Paolo aveva ragione. Lei pure era nella cerchia delle ragazzine che lo ammiravano, che avrebbe accettato di farsi palpeggiare e altro, come lui affermava pavoneggiandosi con gli amici. Quella sera indimenticabile di una settimana prima, quando l’aveva presa tra le braccia per baciarla e toccarla Anna si sarebbe donata a lui senza ritegno, e questo Paolo lo sapeva. Mai più, promise a se stessa, d’ora in poi doveva scordarsi di lui, anche se questo atteggiamento l’avrebbe fatta soffrire.

    Quella domenica era il suo compleanno. Anna, in quel vero giorno compiva sedici anni: tanti per lei. Le sembrava di essere invecchiata d’un colpo. Dal suo risveglio, molto mattiniero suo malgrado, si sentiva scontenta, infelice, apprensiva, ragione per cui non si era aggregata al solito gruppo di amici e amiche che avevano deciso per una scampagnata al fiume. I suoi genitori, come ogni domenica, erano partiti per una gita in motocicletta con una coppia amica. Nel salutarla non le avevano fatto gli auguri di compleanno e questa mancanza aveva aggravato il suo stato d’animo. Pure la sorella era uscita con le solite amiche e lei si trovava sola nell’appartamento a pensare a quel suo compleanno che invece di rallegrarla la rendeva infelice e insicura.

    Sedici anni, e non aveva realizzato neanche uno dei suoi progetti: si sentiva soffocare in quel paesino dove era nata, dove il massimo a cui poteva aspirare era un matrimonio con un bravo ragazzo dal posto di lavoro sicuro in una delle molte fabbriche dei dintorni. Lei si sentiva diversa dalle altre ragazze e voleva sottrarsi a quel destino meschino: desiderava incontrare gente di diversi paesi, diversi costumi, diverse idee. Viaggiare, vedere quei posti lontani, fascinosi e anche pericolosi. Era inutile sognare, fantasticare. Doveva trovare una soluzione per realizzare le sue aspirazioni. Occorreva muoversi. Ma come, dove. Nessuno, nemmeno la sua famiglia la prendevano seriamente. E se si fosse rivolta alla contessina? Occorreva un po’ di coraggio e tanta faccia tosta. Perché non provare, chissà!

    La contessina era l’unica e ultima discendente del più nobile casato della provincia. Aveva qualche anno in più del papà. Non era bella, ma aveva un corpo alto e slanciato con un che di regale che incuteva soggezione. Viveva in una villa (quasi un castello) nel mezzo di un parco bellissimo limitrofo al paese, e la proprietà si estendeva ai vari poderi e casolari dei contadini. La sua era stata ed era ancora una delle grandi famiglie del luogo, e quella proprietà dove sorgeva la villa era uno tanti domini di campagna che il casato possedeva mentre la loro residenza di famiglia si trovava in città, a una ventina di chilometri dal paese. Coraggio, perché no! Dopotutto, anche lei, come discendenza paterna apparteneva a quel nobile casato di provincia, la stessa della contessina anche se il suo cognome era dissimile e nonostante l’appartamento dove viveva con i genitori rispecchiasse il ceto sociale che le competeva. Nel nucleo famigliare del padre correva voce che il nonno, sebbene non fosse stato riconosciuto, fosse il frutto di un amore extra coniugale tra il duca, nonno della contessina (allora pure nonno del papa) e una bellissima ragazza straniera. La moglie del duca, donna pia e molto religiosa, aveva cercato in tutti i modi di intralciare quella relazione: il conte aveva avuto molte amanti, cose passeggere. Per quella giovane donna, invece, si diceva che avesse perso il senno, si era talmente innamorato di lei che la moglie, per la prima volta, si era preoccupata che il marito potesse venire a meno ai doveri che la famiglia gli comportava. Alla fine era riuscita nel suo intento di allontanarla, anche se aspettava un figlio dal conte suo marito. La giovane donna era morta di parto e la nobildonna, tormentata dal rimorso, aveva sistemato il neonato nell’orfanotrofio di cui era una delle dame di carità assicurandosi che non gli mancasse nulla. Alla morte della moglie, il duca venuto a conoscenza di quella paternità era intervenuto contro il parere dei figli e di tutta la famiglia. L’aveva cercato e aiutato nel finanziargli un negozio da barbiere, il mestiere che aveva imparato nella casa dei trovatelli. Inoltre, il giorno che avesse deciso di accasarsi gli avrebbe assegnato un appartamento e una dote cospicua per assicurare una vita agiata sia a lui che alla famiglia che si sarebbe creato, considerandolo alla stregua dei suoi figli. Ma pare che il nonno fosse nato sfortunato poiché prima che il conte avesse il tempo di mantenere quelle promesse cadde da cavallo morendo sul colpo, un incidente molto discutibile, si diceva, considerando che il conte era un cavallerizzo provetto. E i figli, i fratellastri del nonno, avvalendosi di quell’accaduto inatteso, se così si poteva chiamare, cancellarono dalla loro agenda il giuramento fatto al padre in caso lui fosse mancato prima di poterli mettere in pratica: si dimenticarono di quel miserevole bastardo, la vergogna della loro famiglia. Questo si vociferava in famiglia. Che fosse vero o falso, che fosse una fiaba da raccontare ai bambini per fargli dimenticare la monotonia della loro esistenza, poteva essere. Eppure Anna voleva crederci, tra l’altro una delle zie, sorella cadetta del padre, aveva fatto delle ricerche purtroppo senza risultato per mancanza di conoscenze altolocate e mancanza di contanti.

    Coraggio. Era ora di finirla con le sue fantasticherie, con i sogni ad occhi aperti. Era ora di muoversi. Fu in quel momento che maturò la decisione, quella che avrebbe determinato il corso della sua vita futura.

