Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Ankon
Ankon
Ankon
E-book340 pagine4 ore

Ankon

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Ankon, giovane colonia greca nell’Adriatico, con l’aiuto dei vicini Piceni lotta per la propria libertà dalla potente e tirannica Siracusa in un romanzo che parla di storia, amore e fratellanza tra i popoli.
di Stefano Cardellini
Ankon, anno 367 a.C. La giovane colonia dorica dell’Adriatico è stata fondata vent’anni
prima da esuli fuggiti dalla tirannide di Dionisio I, despota di Siracusa.
A seguito di un vecchio torto, il nobile aretusano Niseo spedisce ad Ankon un gruppo di mercenari con l’intento di uccidere suo fratello Terentios, capo di quella comunità, e sterminare la sua famiglia.
Terentios sfugge alla morte, ma Maia, sua figlia minore, viene rapita.
A capo di un manipolo di guerrieri dorici e piceni, Ares, fratello di Maia, parte alla ricerca della sorella.
Dalla grande Siracusa all’oracolo di Delfi, il viaggio si svolge per mare e lungo le strade della Magna Grecia, fino alle lontane terre del Peloponneso. Dall’isola di Ortygia all’inespugnabile Minoia, sino a Sparta, tra un susseguirsi di avventure, combattimenti e tradimenti, Ares e i suoi amici riusciranno a liberare Maia e a tornare ad Ankon, in tempo per prender parte alla battaglia finale contro la potente flotta siracusana.
LinguaItaliano
Data di uscita21 nov 2019
ISBN9788833283814
Ankon

Leggi altro di Stefano Cardellini

Correlato a Ankon

Ebook correlati

Narrativa storica per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Ankon

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Ankon - Stefano Cardellini

    nessuno"

    Prologo

    Ancona – 2018 d.C.

    È in un sotterraneo, venuto alla luce durante gli scavi tra le fondamenta del Duomo, che trovai il rotolo di pergamena. Lo stesso che Mauro, un caro amico ordinario di Greco antico alla Normale di Pisa, rese nella mia lingua.

    Il titolo riportava, in lettere antiche, Storia di Ares.

    Un eroe dei tempi di Ulisse, pensai in un primo momento, ma quando iniziai a leggere capii che quello che mi era capitato tra le mani era un documento che raccontava la storia della mia città, in cui si narravano la nascita di Ancona e gli albori di una civiltà che si liberò dalle tirannie di Siracusa e dominò l’Adriatico.

    Una storia che doveva essere narrata, che non potevo tenere solo per me.

    1

    Mare Adriatico – Costa orientale – 367 a.C.

    Vissarion, immobile a prua della Theia, fissava inquieto il ciglio del costone roccioso che si alzava a tribordo.

    I suoi occhi, attenti come quelli di un’aquila, per lo sforzo avevano iniziato a lacrimare, ma lui, consumato capitano di quel vecchio legno, non staccava lo sguardo nemmeno per un istante.

    Aspettava un cenno, un segnale…

    Un attempato marinaio, con la tipica andatura di chi ha trascorso gran parte della vita per mare, gli si avvicinò.

    «Allora?» gli chiese quando l’ebbe raggiunto. «Ormai è lassù da questa mattina… Se quei bastardi avessero deciso di inseguirci, a quest’ora l’avrebbe di certo avvistata.»

    Si accostò poi a un’anfora vicina alla prima fila di vogatori, vi immerse un mestolo e trangugiò una lunga sorsata. Soddisfatto, sollevò lo sguardo al dirupo, con il dorso della mano si terse il sudore dalla fronte, si voltò e intimò agli uomini chini sui remi: «Silenzio! Non voglio sentire un fiato. Se qualcuno parla gli mozzo la lingua!» quindi, rivolto al comandante, che nel frattempo si era spostato accanto a un grosso canapo arrotolato, riprese: «Insomma, Vissarion: il ragazzo che hai mandato su quella maledetta rupe ha visto qualche cosa?»

    «No, per ora niente», rispose l’altro senza distogliere lo sguardo. «Fino a ora nessuna notizia.»

