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C'è sempre una ragione per uccidere
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E-book171 pagine2 ore

C'è sempre una ragione per uccidere

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Info su questo ebook

Perché l'auto di un professore francese salta per aria nei pressi di Zurigo? Come mai a Barcellona i ruoli di un killer e della sua vittima s'invertono? Chi fa fuori una spia a Tripoli e chi è l'assassino del proprietario di un cinema di Varsavia? Un filo lega crimini che si svolgono in luoghi lontani tra loro. Un filo color sangue, che conduce alla verità più assurda o più logica e che, srotolandosi, dimostra che c'è sempre una ragione per uccidere.
LinguaItaliano
Data di uscita27 nov 2019
ISBN9788831648783
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    Anteprima del libro

    C'è sempre una ragione per uccidere - Savio Lemma

    Hemingway)

    Lo zero non banale

    Il professor Jamais fermò il SUV in una piazzola di sosta che affacciava sul Linth, che in quel punto curvava e si restringeva, facendosi schiumoso e irruento.

    Il tempo di spegnere il motore, e l'avviso del Huawei tintinnò come un cincin tra due flûte.

    Jamais fu costretto a inforcare gli occhiali bifocali per leggere sul display il WhatsApp, proveniente da un numero sconosciuto.

    Data la tua incapacità di trovare uno zero non banale, alle 16 morirai.

    Leggendo il messaggio, impallidì, sentì rallentare il flusso del sangue e una brina ghiacciata inumidirgli la fronte.

    Forse il mittente ha sbagliato destinatario, si rassicurò, o si tratta dello scherzo di qualche imbecille! Un collega che aveva tempo da perdere, probabilmente uno di quei bacchettoni americani che lo aspettavano a Glarona, e che forse a pranzo aveva alzato troppo il gomito.

    Fatto stava che avvertiva un’inquietudine insidiosa, che gli faceva vibrare le mani e sbattere i denti.

    Ora che ci faceva caso, il testo del messaggio utilizzava una terminologia strettamente matematica, e di quello zero non banale si era già occupato anni prima, quando era un giovane studente senza un franco in tasca.

    Il pack con la sigaretta elettronica, che usava per dimenticare le Chesterfield, come gli aveva imposto il dottore, era nel cassetto del cruscotto. Lo prelevò e, come faceva quando qualcosa lo angustiava, si carezzò la testa, che coltivava capelli radi e divisi da un riporto all'altezza dell'orecchio. Poi verificò sul navigatore i chilometri che lo separavano da Glarona.

    ll Grüne Berge lo troverà in una piazzetta fuori mano, gli aveva detto la sua segretaria. La stessa dove un paio di secoli fa hanno decapitato una strega, aveva aggiunto con tono fastidiosamente sarcastico.

    Da un'ora aveva lasciato Zurigo, Jamais, dove s'era fermato a mangiare qualcosa. Quindici minuti prima era uscito dalla A3, imboccando l'uscita 44 – Niederurner, e aveva cominciato a marciare sulla 17, che costeggiava fedelmente il fiume Linth, quasi volesse fargli compagnia.

    Era il pomeriggio di un maggio che si spacciava per un marzo instabile e piovoso, così aveva deciso di guidare piano. Un po’ per l'asfalto viscido, un po' per qualcosa che lo attanagliava e aveva a che fare con la solitudine e con la stanchezza.

    Ci vorrebbe un caffè, ma ne ho già presi tre senza l'autorizzazione di Vitez, si era compatito scuotendo il capo e sforzandosi di minimizzare il diktat cardiologo e concentrarsi sulla guida.

    La strada, però, era così monotona che aveva accentuato la ruggine noiosa che lo corrodeva da quando aveva lasciato Parigi. La pioggia, poi, lo metteva di cattivo umore, almeno quanto l'idea di dover partecipare a un convegno internazionale di vecchi matematici boriosi. Così aveva deciso di accostare per tirare qualche boccata tranquilla, nonostante in quell'arnese affusolato di tabacco non ce ne fosse neanche l'ombra.

    – Arriverò a Glarona a lavori già iniziati da un pezzo, ma chi se ne frega.

    Quel messaggio minaccioso e subdolo era arrivato a rovinargli la giornata, infiltrandosi nel cervello e smottando confusi rimorsi sotterranei.

    Per dare qualche percentuale di normalità in più alla situazione, Jamais accese l'autoradio e girò lo sguardo intorno.

    Il paesaggio somigliava a quello della Maurienne, nella Savoia. Anche la valle dov’era nato aveva quei colori, e l'Arco – il fiume che la tagliava – aveva la stessa portata del Linth.

    Impugnò la finta sigaretta, premette il pulsante della batteria e, aspirato a fondo il vapore profumato, iniziò a stendere un riassunto della situazione.

    Com'era insolente la vita.