    Era sola in casa, i genitori, come ogni domenica erano partiti al mattino presto con la solita coppia di amici per un viaggio in moto. La sorella era con uno dei suoi ultimi filarini, sembrava che non potesse vivere senza una compagnia maschile: un uomo, ecco il suo pensiero, un uomo per accasarsi al più presto possibile. Il destino. Anna credeva molto nel destino. Chissà, forse il destino aveva deciso che in quel giorno speciale, il giorno del suo compleanno che tutti avevano dimenticato, si trovasse sola e libera di muoversi a suo piacere, di decidere di come comportarsi e di cosa fare.

    Prese la bicicletta, e risoluta di seguire il suo istinto imboccò la strada che portava alla residenza della contessina. Pedalando come una forsennata si ripeteva quello che avrebbe detto una volta in presenza della nobildonna. Si fermò un paio di volte, titubante, chiedendosi se quella era la strada giusta da seguire. Quale sarebbe stata la reazione della contessina nel trovarsi di fronte a una sconosciuta, la sua risposta a nome di quella famiglia che da lunghissimo tempo si era rifiutata di riconoscere i diritti del nonno, sempre ammettendo che quello che si sosteneva nella loro cerchia fosse la verità. Sì, quella era la decisione giusta, lei sarebbe stata la paladina della famiglia diseredata, la portavoce delle passate generazioni e delle attuali. Intendeva comunicare a quella signora che anche quel ramo della famiglia, la sua famiglia a cui tutto era stato negato, anche il nome, ora pretendeva il suo tornaconto. Con un certo batticuore mise la mano sull’appiglio del campanello e tirò con forza. Una scampanellata rintronò al di là del portone d’ingresso ripetendosi in un’eco prolungata. Quel rimbombo cupo la spaventò al punto che d’istinto si allontanò di alcuni passi con l’intenzione di darsela a gambe.

    «Sì, che posso fare per lei?» la voce femminile la colse di sorpresa mentre si accingeva a togliere il disturbo.

    Anna si fermò di botto e col piede a mezz’aria roteò su se stessa. Rimase così, in equilibrio su di un piede e gli occhi strabuzzati incapace di proferire parola. La contessina era lì, davanti a lei. Come poteva immaginare che fosse lei ad aprire il portone con tutto il personale di servizio che si poteva permettere. Il panico s’impadronì di lei e rimase a guardarla attonita. Era completamente bloccata.

    «Tu sei Anna, vero? – disse – Entra, che ti succede, hai perso la parola?».

    Sì, e come! Non solamente la parola ma anche la voce. Si sentiva la gola chiusa e quasi non riusciva a respirare. Tutto si sarebbe aspettata ma mai quella gentilezza, quell’invito. L’aveva anche chiamata per nome. Come faceva conoscerla. Ora era veramente spaventata. Forse le conveniva scappare.

    «Entra, hai paura di me? Non sono il lupo malvagio» riprese la contessina «Avanti, entra non temere».

    Titubante, e facendo i dovuti scongiuri, Anna entrò.

    Si guardò intorno con interesse quasi morboso, visualizzando con attenzione tutti i dettagli di quel luogo incantato, da lei tante volte sognato e con la speranza di poterlo vedere coi propri occhi. L’ingresso della villa, per la sua estensione, dava un’idea del lusso della dimora. Il soffitto era affrescato con immagini di putti e leggiadre fanciulle appena coperte di un tessuto trasparente e volteggianti in un bosco verde azzurro. Figure sgraziate con gambe pelose, zoccoli al posto dei piedi e occhi rossastri si nascondevano dietro gli alberi di quel luogo fatato e lanciavano occhiate furtive a quelle bellezze, vergognosi del loro aspetto. Le pareti erano tappezzate di quadri, dipinti che figuravano uomini e donne dall’apparenza arcigna e annoiata. Alcune porte aperte lungo le pareti di quel luogo d’accesso, facevano intravedere altri saloni arredati con sfarzo. In profondità, accanto a una fontana sovrastata da due sirenette allacciate in un abbraccio affettuoso, si delineava una scalinata di marmo, che in un semicerchio perfetto saliva al piano superiore per congiungersi in un pianerottolo, quasi un salottino, per l’ampiezza che ne dimostrava. La contessina entrò in uno dei saloni alla fine dell’ingresso e Anna la seguì, ancora incerta. La invitò a sedersi su di un divano dorato e suonò il campanello. Una domestica quasi centenaria entrò trascinando le gambe.

    «Comandi signora contessa» disse.

    «Dada, portami il tè e dei pasticcini, Quelli buoni fatti da te».

    «Il tè al latte oppure al limone».

    «Sia l’uno che l’altro».

    «Allora Anna, che posso fare per te?» chiese la contessina.

    Anna si raschiò la gola per darsi un contegno. Era disorientata e in quello stato confusionario si era dimenticata la ragione della sua visita. La gentilezza della gentildonna l’aveva sorpresa al punto di eliminare tutti i propositi belligeranti che si era prefissa.

    «Con tutta sincerità – cominciò – Io veramente... – riprese – Io volevo chiederle, sono venuta per una risposta...».

    Adesso che era riuscita a farsi ricevere dalla signora, ad entrare in quel luogo da lei desiderato da tempo, si era completamente bloccata e non aveva il coraggio di fiatare. L’audacia di poco avanti che l’aveva spinta a far visita alla contessina, risoluta nel pretendere il suo aiuto per il diritto di parentela, si era volatilizzato. Ora, seduta vicino a lei in quel salotto dorato di stile francese, si chiedeva come comportarsi poiché realizzava l’impossibilità della sua richiesta nel presentarsi alla residenza senza prove. Forse quello che si raccontava in famiglia non era che una fiaba per far addormentare i bambini, una invenzione per non farla sentire diversa dalle sue amiche, che a volte le rinfacciavano le origini del nonno.

    La domestica entrò con un vassoio d’argento che depose sul tavolo accanto alla contessina e nel voltarsi per ritornare in cucina il suo sguardo si posò sull’ospite. Le si avvicinò continuando a scrutarla, quasi spaventata come se avesse visto un fantasma.

    «Mio Dio – disse infine facendosi il segno della croce – Com’è possibile?» continuò e riprese ad esaminarla.