    Da esperto uomo di mare aveva scelto quelle acque perché lontane dalle solite rotte, quelle bazzicate dalle grandi navi di Syrakousai, che preferivano risalire la costa occidentale. Per questo, dopo l’incredibile fuga della notte precedente, aveva dato fondo proprio lì, in quell’insenatura nascosta da rocce scoscese.

    Ormai era sicuro di essere riuscito a far perdere le proprie tracce, dopo aver virato di continuo tra quegli isolotti disabitati e arsi dal sole, dove persino la vegetazione stentava ad attecchire.

    «È molto probabile che li abbiamo lasciati indietro, al largo di Korkyra», riprese il marinaio. «Forse non ci hanno visti. Sì, credo che questa volta siamo riusciti a scamparla.»

    «Forse…» sussurrò l’altro tornando verso poppa.

    In quel momento un ragazzo si protese dall’alto della rupe, guardò in basso verso la nave e urlò: «Vela! Una vela quadrata. A ponente!» Si alzò, restò in equilibrio sull’orlo, continuò a fissare l’orizzonte, poi riprese a urlare: «Non distinguo bene, ma mi sembra… Sì, ora vedo! L’aquila dorata… L’aquila di Syrakousai! E si dirige verso di noi!»

    «Scendi subito!» gli gridò Vissarion. Poi, rivolto al vecchio marinaio: «Presto, prendiamo il largo. Non voglio affrontarli qua, sarebbe un massacro. Andiamo in mare aperto. Forse là riusciremo a sfuggire loro di nuovo.»

    L’uomo lanciò un paio di ordini secchi e in pochi secondi il ponte si riempì di uomini. Alcuni sciolsero i legacci che tenevano raccolta la vela, altri presero gli elmi, gli scudi e le lance, i più gli archi e le frecce. Poi si divisero. Gli arcieri corsero a poppa, mentre gli opliti si ordinarono su due file dietro i rematori per difenderli dall’abbordaggio. Il loro posto era là, armati di tutto punto, con schinieri di bronzo, la corta spada di ferro e la lunga lancia puntata all’esterno, sopra lo scudo rotondo.

    Non erano in molti. Del resto la Theia non era più una nave da guerra, ma solo un piccolo legno adattato al trasporto di merci dalle colonie alleate.

    Sotto la guida del capovoga, gli uomini iniziarono a remare intonando un canto ben modulato per prendere subito la giusta cadenza.

    Pian piano la vela prese vento, si gonfiò strattonando le corde di canapa che erano state bagnate, e, dopo una strappata, un sussulto, la nave si scosse e iniziò a muoversi, prima con manifesta fatica, come cercando di sfuggire all’abbraccio di Poseidone, poi sempre più veloce, sferzata dalle folate di brezza improvvisa. Poco dopo già volava sulle acque racchiuse tra alte pareti di pietra.

    Il capitano, inquieto, sollevò lo sguardo alla rupe che scorreva di fianco, quindi si sporse dalla fiancata per veder passare gli scogli sott’acqua, tanto vicini da sfiorare la chiglia. Sapeva che andare troppo veloci per quegli stretti canali non era sicuro. Si correva il pericolo di finire incagliati o di cozzare contro qualche masso sommerso, ma era un rischio che doveva correre, non poteva farsi trovare lì, bloccato, impedito nelle manovre. Sarebbe stato un vero disastro.

    «Se incontriamo qualcuno dei nostri prima che riesca a raggiungerci, forse riusciremo a salvarci», disse poco convinto, fissando negli occhi il vecchio compagno di tante battaglie.

    L’altro lo squadrò con un sorriso triste. «Forse hai ragione… Andiamo per mare. Prendiamo il vento e preghiamo la dea. Vedrai che Afrodite non ci lascerà soli.»

    Era bastata un’occhiata, era stato sufficiente scorgere quel lampo di luce negli occhi dell’amico per capire che stava mentendo. Dopo tanti anni era bastato questo. Sapeva che era impossibile scamparla: la vecchia nave era troppo piccola, lenta, e per di più gli uomini erano pochi. E lì, in quelle acque così distanti da casa…

    Non ce l’avrebbero fatta, ma non si sarebbero arresi. Avrebbero lottato fino alla fine, nell’attesa che Ade, al fianco del fedele Cerbero, salisse sul ponte.

