Il regno di cristallo
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Anteprima del libro
Il regno di cristallo - Jessica Costanzini
fantasy)
TITOLO | Il Regno di Cristallo (non è un romanzo fantasy)
AUTORE | Jessica Costanzini
ISBN | 978-88-31638-25-8
Prima edizione digitale: 2019
© Tutti i diritti riservati all'Autore.
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Troverai sollievo alle vane fantasie se compirai ogni atto della tua vita come se fosse l’ultimo.
Marco Aurelio
La fantasia è un’ottima serva, ma una pessima padrona.
Agatha Christie
Oro bianco oppure oro giallo?
La donna dietro al bancone sembrò accarezzare l’aria con un movimento della mano, come ad accompagnare quella difficile scelta con tutta la sua dolcezza. Lo sguardo dell’uomo scivolava interrogativo tra i due ciondoli adagiati nei rispettivi astucci foderati di velluto nero. Il ticchettio degli orologi riempiva il silenzio, conferendo al momento una solenne tensione.
La rassegnazione apparve sul volto di lui dopo pochi, interminabili secondi.
Non ne ho idea. Marisa, tu cosa mi consigli?
Marisa non aspettava altro. Erano mesi che non aspettava altro, da quell’ultimo cliente di passaggio che, per puro caso, si era fermato ad acquistare un orologio nell’imminenza di un compleanno di cui si era completamente dimenticato.
Per un attimo fu come se quei due ciondoli, chiari pegni d’amore, rappresentassero un dono anche per lei. Non per la cifra che ne avrebbe ricavato e che a malapena avrebbe coperto la bolletta della luce, ma per quella breve ma intensa sensazione di rinnovata speranza. Per un attimo Marisa riuscì a riattribuirsi un senso, uno scopo. Marisa ci era invecchiata, in quella piccola gioielleria di famiglia, incastonata nel cuore della pianura padana, proprio sulla via principale - nonché unica strada - che attraversa il paese di Limiti. Negli ultimi decenni il paese si era via via svuotato, il giro di affari era drasticamente diminuito, e Marisa aveva dovuto scegliere se mantenere la casa o l’attività. Oro bianco oppure oro giallo? Se solo avesse avuto una commessa dal fare amorevole a consigliarla, al posto di montagne di debiti e gelidi funzionari di banca…
Marisa aveva scelto il negozio proprio per onorare quell’etica del lavoro e quel bisogno di tenersi stretta a un senso di identità che le erano stati trasmessi dalla sua famiglia. Da allora viveva in un piccolo locale, un tempo adibito a magazzino, sul retro. Non le pesava la dimensione del sacrificio, altra eredità che aveva accolto dal suo albero genealogico. Quello che via via la stava consumando, sino a renderla l’evanescente ombra di se stessa, era l’ineluttabilità. Le infinite giornate tumulata in quelle quattro mura, in lotta contro la polvere e in costante attesa che qualcuno le riconfermasse ciò che era: la signora della gioielleria, quella tanto carina, che coi suoi monili aveva impreziosito per generazioni le promesse, le dichiarazioni e le celebrazioni di tutta una comunità. Rinunciare a tutto questo, per Marisa, era come rinunciare alla sua intera esistenza.
Oro bianco o giallo. Se avessi avuto un soldo per ogni uomo che non ha saputo fare questa scelta…
La nostalgia le si fermò in gola, impedendole di terminare la frase. Allungò le mani deformate dall’artrite cingendo il volto dell’uomo in una carezza.
Mi ricordo, Tommy, quando non arrivavi nemmeno al bancone, e ora guarda come ti sei fatto grande e bello. È una ragazza fortunata, la tua. Come hai detto che si chiama?
Emma.
E che tipo è?
Tomaso, preso alla sprovvista, si passò una mano fra i capelli nel tentativo di racimolare una descrizione adeguata che rendesse onore alla sua fidanzata, poi decise che sarebbe stato più facile mostrare una foto. Marisa dovette inforcare gli occhiali per mettere a fuoco le immagini che Tomaso faceva sapientemente scorrere sul suo cellulare. Primi piani, pose in luoghi di vacanza con mise impeccabili e scene di vita quotidiana si alternavano sotto l’occhio inquisitorio della gioielliera. Unica protagonista, una ragazza dai lunghi capelli castani, un fisico statuario e un sorriso perfetto perennemente stampato sul volto.
È bellissima, Tommy. Ma non sarà troppo giovane?
Ma no Marisa, ci sono solo cinque anni di differenza.