    «È possibile – la sua padrona esclamò – più che rassomigliarsi a lei direi che è la sua copia. No, non è un fantasma» continuò rispondendo alla domanda della domestica che continuava a guardarla sconvolta «Ma solamente la sua pronipote. Ora vai, mi servo da sola».

    La domestica uscì continuando a guardare la ragazza e borbottando tra di sé frasi sconnesse.

    La contessina si rivolse ad Anna che, più confusa che mai per l’accoglienza che le era stata riservata, continuava a guardarsi intorno. Non capiva che stava succedendo, la gentilezza della contessina, il comportamento della nutrice che continuava a guardarla mentre lasciava il salone, borbottando tra di sé.

    «Ora prendiamoci una tazza di tè – la contessina disse – Lo preferisci con il latte oppure con il limone? Io lo bevo all’inglese» aggiunse, riempiendo le due tazze che ti trovavano sul vassoio accanto a una teiera.

    «Anch’io» rispose Anna, osservando con diffidenza quel liquido giallo che le veniva offerto. Non sapendo come comportarsi, imitò la nobildonna e versò nella tazzina che le era stata offerta una piccola quantità di latte.

    «Io lo prendo senza zucchero, ma tu serviti pure» aprì la zuccheriera e la spinse verso di lei.

    «Grazie, anch’io lo preferisco così, al naturale» e sempre seguendo i gesti della padrona di casa con la mano sinistra prese in mano il piattino che sosteneva la tazza, e con la mano destra se la portò alle labbra. Chissà che sapore aveva questo tè. Ne aveva sentito parlare nei film e nei tanti romanzi che aveva letto, ma né lei né qualcuno di sua conoscenza l’aveva mai gustato. Sorseggiò il tè con fare disinvolto cercando di dare l’impressione di essere una abitudinaria di quell’intruglio. Non che le piacesse un granché, ma se quello era il prezzo da pagare per entrare nelle grazie della nobildonna, se ne sarebbe bevuta anche un’altra tazza. Si servì di un pasticcino su invito della padrona di casa. Quello era veramente squisito. Se ne prese ancora un paio e li depose sul piattino che le era stato servito. Conveniva approfittarne, in caso che le chiedesse di andarsene dopo la sua richiesta. A casa loro i dolci spuntavano solamente per le feste di calendario o per una qualche occasione come il compleanno del papà o della mamma, non dei figli ai quali non veniva neppure fatti gli auguri.

    «Allora, ora che ci siamo presentate – riprese la contessina – spiegami la ragione della visita, dimmi che posso fare per te».

    «Io vorrei... Veramente, sono venuta per chiedere... Mi può anche scacciare...» farfugliò.

    «Spero di non farti paura, dimmi quello che vuoi sapere da me» un accenno di sorriso smosse le labbra sottili della nobildonna.

    Ecco, ormai era fatto. Succeda quel che succeda pensò Il peggio che possa fare è di sbattermi fuori. Tanto le amiche non erano al corrente della sua bravata per cui non l’avrebbero derisa in caso di una figuraccia del genere.

    «Il nonno e mio padre mi hanno raccontato una storia. Non sono sicura se è vero oppure – si interruppe per cercare le parole giuste e il coraggio di continuare, poi decise di proseguire senza tanti preamboli – Beh, insomma, noi siamo parenti, da lontano, oppure quello che si dice in famiglia e tutta una storia?».

    «Finalmente ti sei decisa. Vieni, ti voglio mostrare un dipinto che ti interesserà e del quale rimarrai sbalordita».

    Si alzò e Anna la seguì chiedendosi quale poteva essere questa nuova sorpresa, sinceramente ci capiva sempre meno.

    Salirono la grande scalinata di marmo che si trovava all’ingresso ed entrarono in una stanza che si trovava alla fine del corridoio e che si snodava sul pianerottolo. La prima cosa che Anna avvertì fu un senso di intimità come se a lei quel luogo fosse familiare. Ebbe la percezione che da quell’ambiente si sprigionasse ancora una certa vitalità, anche se l’odore di muffa misto a un profumo appena accennato dava l’idea dell’abbandono in cui il locale era stato soggetto ultimamente. La contessina aprì i vetri di una finestra panoramica e spinse con forza sulle persiane che sbattendo contro i muri coperti da un’edera centenaria si schiusero con un tonfo sordo. Il riverbero del sole entrò con prepotenza illuminando con la luce dorata del pomeriggio il letto di mogano scuro e prezioso, che stonava non poco in quell’ambiente leggiadro, e che i pizzi finissimi che adornavano il salottino ne facevano una stanza da sogno. Le pareti erano tappezzate di un raso azzurro segnato dal tempo, ma ancora abbastanza luminoso da rischiararne l’ambiente. Il tappeto di un colore cilestrino, con dei strani disegni di satiri e angioletti alati che intrecciavano delle ghirlande di fiori di campo, copriva un pavimento di un marmo rosato. I mobili erano di stile francese, leggiadri, minuti, che in quella stanza smisurata sembravano messi lì per sbaglio, come se la persona che vi abitava avesse arredato la stanza con i mobili delle sue bambole. Il letto a baldacchino, immenso, di stile austero e intagliato in un legno prezioso, era rallegrato da una marea di cuscini dorati che lo reinserivano nell’ambiente.

    Anna restò affascinata da quella magnificenza di sfumature, provando un godimento quasi sensuale dalla bellezza di quella stanza da letto, poi, sulla destra di quel gran letto a baldacchino e al di sopra di un inginocchiatoio che mostrava le usure del tempo, notò il ritratto. Quello era il suo ritratto. La donna che le sorrideva con un mazzo di fiori in mano e il capo delicatamente inclinato era lei, sebbene un po’ più magra, i capelli più lunghi e con qualche anno in più. A parte quelle diversità, la fanciulla del dipinto era il suo ritratto vivente.

    «Ecco la risposta che volevi. Tu sei venuta per questo, lo so. Da un po’ di tempo me lo aspettavo, tra l’altro, in questi anni, io ti ho seguita da lontano e conosco il tuo caratterino» esclamò la contessina.