    Meglio questo che sottomettersi agli abitanti della Trinacria, pensò Vissarion. E allora, sia il volere degli dei. Tanto tutto è stato già scritto.

    Si rivolse agli uomini già pronti per la battaglia: «Che i passeri sacri ad Afrodite siano testimoni delle nostre gesta. Che le colombe, uccelli a lei consacrati, portino ai nostri cari la funesta notizia. Prepariamoci a vendere cara la pelle, per noi e per la dea. Sferza i rematori!» ordinò quindi, infilando la linothorax. «Prepariamoci alle frecce. Resistiamo agli assalti. Prima di arrenderci, però, voglio vedervi soffrire, perdere i sensi sui remi, morire sotto la frusta!»

    Indossò le gambiere, l’elmo di bronzo brunito e si appoggiò all’albero che svettava al centro della nave. «E adesso, facciamo vedere chi siamo!»

    Fu a quel punto che tutti urlarono e si batterono le spade sul petto. Poi si raccomandarono al dio della notte per un viaggio sereno.

    L’inseguimento durò mezza giornata, tra strette virate e lunghe planate sui banchi di sabbia. Per un paio di volte, con manovre esemplari riuscirono persino a schivare la grande trireme. Gli opliti, una volta che la nave nemica si fu avvicinata, furono addirittura capaci di colpire gli uomini ai remi per rallentare le loro vogate, ma neanche questo fu sufficiente: alla fine, dopo i primi lanci di dardi incendiari, ci fu l’abbordaggio, e la piccola Theia fu speronata dal pesante rostro nemico. Tutti videro la grande prua siracusana sfondare con immenso frastuono le assi di legno al di sotto della murata. La nave era perduta… Tutto era perduto.

    I primi Siracusani saltarono sul ponte in mezzo alle fiamme, urlando e menando colpi con le asce da guerra. Subito i Dori lasciarono i remi per impugnare le armi a difesa della piccola nave.

    Ormai era finita, però, così Vissarion si avvicinò al braciere e, con calma irreale, lo rovesciò a terra, appiccando il fuoco alla vela.

    «Bruciate! Bruciate anche voi, maledetti!»

    Le fiamme si alzarono, mentre sul ponte gli opliti continuavano a lottare senza tregua, come ossessi.

    Colpi di spada e affondi di lancia aprivano ferite e laceravano membra. Schizzi di sangue sugli occhi oscuravano la vista ai militi, e spesso i fendenti vibrati colpivano a caso, senza distinguere se la vittima fosse un amico o un nemico.

    Sul tavolato del ponte, pozze di liquido vermiglio impedivano agli uomini di mantenere l’equilibrio e così per molti la battaglia finiva in ginocchio, o tra i cadaveri a terra.

    Combatterono per più di un’ora, ma alla fine il capitano della bireme si arrese. A un suo cenno i Dori lanciarono lontano le armi e si radunarono a prua, in attesa della fine imminente.

    Furono tutti sgozzati e buttati in mare in quelle acque tranquille.

    Solo un ragazzo venne risparmiato: la vedetta che quel giorno aveva scorto la grande trireme dall’alto della rupe. A lui fu affidato il compito di portare un messaggio alla città di Ankon, nemica di Syrakousai. Un messaggio per il suo capo, un chiaro segno d’ostilità avvolto in un telo di lino buttato a prua della lancia che gli avevano lasciato: la testa del comandante.

    2

    Ankon – 367 a.C.

    Il mare era calmo, immobile come una distesa di sabbia nel deserto. Anche l’aria era ferma. Non soffiava un alito di vento. Nonostante ciò, la pentecontero avanzava senza sforzo sotto la spinta dei cinquanta vogatori che ritmicamente battevano l’acqua.

    L’unica vela si era afflosciata appena lasciata l’isola di Dimos e non c’era stato più nulla da fare. In quella stagione le bonacce non erano molto frequenti, ma in mare… In mare tutto è imprevedibile. Sui flutti gli dei amano giocare, scherzare tra loro. E si sa: Galene, la capricciosa dea delle acque tranquille, talvolta scaccia le Arpie, e così cessano i colpi di vento, le folate improvvise.