Avrei detto quindici! E questo è il terzo anniversario, giusto?
Il quarto.
È una cosa seria allora,
disse lei, ammiccando. Ma non potrebbe essere altrimenti, tu sei sempre stato un ragazzo serio. Non come quei fannulloni che vanno tanto di moda oggi. Ad ogni modo, a vederla direi oro bianco, più giovanile, ma l’oro giallo rappresenta un impegno più duraturo e voi due ragazzi, dopo quattro anni siete in odore di nozze.
Il volto di Tomaso in pochi istanti avvampò e i suoi occhi sgranati incrociarono quelli maliziosamente socchiusi di Marisa.
Ora non esagerare!
E cosa vuoi aspettare? Guarda che la vita è breve.
Un velo di amarezza ammantò le parole della donna, mentre con sapiente maestria impacchettava il gioiello. A lei, di gioielli non gliene avevano mai regalati.
I due si salutarono con un abbraccio. La donna si raccomandò, con quella tenera prepotenza tipica delle anziane sicure della loro saggezza, di non deluderla strappandogli la promessa che di lì a massimo un anno, sarebbe tornato per le fedi nuziali.
Il tintinnio dello scacciapensieri sulla porta accompagnò l’uscita di Tomaso, seguito dal rumore secco della serratura. Marisa era sempre stata ossessionata dai ladri sebbene a Limiti, a memoria d’uomo, non si sia mai registrato un furto.
Tomaso attraversò lo stradone senza nemmeno guardare, in fondo era raro che qualche auto passasse. Giunto all’altro lato si volse ancora una volta per salutare Marisa attraverso la vetrina, ma la donna si era già rintanata sul retro. Lui rimase qualche istante a osservare il negozio, l’unico con la serranda alzata e una luce fioca al suo interno.
Alla sua destra spiccava la piccola insegna traballante, da anni spenta, dello stravagante Ringo, il fotografo. Il nome gli era stato conferito ad honorem per via di una vaga somiglianza con il batterista dei Beatles. Ringo era il ribelle del paese, quello con la motocicletta, la barba incolta, i capelli lunghi, gli stivaletti di pelle e un qualche libro sempre sotto al braccio. Oggetto di dicerie e bersaglio preferenziale di scherzi a volte crudeli, se ne era andato per qualche tempo, ma poi era tornato per accudire la madre morente e, in un goffo tentativo di riscatto sociale, aveva aperto quello studio che tutti ricordano sempre vuoto. Tomaso si sforzò inutilmente di ricordare il suo vero nome.
A sinistra la vetrina tappezzata di fogli di giornale di quella che fu la cartoleria. Chiusa la scuola già nei primi anni novanta per mancanza di alunni, nel giro di poco aveva chiuso anche il negozietto che riforniva gli scolari. Tomaso era stato uno degli ultimi bambini, a frequentare le elementari e le medie del paese, e oggi era uno dei pochi a non essersene ancora andato.
Tutt’attorno spiccavano desolate e scolorite le targhe con scritto vendesi
e affittasi
con numeri di telefono scarabocchiati a mano, ormai resi illeggibili dall’impietoso scorrere del tempo e dalle intemperie. Un lampione, l’ennesimo, prese a sfrigolare esalando i suoi ultimi bagliori. Un altro cono di oscurità aveva avuto la meglio. Limiti stava diventando un paese fantasma e, sempre più spesso, Tomaso, aveva la sensazione di essere destinato a seguire la stessa sorte.
Una folata di vento diede il colpo di grazia all’insegna del fotografo, sradicandola dai perni e precipitandola al suolo. Solo la cornice aveva evitato che andasse in mille pezzi. Tomaso individuò nel fitto reticolo di fratture quello che doveva essere il logo di una marca di pellicole accompagnato dall’evocativo motto siamo i nostri ricordi
.
Il tonfo parve risvegliare il paese dal suo torpore. Non era tardi ma i pochi abitanti rimasti avevano consolidato l’abitudine di rincasare sempre prima del crepuscolo, avendo cura di serrare bene gli infissi. Non si era trattata di una scelta condivisa mossa da circostanze concrete, ma di un istintivo senso di autoprotezione dal vuoto che dilagava a Limiti, al calar della sera.