    «Allora è vero – disse Anna – Quello che mi raccontava il nonno era vero, tutto vero».

    «Temo proprio di sì. Ed ora che lo sai, quali sono le tue intenzioni?».

    Anna non la ascoltava, tutta la sua attenzione era concentrata su quel ritratto, il ritratto della sua bisnonna. Finalmente poteva ripeterselo: la sua bisnonna. Continuava a fissarlo dimentica del luogo, della persona accanto a lei che le parlava, dimentica di tutto. Sì, era un dipinto bellissimo, i lineamenti della donna erano delicati, quasi eterei, eppure abbastanza marcati da dare l’impressione della caparbietà della persona che aveva posato per quel ritratto. Le si avvicinò per carezzarne il viso ed ebbe quasi l’impressione che gli occhi della sua antenata la fissassero, fluttuando le ciglia lunghissime che le ombreggiavano le palpebre. Spaventata, fece un passo indietro e si ritrovò quasi addosso alla padrona di casa che aspettava con pazienza che si riprendesse da quella situazione.

    «Ora che sai – riprese – che intendi fare?».

    «Sono senza parola, scusi signora contessa, sono confusa, frastornata. Chi era, da dove veniva? Come mai il suo ritratto è ancora qui nella villa. Non era stata mandata via dalla moglie del bisavolo, cioè vostro nonno?».

    «Calmati piccola. La bisnonna non era una donna così cattiva, come d’altronde la famiglia in generale. C’è un lascito che ti è stato destinato tanti anni addietro. Avremmo potuto opporci. Non lo abbiamo fatto».

    «Non capisco, signora contessa, nessuno sapeva della mia esistenza. Un lascito alla fine del secolo scorso? Chi l’ha fatto? Come mai hanno pensato a farmi un regalo?».

    «Giusto, nessuno ancora sapeva della tua nascita, solamente aspettavano una nipote che assomigliasse alla povera defunta. Questo è stato l’ultimo desiderio del mio nonno, ed io come l’ultima della nostra casata sono contenta di poterlo esaudire. Comunque non si parla né di un regalo o di una eredità». La contessina aprì un cassetto seminascosto nella parte superiore dell’inginocchiatoio. Prese un volumetto foderato di pelle azzurra con delle iniziali incastonate in oro.

    «Ecco – disse – Questo è tuo. Questo diario ti darà quelle risposte che, sicuramente, neppure io posso darti. Prendilo, è tuo» ripeté nel darglielo «Quando avrai finito di leggerlo, ritorna a trovarmi e vedremo sul da farsi».

    Anna, disorientata dagli avvenimenti di quella giornata, avvenimenti che alcune ore prima non se li sarebbe sognati, prese il diario e stringendolo al cuore scese le scale due alla volta. Aprì il portone d’ingresso e senza salutare la sua ospitante prese la bicicletta che aveva appoggiato al muro della villa al suo arrivo. Saltò in sella e spinse sui pedali con forza. Aveva fretta di arrivare a casa, trovarsi in un posto tranquillo per leggere quel diario. Non ne avrebbe parlato con nessuno, né al papà né alla mamma e neppure alla sorella che si prendeva gioco di lei e dei suoi sogni divertendosi a metterla in imbarazzo.

    Al suo arrivo alla casa paterna trovò le amiche che la aspettavano pronte per il solito divertimento domenicale.

    «Dove eri finita? Siamo qui da oltre una mezz’ora che aspettiamo» disse una di loro «Dai preparati che siamo in ritardo per andare a ballare».

    «No, oggi non ne ho voglia, sono stanca».

    «Che ti succede? – un’altra delle ragazze chiese – Hai un’aria quasi stralunata. Che nascondi, sembra un cofanetto. Un regalo per il tuo compleanno, ce lo fai vedere?».

    «No. Lasciatemi in pace» Anna esclamò, e nascose la mano dietro la schiena. Quello era il suo tesoro e nessuno doveva esserne informato. «Vi ho già detto che sono stanca, voglio stare da sola».

    «Non essere sciocca, è il tuo compleanno. Ti farà bene stare in compagnia. Forse vedrai anche il tuo... lo sai chi...».

    «Ho detto che non ho voglia di venire né di vedere quel sai chi».

    Il gruppetto delle amiche la seguì.

    «Sei sicura che poi non ti pentirai di rimanere sola in un giorno come questo?».

    «Lasciatemi in pace. Ho detto che non voglio venire».

    «D’accordo, ma che ti prende, perché ti arrabbi tanto? Se proprio non ne hai voglia, sono fatti tuoi» esclamò Maria, ora arrabbiata dal suo comportamento.

    Il gruppo delle amiche si incamminò borbottando tra di loro ma lasciandola finalmente in pace. La sorella si trovava all’entrata del portone, che come al solito si sbaciucchiava con un nuovo tipo che non conosceva.

    «Ci risiamo» costatò tra di sé, e per non imbarazzarla passò oltre. Quella se non aveva un uomo che le metteva le mani addosso... Aveva ragione la mamma.

    «Non vai a ballare?» chiese senza allontanarsi da quel tipo che continuava a tenerla stretta dimenandosi e ansimando.

    «Non oggi, sono stanca, vado su. Il papà e mamma sono tornati?».

    «Non ancora. Che farai tutta sola in casa?».

    «E tu che farai, continuerai a farti palpeggiare qui dove passano tutti? E chi è sto’ tipo che si sta dimenando?» chiese Anna».

    «E che te ne frega?» replicò la sorella «Bada ai fatti tuoi».

    «Allora ci vediamo» Anna aggiunse, ben sapendo che la sorella non sarebbe rientrata prima di mezzanotte. Avrebbe avuto l’appartamento tutto per sé, libera di leggersi quel diario che teneva stretto stretto al cuore come se fosse un tesoro.

    Si sedette sul divano letto della sorella e aprì il diario con delicatezza considerandone l’età, il bisnonno l’aveva scritto tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento. Finalmente, sola e nel silenzio della stanza si immerse nella lettura.