    Era il tramonto e le onde si erano fatte scure come il cielo delle notti d’estate appena trascorse, quando un uomo sbucò da sotto il telone di poppa che fungeva da copertura durante le ore più soleggiate.

    Alto, di pelle nera, con il corpo scolpito, vestiva soltanto un corto gonnellino e un lungo mantello di feltro. Di origine africana, aveva un viso allungato su cui spiccavano occhi verde scuro, labbra pronunciate e naso aquilino. I capelli, impastati con terra rossa e legati in cinque lunghe trecce, gli scendevano sulle spalle. Una bizzarra cicatrice, conseguenza di un colpo di spada, gli segnava la fronte poco sopra l’occhio sinistro. Una vecchia ferita che ricordava un piccolo serpente e che lui chiamava la biscia, ma come se la fosse procurata rimaneva un mistero, uno dei suoi tanti segreti. Si faceva chiamare Bakari, ma nessuno sapeva quale fosse il suo vero nome. Era un nuovo libero, uno schiavo affrancato quando i suoi padroni, esuli da Syrakousai, erano sbarcati ad Ankon, venti anni prima.

    Una volta all’aperto si avvolse nel lungo mantello, prese una torcia dalla bassa murata e si avviò verso prua. Là un giovane, in piedi subito sopra il rostro, scrutava l’orizzonte.

    «Ares, vedi qualcosa?» chiese accostandosi.

    «Ancora niente», rispose quello senza voltarsi. «In ogni caso non dovrebbe mancare molto. Da un po’ stiamo costeggiando il monte dei corbezzoli e se ti volti fai ancora in tempo a scorgere gli scogli gemelli sulla sinistra. Tra poco dovremmo vedere i fuochi sulla cima del poggio.»

    «Ah, bene», fece il nero. «Allora vai a riposare. Rimango io di guardia. Ti sveglierò quando saremo in vista del porto.»

    Il ragazzo lo guardò, sorrise e allungò una mano fino a toccare il petto dell’amico. «Bakari, ti raccomando mio figlio…», pronunciò, imitando una voce solenne. «Non è così che ti ha detto mio padre prima di partire?»

    «Lo sai come è fatto Terentios…» rispose l’altro scostandogli la mano.

    «Sì, si preoccupa sempre. Si angustia per tutti tranne che per se stesso.»

    Così dicendo, si avvicinò al braciere che ardeva vicino all’unico albero e aprì il mantello esponendosi al calore. L’umidità della sera si era fatta pungente, e poi un po’ di tepore, a quell’ora, in mezzo all’Adriatico…

    La brace gli rischiarava il volto e i lunghi capelli, che a quella luce sembravano fatti d’ambra. Di statura ordinaria, con un viso regolare e un bel naso greco, vestiva il chitone, una tunica fermata sulle spalle da una fibula di bronzo raffigurante un ramo di mirto, l’emblema della sua città, la pianta sacra alla dea.

    Da tutti era considerato un bel giovane e spesso le sue coetanee gli giravano attorno, ma aveva un’espressione triste, pensosa, troppo seria per un ragazzo di vent’anni.

    Si accomodò su una cassa di legno, prese un boccale e si versò del vino da una piccola giara.

    «Ne vuoi?» chiese a Bakari.

    «No, grazie», gli rispose questi, poi, sedendogli al fianco: «Perché quell’espressione? Non capisco… Dovresti essere soddisfatto. Adesso che anche l’insediamento di Dimos è con noi, possiamo stare tranquilli. Vedrai che le navi di Syrakousai smetteranno di darci fastidio. Dovranno pensarci bene prima di arrivare sino a qui.»

    «Già», rispose poco convinto il giovane dorico.

    «E non pensi al commercio? Con la pietra delle loro cave potremo dare l’avvio al tempio di Afrodite, sul colle. E poi? L’olio da Epetion, il vino da Lissos… Vedrai, Terentios sarà orgoglioso di te.»