    A cinquant'anni si ritrovava in una similitudine sbagliata tra un cantone svizzero e la Savoia. A bordo di una Lexus nuova di fabbrica ma senza un compagno di viaggio. Peggio ancora, senza qualcuno che l’aspettasse a casa.

    Per andarsene Marlene aveva scelto il giorno di Capodanno – è solo una questione di combinazioni astrali, si era giustificata. In mezzora si era dileguata, portandosi dietro i suoi tre gatti e sei valigie stracolme. Le aveva riempite così in fretta, che ci aveva messo dentro anche le sue pantofole, tanto che lui aveva dovuto affacciarsi alla finestra per tentare di fermarla e recuperarle.

    Era il mezzogiorno di una domenica tiepida e Rue du Château-d’Eau sembrava più stretta di quanto fosse, piena com'era di folla chiassosa, macchiata dai colori vivaci delle tuniche africane.

    A scegliere di abitare nel decimo arrondissement era stata Marlene, perché si rispecchiava nell'anima genuina e popolare di quel quartiere. Quando poi, vedendo Il meraviglioso mondo di Amelie, si era accorta che era dal ponte sul Canale Saint-Martin che Amelie lanciava sassolini, non aveva avuto dubbi su dove metter su casa. Proprio come Jamais non aveva avuto dubbi che non si sarebbero mai lasciati.

    – Va bene, te le spedisco appena arrivo, le tue maledette pantofole. Ora ho fretta, devo passare a prendere Lou da mia madre.

    E dopo essere salita sulla sua Renault Kangoo stracarica di roba, se l'era svignata. Senza neanche chiedergli il consenso e senza comunicargli dove lei e Lou sarebbero andate a stare.

    Quanto alle pantofole, non gliele aveva mai restituite, nonostante lui ci tenesse molto. Erano ancora integre, in fondo, anche se il velluto rosso era sbiadito e intriso di odori sfuggenti. Le aveva acquistate qualche anno prima, in vista di una degenza ospedaliera. Asportata la milza e rientrato a casa, aveva preso a usarle ogni sera, soprattutto quando giocava a scacchi on line, perché aveva notato che, quando lo faceva, gli capitava di vincere contro giocatori molto più forti. A Marlene, invece, non erano mai andate a genio, e non perdeva occasione per prenderlo in giro.

    – Sei molto sexy con le tue pantofole rosse! Per giunta quegli occhialini dorati ti fanno somigliare a quell'invertebrato di tuo fratello Jean!

    Lei adorava camminare scalza, ecco la verità. A sera, appena rientrata a casa, si sfilava le scarpe e le lanciava per aria una dopo l'altra. Anche al mattino vagava a piedi nudi – erano piccoli e affusolati – e se ne fregava di inumidire il pavimento di pedate, quando usciva dalla doccia. A essere sinceri, se ne fregava di quasi tutto, Marlene. Tranne della sua ingombrante collezione di sedie a dondolo.

    – Ti piace questa, Franck? Pare sia appartenuta niente di meno che a Sylvie Vartan, quella biondina che cantava Comme un garçon!

    Nonostante tutto lui l'amava, e ci era restato davvero male il giorno in cui se n'era andata via.

    Dapprima aveva sospettato che avesse un altro, e ne aveva sofferto come se un ragazzino gli avesse dato scacco matto. Poi, quando aveva saputo che non c’era neanche un cane nella vita di sua moglie, ne aveva sofferto ancora di più. Tra me e nessuno ha preferito vivere con nessuno, si era detto, rendendosi conto che non ci sarebbe potuto essere un paragone più demoralizzante.

    Quante tristezze gli aveva riservato il Signore! E, come non bastasse, ora gli scaricava addosso anche la prospettiva di crepare tra una manciata di minuti.

    A quel pensiero si connesse di botto alla realtà e sgranò gli occhi, per mettere a fuoco quanto lo circondava e verificare se qualcosa potesse rappresentare un pericolo.

    Ma la strada, che la pioggia chiazzava di pozzanghere, continuava a essere poco frequentata. Qualche TIR ogni tanto, di auto neanche a parlarne. Evidentemente nessuno gli stava dietro. Nei campi non c'era anima viva, le montagne erano schiacciate sullo sfondo del paesaggio e non sembrava che nei paraggi ci fosse qualche possibilità di appostamento per un cecchino.

    – E poi, chi mai potrebbe sapere che sarei passato da queste parti ed esattamente a quest’ora?

    Allora ebbe l'idea di digitare sul cellulare il numero che aveva originato il messaggio minaccioso. Iniziava con +41 e quindi avrebbe dovuto essere svizzero.

    L’utente desiderato non è raggiungibile o ha il cellulare spento. Provate più tardi.

    Che idiota, troppo bello rintracciare quel delinquente in un modo così semplice!

    Sospirò, spense il cellulare, si grattò il naso e fissò i suoi occhi neri che lo osservavano dallo specchietto retrovisore. Erano acquosi e irrequieti, sembravano rimpiccioliti, incastonati com'erano in una ramificazione di rughe brevi ma profonde. 