    Capitolo 2

    Camillo era il figlio terzogenito del conte. Quel nome gli era stato imposto per volere del padre in onore di uno dei suoi grandi eroi: Camillo Benso, conte di Cavour. Il suo casato, da come ricordava, era asservito all’Austria mentre lui, il conte, era un fervente patriota e parteggiava per un’Italia unita, per un’Italia con i Savoia come regnanti. Le sue idee gli avevano procurato molti problemi con l’aristocrazia del momento, tutti pro-austriaci, e specialmente con la piccola nobiltà della provincia. I loro privilegi erano fondati sul sistema latifondista e avevano bisogno di contadini sottomessi e bisognosi per il lavoro dei campi. Le nuove idee di autonomia che circolavano tra la popolazione civile dello stato Estense avrebbero indebolito le basi di quella struttura burocratica che dava loro la possibilità di vivere una vita agiata e senza incognite. Ne avevano avuta prova nel ’31, quando Ciro Menotti, incoraggiato dalle idee di Mazzini e di Garibaldi, tentava un’insurrezione contro il giogo dell’impero austriaco. La rivolta venne prima respinta poi soffocata nel sangue da Francesco IV, che per la fortuna della nobiltà di allora mandava Ciro Menotti al patibolo. Nonostante le repressioni della milizia austriaca, la consapevolezza di un regno italiano alla guida dei Savoia continuò ad infervorare l’animo dei patrioti che crescevano in dismisura, stanchi di essere sottomessi alla tirannia di uno stato straniero. Continuarono la loro battaglia, imperturbabili, anche al sacrificio estremo delle loro giovani vite, e alla fine, tra mille contestazioni e una quantità di martiri, riuscirono nel loro intento. All’unificazione al Regno d’Italia nel 1860, Modena non si ritrovò più la capitale di un ducato, ma unicamente una delle tante città di provincia del regno. I tanti nobili dei dintorni da latifondisti furono declassati a padrone di podere, e a causa dei vari problemi economici e sociali, riuscirono a mantenere, con molta difficoltà, quel modello di vita che fino ad allora li aveva distanziati dalla plebaglia.

    Il conte, contrariamente alle teorie dei signorotti dei dintorni e avendo una visione all’avanguardia per gli affari, aveva investito parte dei beni liquidi in una fabbrica di ceramica. Quel piazzamento di denaro gli assicurava una decente rendita annuale, che gli dava la possibilità di sostenere le spese per il mantenimento del palazzo in città e anche le spese della villa in campagna.

    Il conte aveva allevato i figli nel rispetto della Patria, della monarchia e del loro rango sociale. Reputando l’epoca in cui viveva, il conte si riteneva una persona di concezione moderna se messo a confronto con l’irragionevolezza dei possidenti nei dintorni, ma credeva fermamente nella diversità delle classi sociali. Per lui un nobile era sempre un nobile, come un plebeo era pur sempre un plebeo: era impossibile inglobarli in una convivenza e ciò a causa di discordanze impossibili da sormontare. Questo concetto era affiancato dalla moglie, una donna molto più all’antica il cui unico scopo nella vita terrena era quello di allevare la famiglia, sottomettersi al volere del marito e passare una buona parte della sua giornata a sgranare un rosario dopo l’altro. Dal giorno del loro matrimonio dormivano in stanze separate. Le notti trascorse assieme erano state le poche che avevano dato origine alla loro prole: cinque figli, tre maschi e due femmine. La contessa era a conoscenza delle tante avventure del marito e di una relazione che durava già da anni con una donna di teatro. Quella realtà non la turbava. Il conte come uomo, e basandosi sul tipo di educazione di quel particolare periodo, disponeva della sua esistenza a suo piacimento dilettandosi con le tante scappatelle di attricette compiacenti, mentre la moglie aveva il dovere di accudire la famiglia, sorvegliare il personale di servizio e di organizzare il festeggiamento per le ricorrenze che la religione le imponeva. Era felice, questa realtà derivava dal rispetto che il conte le dimostrava per la dedizione nell’occuparsi delle mansioni domestiche, e questo faceva di lei una donna appagata. Era sposata a uno dei migliori partiti della zona appartenente all’alta nobiltà del luogo, oltretutto il conte soddisfaceva il suo ego di nobildonna concedendole il rango che le competeva: la rappresentante femminile del casato e la completa libertà nell’andamento della dimora di famiglia.

    Camillo era cresciuto in quell’atmosfera di novità e tradizioni. Suo fratello, il primogenito della famiglia, aveva seguito le orme dello zio materno ed era entrato nell’Accademia Militare per uscirne come alto ufficiale, mentre il secondo fratello si era impegnato nella diplomazia. Lui, invece, il terzogenito della famiglia, il cadetto in linea di discendenza, aveva avuto la possibilità di scegliere come impostare la propria educazione. Finiti i corsi superiori, si era iscritto all’università per proseguire gli studi e laurearsi. Aveva scelto la facoltà di scienze politiche dal momento che quella era la disciplina che l’appassionava e si era laureato con dei voti superiori alla media. Anche lui, come il padre, aveva delle idee progressiste considerando l’epoca in cui viveva. Credeva nell’uguaglianza delle persone, nella possibilità di successo anche per i soggetti che non avevano una famiglia su cui fare assegnamento al momento dell’iscrizione nei vari collegi e istituzioni di insegnamento. Era persuaso nell’emancipazione delle donne. Era convinto che la Rivoluzione francese avesse del buono nel suo contesto e credeva in quella loro dichiarazione universale dei diritti, che uomini e donne dovessero essere trattati allo stesso modo. Ammirava le battaglie delle suffragette nella lontana America, che chiedevano il diritto di voto anche per le donne. L’Italia era un paese latino ove la tradizione cattolica era un modo vivendi, e specialmente quelle di estrazione nobile, erano educate e indottrinate al concetto della supremazia maschile, per cui la nozione di accedere a un nuovo percorso di pensiero per il sesso femminile era inconcepibile, se non impossibile. Specialmente in quel paese di provincia dove viveva Camillo. La vita familiare per la nobiltà del luogo non era cambiata. All’interno del nucleo familiare la donna era sottomessa al marito, che rimaneva il garante e l’amministratore dell’unione coniugale. Contemporaneamente, in seguito alla Rivoluzione Industriale, sempre più donne della plebe, per poter sopravvivere alla miseria endemica, lasciavano il focolare domestico per lavorare nelle fabbriche: Camillo ammirava quelle popolane fiere e senza peli sulla lingua. Le donne del suo rango, con quei riccioli cadenti sul viso incipriato, quelle finte svenevolezze per farsi notare, quella sottomissione caratteristica e sdolcinata lo infastidivano, e paventava il momento in cui la madre gli avrebbe fatto notare che l’ora di sistemarsi era prossima. Alla sua età, quasi venticinquenne e con una laurea universitaria già acquisita, l’argomento non sarebbe tardato ad arrivare. Gli avrebbe proposto una delle tante ragazze della buona società di sua conoscenza, una di quelle bambole senza carattere. Lui sognava una donna ardente, una compagna che avrebbe diviso con lui il letto matrimoniale per amarlo e dargli tutta se stessa. Aspirava a una connivente con la quale dividere i suoi momenti di passione e di dolore, se la sua esistenza gliene avesse procurati. Sapeva che quell’ipotesi era e sarebbe rimasta un sogno impossibile, eppure si lasciava cullare da questa illusione, e ciò per sfuggire la realtà che presto lo avrebbe spinto ad accettare i doveri che la discendenza a cui apparteneva gli imponevano.