    In quel momento, però, al giovane non interessavano gli scambi. I suoi pensieri non erano rivolti ai traffici, ma a Syrakousai.

    «Sì, ma i problemi restano», rispose all’amico. «L’odio, il rancore… La vendetta.»

    «Ma se quella città è dall’altra parte del mondo!» esclamò Bakari, sollevando le mani al cielo. «E poi Afrodite ci aiuterà. Ha guidato tuo padre fino ad Ankon.»

    «Tu c’eri, vent’anni fa, e ti ricordi le tante fatiche, gli sforzi, i sacrifici fatti.»

    «Sì, c’ero», ribadì l’africano, «assieme a tua madre, con te nel suo grembo. E ricordo tutti gli altri, uno a uno, sfiniti dai lunghi giorni di mare. Poi, quando ormai avevamo perso ogni speranza di trovare un approdo, tuo padre sognò Afrodite, che nel sonno gli bisbigliò: Avrai acque pacate fino alla grande altura inarcata sul mare. Costeggiala per un giorno e otterrai porto sicuro. Fonda su quei lidi di ghiaia la mia casa e tra quelle braccia cresci la tua stirpe. Così questa terra, che si distende come un gomito sui flutti del mare, ci ha accolto. Il popolo dei Piceni ci ha dato ospitalità, e ristoro.» Alzò quindi lo sguardo alla rupe che scorreva di lato e continuò: «E le prime difficoltà per capirsi… Com’era strana quella loro lingua! Pian piano, però, abbiamo trovato un’intesa, un equilibrio nel collaborare, nel vivere assieme. La tua dea ci ha protetto allora e ci proteggerà ancora.»

    «È vero», disse l’altro, «ma la cosa che non riesco a mandare giù è l’arroganza. Possibile che dobbiamo sempre patire le prepotenze senza reagire? Fino a quando dovremo sopportare gli abbordaggi, le razzie, i soprusi? Fino a quando dovremo sostenere questo peso?»

    «Sai cosa pensa Terentios: Meglio perdere un carico di merce che una vita. Siamo ancora deboli, siamo pochi», rispose Bakari, «e Syrakousai è una potenza troppo grande per noi.»

    «Conosco il suo pensiero.»

    «Il pensiero di un uomo saggio…»

    «E tutto questo per una donna!» disse Ares.

    «Tutto questo per tua madre, per Selene», rispose l’africano, fulminandolo con una gelida occhiata. «Sai che tuo padre è stato costretto a portarla via da Syrakousai. Era promessa a suo fratello maggiore, e sai che era incinta di te. E l’altro non l’ha perdonato… Non ha potuto.»

    Presi dalla discussione, non si accorsero che si stavano avvicinando alla grande insenatura dove di solito le navi davano la fonda per rifornirsi d’acqua da bere.

    Mentre la falesia, come una grande ombra, incombeva sulla piccola nave, Ares ripensò a quella terra, a quella baia boscosa che a quell’ora, immersa nel buio, non mostrava i bianchi strati scoscesi di rocce, gli scogli affioranti e gli alti querceti. Tutto era confuso, velato, senza colore, ma lui conosceva quei posti. Per lui non c’erano insidie. Sapeva dei massi sommersi, delle forti correnti e del tratto dove affiorava lo scoglio lungo, che dalla spiaggia si spingeva per un bel tratto di mare. Lui era un esperto marinaio, e come tale non poteva distrarsi dalla navigazione.

    «Adesso basta con questi discorsi», disse, dirigendosi verso i due lunghi timoni affiancati. «Se continuo ad ascoltarti finirò per affondare.»

    «Siamo nelle mani di Ade», rispose l’amico.

    Ares sorrise, poi sedette al governo della sua nave e urlò l’ordine di bloccare i remi in acqua alla sua dritta. Allora la piccola barca si inclinò e iniziò a virare prendendo il largo, lasciandosi a poppa la baia. Dopo un po’, quando ritenne sicura la distanza tra sé e lo scoglio lungo, ordinò agli uomini di riprendere la voga e virò di nuovo verso l’alta montagna.