Da qualche finestra socchiusa sbucarono guardinghi i profili dei residenti, illuminati dalla luce bluastra dei televisori. Seguirono voci prima sussurrate e via via più sostenute. Da un balcone al primo piano di una casetta, una voce maschile richiamò l’attenzione di Tomaso. Era la voce di Alfredo, un ex controllore ferroviario andato in pensione a quarant’anni e che da allora aveva deciso che sarebbe andato solo dove avrebbero potuto portarlo le sue gambe. Dieci anni dopo, un incidente compromise l’uso della gamba destra. Alfredo rifiutò di curarsi e per coerenza non varcò più il cancello di casa. Solo la solidarietà dei vicini gli permise di sopravvivere.
Tommy, sei tu?
Sono io, Alfredo!
Cos’è successo?
È venuta giù l’insegna di Ringo!
E adesso chi glielo dice, che è in India?
A Bali!
Rispose perentorio qualcuno dall’altro lato della strada.
Ma che Bali e Bali! È in America!
Puntualizzò una stridula voce femminile poco più in là.
La diatriba sull’attuale residenza di Ringo proseguì per qualche minuto. Di grido in grido, il paese fece il giro del mondo.
In verità nessuno sapeva dove fosse finito Ringo. Un bel giorno, la saracinesca del suo studio rimase abbassata. Nessuno se ne preoccupò. Non era insolito che il fotografo si allontanasse per andare ad eseguire qualche servizio, o almeno così diceva. Ma Ringo, da quel giorno, non tornò più.
La sua assenza divenne un problema per la comunità solo quando la sua posta iniziò a strabordare dalla cassetta, riversandosi sul marciapiede. Un giorno Marisa perse l’equilibrio e per poco non scivolò su un catalogo pubblicitario. Quello che poteva essere un incidente, e che per miracolo non culminò con una caduta, portò il paese ad indire una riunione d’emergenza. La frangia più anarchica della comunità propose di aprire le missive, almeno quelle cadute su suolo pubblico, alla ricerca di qualche indizio sul fotografo. I più conservatori insistettero sulla possibilità di chiamare la polizia e consegnare alle istituzioni l’ingombrante malloppo, giusto per non avere grane.
L’impossibilità di trovare un accordo portò a una scelta drastica: venne ufficiosamente istituita la Commissione Ringo
. Un manipolo di pochi virtuosi che si sarebbero presi la responsabilità di decidere cosa fare delle lettere. Marisa, in quanto quasi-parte lesa, venne eletta Presidente della Commissione e dall’alto di questa onorificenza, previa votazione, si offrì di custodire gratuitamente la posta di Ringo nella cassaforte del suo negozio, in attesa del ritorno del legittimo proprietario.
Da quella sera, su Ringo cominciarono a circolare strane voci.
Qualcuno giurò di averlo sentito parlare al telefono pubblico del bar, un vecchio SIP a gettoni, in inglese o forse in tedesco. Qualcun altro disse che aveva ereditato una discreta somma, sufficiente per rifarsi una vita in uno di quei paesi esotici di cui amava parlare, le rare volte in cui qualcuno gli rivolgeva la parola: Indonesia, Giappone, Madagascar.
Il mistero si infittì il giorno in cui il postino consegnò una cartolina destinata al fotografo. La Commissione Ringo si radunò e all’unanimità dichiarò il contenuto indecifrabile, per via di quegli strani caratteri presumibilmente cinesi. La cartolina finì in cassaforte, in attesa di essere reclamata.
Nel giro di poco, di posta, nello studio ne venne consegnata sempre meno e il ricordo del fotografo cominciò a diluirsi nella memoria collettiva.
Siamo i nostri ricordi.
Ringo fu il primo a tramutarsi in un fantasma.
Marisa stava via via svanendo nel retro della sua stessa esistenza. Ringo era sparito ed era stato rimosso. Alfredo si era autocondannato alla reclusione senza possibilità d’appello. Tomaso avvertì il vuoto premergli sul petto, insinuarsi tra le fibre del maglione e farsi strada tra i pori della pelle, per poi riversarsi come una marea in ogni cellula del suo corpo. Gli parve di muoversi a rallentatore, appesantito da quest’impalpabile materia corrosiva che sentiva scorrergli nelle vene. La sera era ormai scesa e con essa una nebbia fredda e piovigginosa.
Si sforzò di affrettare il passo e per colmarlo almeno in parte, quel vuoto, inviò un messaggio a Emma.
Mi manchi. Ti amo.
Emma rispose immediatamente
Anche io! Dove sei?
Sto rientrando e tu?
Davanti al PC. Ti aspetto.
L’appartamento dove viveva Tomaso era l’unico abitato nell’intero condominio. Lo stabile, un tempo vanto