    La contessa madre guardò quel suo ragazzo che faceva colazione seduto di fronte a lei. Era veramente bello, il più affascinante di tutta la sua prole e anche delle ragazze, che non avevano nulla di appariscente. L’avvenenza di quel suo figlio cadetto, che non assomigliava a nessuno di loro, la affascinava, e malgrado cercasse di non avere preferenze tra i suoi ragazzi, quel giovane era il suo beniamino.

    «Il trenta del mese prossimo sarà il vostro compleanno» disse la contessa.

    «Completerò i fatidici venticinque anni» costatò Camillo, alzando gli occhi dal giornale che stava leggendo.

    «Gli inviti per la festa del vostro compleanno sono stati recapitati – aggiunse la madre – Ci saranno anche alcune ragazze della provincia, e oltre a essere molto attraenti esse appartengono alle famiglie più in vista della zona».

    «Vi ringrazio per quello che state facendo per me, madre, ma io vorrei festeggiarlo con i ragazzi dell’università, i miei amici».

    «Potrete farlo più tardi e a vostro grado. Ora è importante che voi entriate a far parte della cerchia dei nostri amici, a conoscere le ragazze che vi fanno parte. Presto dovrete scegliere una moglie».

    «Non pensate che sia ancora presto per accasarmi? Non ho ancora trovato un lavoro, come potrei presentarmi alla famiglia dell’eletta?».

    «Lavoro, ma voi non dovrete lavorare, siamo aristocratici. Il conte, vostro padre, una volta accasato, vi attribuirà la vostra parte di eredità che è più che sufficiente per mantenere una famiglia, oltre che a dei poderi nella provincia, dei quali voi sarete responsabile».

    «Io devo lavorare, madre. Non posso stare in ozio. Mi annoierei a morte, tra l’altro i miei fratelli hanno una posizione invidiabile, e come potrei io, in loro presenza, sentirmi soddisfatto di essere il favorito poiché mantenuto da voi?».

    «Allora, se proprio vi aggrada, potreste interessarvi alla fabbrica di ceramica in città. Il conte ha bisogno di riposo e gradirebbe il vostro aiuto».

    «L’offerta mi aggrada, e come. È da qualche tempo che desidero entrare a far parte di quel complesso» disse Camillo.

    «Ma mio fratello? Lui che ne pensa».

    «Vostro fratello non ha tempo per occuparsi di quell’impresa. Come ben sapete si trova a Roma per intraprendere la carriera diplomatica – aggiunse la madre con un che d’orgoglio – E ha delle ottime referenze per riuscirvi».

    «Sua moglie e i suoi figli lo seguiranno? Si stabiliscono con lui?».

    «Per il momento resteranno nella nostra residenza di campagna, poi si vedrà. E probabile che si riuniranno una volta che vostro fratello si sarà sistemato. Questo unicamente se il paese dove sarà inviato potrà offrire ai loro ragazzi la possibilità di frequentare una scuola adeguata ai requisiti che la nostra condizione aristocratica ci impone».

    «E il conte, mio padre? Dove si trova al momento?».

    «A Milano – rispose la contessa – Siccome ha molte cose da sbrigare ha telegrafato pregandomi di dirvi che domani dovrete passare dalla fabbrica. Il direttore sarà a vostra disposizione e vi informerà sul da farsi».

    Camillo si abbassò per raccogliere il tovagliolo che aveva fatto scivolare appositamente a terra. In sua presenza si sentiva a disagio quando gli parlava del padre e dei suoi affari. Sapeva che da sempre la madre era al corrente che suo marito, il conte, quando a Milano, viveva con la sua amante in un appartamento del centro. Si sentiva in imbarazzo, quasi in colpa invece, costatando come il padre tradisse la moglie con tanta inciviltà, senza accertarsi che il suo entourage non ne venisse a conoscenza. Odiava il cinismo di quell’epoca in cui viveva, il menefreghismo con cui gli uomini di buona famiglia tradivano le mogli, e oltretutto pavoneggiandosi delle loro conquiste più che altro di donnette di teatro e di facili costumi. Eppure quella era la realtà nella quale viveva e che presto, forse, lo avrebbe cambiato facendogli accettare suo malgrado quella esistenza.