    In quell’istante, sulla cima della falesia, un ragazzino stava trascinando l’ennesimo fascio di legna verso il grande fuoco che si levava alto nel buio. Terentios in persona l’aveva scelto per quell’incarico e lui ne andava orgoglioso. Del resto non era da tutti mantenere acceso il fuoco del monte per segnalare alle navi la presenza della scogliera.

    Poco distante, di fronte a una catapecchia di legno mezzo diroccata, due militi, seduti a terra l’uno di fronte all’altro, consumavano sereni il loro pasto serale.

    «La vedi più quella ragazza? Quella bruttina… Quella della festa… Come si chiamava?» chiese il più anziano mentre sorseggiava del vino.

    «Eleni, si chiama Eleni», rispose l’altro. «E no, non l’ho più vista.»

    «Come mai?»

    «Non hai forse detto che era… bruttina?» replicò. Si portò alla bocca un pezzo di formaggio e iniziò a masticare.

    «Sì, ma in fin dei conti non era neppure la peggiore.»

    «Già», disse il giovane, «ma neanche la migliore.» Si alzò per andare a prendere qualcosa dentro la baracca e una volta tornato continuò: «E poi… mi sto vedendo con una picena. Una del villaggio, quello alla fine della spiaggia lunga.»

    «Una picena?» disse l’altro, sorpreso.

    «Sì. Qualche volta ci incontriamo nel bosco, ma solo per parlare.»

    «Già, per parlare! E com’è?»

    «Carina.»

    «E basta? Solo carina?»

    «Sì, solo carina», rispose il giovane, seccato da tante domande.

    In quell’istante il ragazzino urlò: «Luci in mare! Luci in mare da sud!»

    Le due guardie si alzarono di scatto, rovesciando a terra le poche vivande rimaste, e corsero su per il pendio fino al fuoco.

    «Dove?» chiese il più anziano.

    «Là… Vedi quel chiarore?» replicò il giovanetto puntando il dito verso l’orizzonte.

    «Sì, lo vedo.» Poi, rivolto al sottoposto: «Corri giù, in città. Vai a dare notizia che abbiamo avvistato una nave. Forse è Ares… Riferisci che restiamo in attesa del suono del corno. Aspettiamo il loro segnale.»

    Appena ricevuto l’ordine, il giovane soldato si voltò e partì con uno scatto, mettendosi a correre giù per il sentiero saltando da un masso all’altro come una lepre. Era buio e la fioca luce della luna non era sufficiente a illuminare il tortuoso percorso, ma lui lo conosceva bene. Doveva fare presto. Sapeva che in città aspettavano con ansia quella notizia. Tutti aspettavano il ritorno del figlio del capo.

    Con l’aiuto di una corda di canapa, Ares prima bloccò i due timoni e poi si appoggiò alla murata a osservare l’alta montagna.

    Dopo un po’ tornò a prua.

    «Ci siamo quasi», disse mettendosi a fianco dell’amico. «Ancora qualche colpo di remo e saremo a casa.»

    «Già, finalmente a terra. Non vedo l’ora di mettere sotto i denti qualcosa di decente e sdraiarmi su di un comodo paglione asciutto.»

    «Giusto», disse Ares. «Un bell’arrosto, verdure fresche, frutta. E una coppa di vino rosso in compagnia, giù alla taverna.»

    Da poppa giunse un richiamo: «Fuochi! Lassù, sul colle. Il fuoco! Ci hanno visto!»

    Sulla sinistra, in cima alla rupe ormai del tutto immersa nel buio, alte fiamme giallastre si levavano in un grande pennacchio di fumo nero. Era il segnale.

    «Orthros, il corno!» disse Bakari al marinaio che aveva dato l’annuncio.

    Questi si precipitò sotto la piccola tenda che faceva da casupola e ne uscì con in mano un lungo corno di toro. Lo portò alla bocca e lanciò il richiamo. Tre suoni brevi e uno più lungo.

    Il suono salì, rimbalzò sulle rocce e tornò indietro, nitido, inconfondibile. Eco, la ninfa innamorata di Narciso, aveva loro risposto.