    A un tratto scorse nello specchietto una grossa moto arrivare rumorosamente e posteggiare non distante dalla sua auto.

    – E questo chi diavolo è?

    Era una BMW, un grosso e pauroso mostro meccanico nero che, a quanto sembrava, si era conficcato una spina in una zampa.

    Vide saltar giù di sella una figura esile e formosa, avvolta in una tuta di pelle nera e aderente come nastro adesivo. La vide sfilarsi il casco e scuotere la testa, liberando un'ondata di capelli rosso fuoco, tirar fuori da un secchiello Vuitton e spalancare un ombrello fucsia. Infine, ondeggiare come una bambola smontabile verso la ruota posteriore della moto e calciarla con la punta di stivali neri e dal tacco a spillo.

    Il professor Jamais rimase immobile e con lo sguardo fisso davanti a sé. Era pallido come un anemico e dalla fronte gocciolava un liquido oleoso. D'un tratto la donna gli apparve, inquadrata dal finestrino del passeggero.

    – Mi scusi, signore.

    Parlava inglese ed era mulatta, ma a impressionare Jamais – oltre al colore dei capelli, insolito per una della sua razza – fu la cicatrice che le incideva le labbra, che scrutò con ansia, quasi fosse la risposta alle sue paure.

    La donna ricambiò lo sguardo, soffermandosi sul doppio mento del guidatore. Finché, senza celare una smorfia di delusione, cominciò picchiettare con l'unghia appuntita dell'indice sul vetro del finestrino.

    – Mi ascolti, per favore!

    Franck Jamais pigiò il pulsante e abbassò il vetro di un filo, giusto lo spazio per lasciare trapelare una domanda.

    – Lei chi è?

    In quel momento un clacson potente e prolungato annunciò il passaggio di una interminabile colonna di automezzi. Camion, tir, camper, pullman e roulotte dipinti di rosso e marchiati dalla scritta bianca Strawberry & Major Circus. Marciavano sostenuti da un rombo infernale, ma a velocità moderata e ordinatamente in fila, in direzione di Zurigo. 

    – Tabitha Kimetto di Sudafrica Press. Mi si è forato uno pneumatico e la batteria del mio cellulare è scarica. Se non le spiace potrebbe chiamare un carro attrezzi, sì?

    La mulatta aveva scandito le parole come si fa con un vecchietto rincoglionito o con uno straniero. Ma non era servito a nulla, perché la frase era stata risucchiata dal fragoroso passaggio della carovana circense.

    – Come ha detto? 

    Mentre Jamais accompagnava la domanda battendo l'indice sull'orecchio, la donna infilò la mano nel suo secchiello, come per cercarvi qualcosa. 

    Fu come se l'uomo avesse ricevuto una scossa elettrica. Sobbalzò, girò freneticamente la chiave d'accensione e, appena udì il rombo del motore, pigiò l'acceleratore e partì a razzo, sgommando fino a far fumare i pneumatici.

    Mentre s'allontanava scrutò lo specchietto retrovisore e scorse la donna imbambolata nel mezzo della piazzola. Si stringeva il mento con una mano, come cercasse di decifrare l'inspiegabile comportamento del fuggitivo, nell'altra stringeva un pacchetto di sigarette.

    – Madonna santa, cosa mi sta capitando oggi! Che diavolo voleva da me quella mulatta rossa?

    Si fece il segno della croce, recitò mentalmente una mini preghiera salvifica e girò a casaccio la manopola dell’autoradio, strappandola dalla Merkel che divagava sulla questione dell'immigrazione.

    Radio Montecarlo stava trasmettendo dell'ottima musica.

    Qualche chilometro dopo la strada si intrufolò in una specie di boschetto, creato da una fila ininterrotta di alberi che ne segnava entrambe le carreggiate. Il fogliame, che in alto si univa a formare quasi una galleria, era così folto che non lasciava filtrare né la pioggia né la luce.

    Il professor Jamais accese gli anabbaglianti e si rese conto che se c’era un luogo ideale per un'imboscata, era quello.

    – Il killer potrebbe essersi nascosto dietro un tronco, per mirare con calma e piazzarmi una pallottola in testa al momento giusto!

    Sentì che il panico gli stava montando e che presto non l'avrebbe più potuto controllare. Allora, senza ragionarci su, premette sull’acceleratore e abbassò il capo alla maniera dei criminali, quando nei film cercano di evitare i proiettili della polizia che gli sta alle calcagna.

    – Non sarò un bersaglio facile per quel bastardo. Adesso gliela faccio vedere io!

    Ma non successe proprio niente, oltre una pericolosa sbandata che stava per costargli cara e lo costrinse a rimettersi in traiettoria con una manovra brusca.

    Quando l’auto fuoriuscì dalla galleria vegetale, il cielo si era schiarito, e il paesaggio intorno aveva ricominciato a stendersi con così

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