    Il salone risplendeva di una miriade di luci. Tutto era stato lustrato al massimo. L’argenteria, i ninnoli di cristallo, i grandi vasi antichi di murano disposti sui tavolini e sulle mensole dorate addossate alle pareti rivestite di raso arricchivano l’ambiente creando una realtà da fiaba. Le signore, sedute sulle poltrone nei loro vestiti accollati e i capelli raccolti all’indietro, conversavano tra di loro. Le ragazze, tutte vestite di bianco, bustino stretto in vita e un’infinità di balze che ne nascondevano il resto delle forme del corpo, si tenevano in piedi vicino alle loro madri aspettando, con ansia, che uno dei giovanotti presenti gli si avvicinasse per invitarle a ballare. Quella festa era stata organizzata per Camillo che in quel giorno sarebbe entrato ufficialmente a far parte dell’alta società della provincia. Ora che aveva preso in mano le redini della fabbrica del padre era considerato un adulto in piena regola. Il tempo per accasarsi era prossimo. Doveva decidere e fare la sua scelta tra le ragazze presenti alla festa che la madre aveva organizzato quella sera. In quella occasione anche il conte, su preghiera della moglie, aveva lasciato i suoi affari a Milano che lo trattenevano sempre più a lungo per essere a fianco della contessa, sostenerla e aiutarla nei festeggiamenti.

    Tutto era perfettamente organizzato, le feste che la madre allestiva non avevano pari tra le famiglie della regione, e qualsiasi giovane nella sua posizione si sarebbe sentito orgoglioso di tanto fasto.

    Camillo, invece di gioire delle possibilità del suo casato, era infastidito dalla marea di invitati che si affrettavano per complimentarlo, e dal cinguettio di quelle giovani donne imbalsamate nei loro abbondanti abbigliamenti che ne nascondevano qualsiasi femminilità.

    Si allontanò dai sui amici per appartarsi. Si sedette su di un divano parzialmente nascosto dai pesanti tendaggi che ornavano le finestre panoramiche, si accese una sigaretta e aspirò con voluttà. Aveva bisogno di stare solo per riflettere, per capire la ragione del panico che si era impadronito di lui e che non riusciva a controllare, angoscia causatagli dagli sguardi bramosi delle madri presenti che già se lo proponevano come il futuro marito di una delle loro ragazze. Si sentiva come un animale braccato, e avvertiva lo sgomento dell’arresa incondizionata che ne sarebbe seguita. Che fosse sua intenzione o meno quella sera o nelle prossime settimane, se non lui la madre, avrebbe scelto la sua futura sposa tra le ragazze propostogli durante quel ricevimento.

    In tutta la serata, per quanto le avesse osservate con molta attenzione, nessuna delle presenti era risultata diversa dalle altre. Nessuna di loro, tenendole tra le braccia durante il ballo d’obbligo, aveva stimolato in lui un qualsiasi sentimento. Era quello il matrimonio: l’unione di due anime? Avrebbe avuto la costanza di resistere un legame senza amore o passione, a quel nulla assoluto? Camillo avvertì un qualcosa che gli attanagliava la gola dandogli un senso di soffocamento, di imbarazzo nel respirare.

    «Che c’è ragazzo mio?» la voce del conte lo colse di sorpresa, riportandolo alla realtà del luogo e dei festeggiamenti che lo volevano presente.

    «Vi chiedo scusa padre» Camillo disse e nascose dietro la schiena la mano che reggeva la sigaretta. Si sentiva in disagio a fumare in sua presenza.

    «Ragazzo mio, oramai anche voi siete un adulto e avete il diritto di comportarvi come tale» replicò il conte. «Come mai, qui, tutto solo? Che succede, non state bene?».

    «No, sto bene. Ho sentito il bisogno di stare solo per raccogliere i miei pensieri. Voi conoscete le intenzioni della signora contessa, mia madre, in questi giorni ho ricevuto una specie di ultimatum relativo alla mia sistemazione».

    «Preoccupato vero? Conosco la paura che vi tormenta».

    «Ma è proprio necessario decidersi ora? Io vorrei amare la donna che intendo sposare, che non si trova certamente tra le ragazze che sono state invitate questa stasera. Sembrano dei manichini che si muovono ad ordini ben precisi. Non mostrano alcun sentimento, non sembrano umane».

    «Forse adesso, ragazzo mio, può darsi che accetterete, o almeno questa nuova esperienza vi aiuterà a capire il mio comportamento. Mi sono trovato nella stessa situazione tanti anni fa e dovetti rassegnarmi, come voi sarete costretto farlo per il casato e per il buon nome cui siamo depositari».

    «Ma il vostro sembra un matrimonio solido, anche se la signora contessa, mia madre, si è adeguata a certe condizioni. Come siete riusciti, entrambi, ad accettare questa situazione per tanti anni e restare in condizione di cordialità e cameratismo?».

    «Come buoni amici. Rispetto per entrambi e per la famiglia che abbiamo formato. La contessa, vostra madre, è soddisfatta ed estremamente felice del compromesso. Bisogna capirla. Dal nostro matrimonio, combinato dalle due famiglie, ha seguito i consigli della madre, che tra l’altro sono i principii su cui ogni donna della buona borghesia è stata educata».

    «Ma senza amore e passione... È possibile amare i figli nati da un simile matrimonio?».

    «Sì ragazzo mio, voi tutti, figli miei, siete la ragione per la quale ho accettato quello che la vita mi ha proposto. Specialmente ora, alla mia età è bello trovarsi in famiglia con dei nipoti. Penso che, presto, lascerò l’ufficio di Milano per godermi un po’ di riposo. Ora, venite, siete voi l’ospite d’onore. Siete voi, questa sera, uno dei depositari del nostro nome e casato. Non fatevi desiderare».

    Camillo fu alquanto stupito delle confidenze che il padre gli faceva, ma fu felice per la madre che finalmente avrebbe avuto il conte tutto per lei. Nella penombra della stanza appena illuminata, il suo sguardo si soffermò sul viso del padre finalmente al suo fianco. Il genitore era arrivato nella tarda mattinava e aveva deciso di ritirarsi nei suoi appartamenti per non intralciare i preparativi in corso. Scrutandolo attentamente notò il suo aspetto affaticato, trasandato. Era molto dimagrito e questa realtà si poteva appurare sul viso, una volta florido ora affilato. Forse aveva problemi di salute di cui non voleva parlare. Mentre cercava le parole adatte per informarsi della sua salute, il conte si alzò lasciandolo nuovamente solo con i suoi dubbi e considerazioni. Avrebbe avuto, lui, la costanza di accettare quel tipo di matrimonio? E poi come scegliere, chi scegliere?