    Pochi attimi di attesa e subito un altro fuoco prese vita più avanti, a livello del mare. Era il segnale che indicava l’ingresso del golfo. Delimitava la fascia di acque dove affioravano bassi strati di roccia bianca, che la dea aveva scagliato dal cielo a difesa del porto. Era l’accesso della loro destinazione, la zona da evitare che in passato era stata causa di rovina per tante navi, per tanti equipaggi.

    Orthros suonò di nuovo il corno, il solito richiamo. Tre suoni brevi e uno più lungo.

    Il segnale salì, ma questa volta non rimbalzò sulla falesia, non tornò indietro. La ninfa, seccata dal frastuono degli umani, se ne era andata, e la rupe si era ridotta a una bassa scogliera.

    Erano prossimi alla virata per entrare nella baia di Ankon, per giungere a casa.

    A quel punto il ragazzo corse a prua con lo scandaglio. Roteò la corda con il peso sopra la testa e la lanciò oltre la prua, nel mare.

    «Dieci braccia… Nove braccia… Otto!»

    «C’è ancora fondale», disse Bakari al giovane dorico mentre teneva la barra. «A cinque viriamo.»

    «Va bene», rispose Ares. «Poi, appena entrati nel porto, ordina di ritirare parte dei remi: non voglio romperli mentre ci fermiamo di poppa. Non si sa mai…»

    Il piccolo legno oltrepassò gli scogli affioranti e virò, lasciando alla propria sinistra il fuoco che già si stava spegnendo. Bakari diede l’ordine e alcuni rematori ritirarono i legni dagli scalmi, mentre altri si prepararono a sostenere la barca quando si sarebbe arenata.

    Nel frattempo Ares, tornato a prua, impartiva ordini ai suoi marinai, controllava con la coda dell’occhio la grande vela che si stava sgonfiando e la direzione di rotta che l’africano stava tenendo.

    Dall’altra parte della città dorica, vicino al villaggio dei Piceni, in fondo alla spiaggia lunga, proprio in quel momento una bambina giocava con un grosso cane pezzato. Correva sul bagnasciuga cercando di afferrare la coda del povero animale, alzando spruzzi d’acqua e bagnandosi le vesti. Felice, si divertiva sotto i riflessi della luna che faceva risaltare il suo bianco sorriso.

    «Ah, se ti prendo! Prima o poi dovrai cedere!»

    Il grosso cane, però, non si dava per vinto e continuava a fuggire. Scattava in avanti, poi si accucciava per terra, e infine dimenava la coda come per prenderla in giro. Quindi ripartiva, saltando a destra e a sinistra. Era imprendibile. Sapeva che quello era il gioco. Sapeva qual era il suo compito: farsi rincorrere, non farsi prendere.

    «Dai, Roccia, vieni qui! Vieni da Lisja», ripeteva la bimba con voce suadente. «Se vieni da me ti darò un bel pezzo di pane.»

    Niente: nessuna promessa poteva convincerlo. Era sempre così, la solita solfa.

    Durante una pausa per riprendere fiato, la bimba alzò lo sguardo e vide le luci dei fuochi lontani. Una nave stava entrando nel porto dei Greci.

    Non c’era tempo da perdere. Richiamò il cane e corse verso il villaggio. Sapeva che Ares era per mare e forse ora stava tornando. Aspettavano quella notizia da giorni, doveva avvertire tutti. Doveva avvertire Arodel, il saggio.

    Appena compiuta la manovra e raddrizzata la pentecontero verso il golfo che fungeva da riparo alle navi, Ares sollevò gli occhi sulla piccola città che gli si presentava di fronte.

    Era un gesto che faceva ogni volta che tornava da un viaggio per mare. Era il suo modo di abbracciare casa.

    E come ogni volta, sentì una stretta alla bocca dello stomaco nel vedere quel piccolo porto chiuso tra due fila di scogli, sotto quell’altura dove con tanto impegno stavano costruendo il tempio di Afrodite.

    Provò apprensione nel vedere le fioche luci delle torce appese a quelle poche case che formavano la sua città e preoccupazione per le persone che lo aspettavano sulla spiaggia. Provò tanta, tanta insicurezza

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1