    Stanco di scervellarsi si accinse a rientrare. Alla fine la madre avrebbe deciso per lui.

    Erano passati sei mesi dal famoso ballo del suo venticinquesimo compleanno e Camillo si ritrovava a una settimana dal suo matrimonio. La scelta della madre per la sposa del figlio, alla fine Camillo si era arreso al destino che il suo rango gli proponeva, era caduta su di una nobile fanciulla del vicinato che avrebbe portato in dote, a parte un titolo risonante, anche una somma cospicua di danaro. Stefania non era una bellezza appariscente ma gradevole, di buone maniere e allevata per accudire una famiglia e obbedire a un marito. Sua madre, la contessa, aveva scelto l’esatta copia di se stessa confidando che l’educazione della prescelta avrebbe giovato al decoro della famiglia e alla generazione futura. La residenza assegnata ai novelli sposi era la villa di campagna, ora libera siccome il fratello, promosso a grado di ambasciatore, era partito portando con sé la famiglia. Il padre aveva interrotto i suoi viaggi a Milano e da quel giorno era molto cambiato. Aveva ceduto il controllo della fabbrica al figlio cadetto, l’unico rimasto con i genitori, proponendolo come esecutore dei beni della famiglia, sorprendendo amici e lo stesso Camillo che conosceva il carattere energico del genitore. Inoltre il suo comportamento era di un disinteresse completo nelle cose e nelle persone che lo circondavano. Passava ore e ore nel suo studio senza fare nulla, con lo sguardo vago, immerso in pensieri tutti suoi personali. Camillo era stato informato da certi conoscenti del padre della tragica scomparsa della sua amante. Si era tolta la vita gettandosi dalla finestra del loro appartamento di Milano che si trovava al sesto piano, e questo quando aveva compreso che l’abbandono da parte del suo amante di tanti anni era definitivo. Il conte si sentiva responsabile e colpevole della morte della sua compagna che era stato il grande amore della sua vita e ne soffriva terribilmente. La reazione del padre a questa sciagura lo aveva sbalordito. Camillo lo aveva sempre considerato un uomo freddo e calcolatore, ora, contrariamente all’idea che si era fatto di lui, realizzava che il padre provava sentimenti che mai aveva lasciato trapelare in famiglia. Oltretutto ora capiva e ammetteva le tante avventure amorose del padre il quale si era trovato nella condizione di vivere un matrimonio combinato dai suoi genitori. Ora era lui a trovarsi nella stessa situazione. Chissà come si sarebbe comportato legandosi a una donna per la quale sentiva tanto rispetto ma altrettanta indifferenza. Ancora una settimana e poi la vita di adulto sposato, e presto forse anche padre.

    Il giorno del matrimonio del figlio cadetto era arrivato. La contessa, agghindata con i gioielli di famiglia, guardava soddisfatta gli ospiti che si aggiravano nel grande salone, salutandosi e conversando cordialmente. Il matrimonio del conte Camillo e la duchessa Stefania era stato suggellato nella cappella privata di famiglia, con la sola presenza dei familiari di entrambi gli sposi. Poi, a piedi, avevano raggiunto il grande salone, dove gli ospiti, tutti i nobili della provincia, li aspettavano per felicitarsi con loro.

    «Le mie più vive congratulazioni» il fratello, con tanto di fascia a tracolla che mostrava il suo grado di alto funzionario della monarchia, lo raggiunse per stringergli la mano.

    «Vi ringrazio sig. Ambasciatore. Quando siete arrivato?» Camillo s’informò ed ebbe la tentazione di salutarlo sull’attenti per l’ostentazione che mostrava.

    «Durante la mattinata. Non ho portato la famiglia siccome mi fermo solamente per un giorno, Partirò domani mattina. Nostro fratello l’ammiraglio si è fatto vedere?» chiese poi, guardandosi intorno.

    «Anche lui e arrivato senza la famiglia. I suoi due ragazzi frequentano l’Accademia. È in salotto che si pavoneggia con le signore» disse, mostrandogli uno di locali dall’altra parte del salone. «Anche voi, immagino, sarete ospite del conte nostro padre. A proposito, durante la cerimonia in chiesa era al vostro fianco. Dove si trova ora?» s’informò Camillo, rivolgendosi al fratello ambasciatore.

    «Sta conversando con gli ospiti. Che gli succede? Ha l’aria molto stanca. È in cura con il nostro dottore?».

    «Voi siete a conoscenza del suicidio della sua amica a Milano?».

    «Ma sì. Ed è questo che lo ha ridotto in quello stato pietoso?».

    «A parte che ha qualche problema di cuore, confermatoci dal professore che l’ha visitato il mese scorso, il conte, nostro padre, si sente responsabile della morte della sua amante. Sono stati assieme tanti anni, dopotutto».

    «Per una donna simile! Purtroppo devo ammettere che il conte, nostro padre, ha perso il senno. Meno male che siete voi a curare gli interessi della famiglia altrimenti me ne preoccuperei». La meschinità del fratello verso il genitore lo irritava, anzi, lo mandava su tutte le furie. Non aveva alcuna sensibilità: era evidente che come sentimenti si assomigliava alla madre. Ebbe l’impulso di ribattere, di insultarlo. Meglio lasciar correre invece d’imbarcarsi in una discussione che non avrebbe smosso il fratello dalle sue ideologie. Bastava lui per sostenere il padre, in caso lo avesse richiesto.

    La giovane moglie lo raggiunse per mettersi al suo fianco e ricevere le congratulazioni degli ospiti che affollavano la sala. Nel suo vestito bianco accollato, i capelli alla vergine con la riga in mezzo e la chioma raccolta all’indietro sembrava più una ragazza in procinto di prendere i voti per diventare suora

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