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Trilogia semiseria di un lanciatore di coltelli: storie di favola e follia
Trilogia semiseria di un lanciatore di coltelli: storie di favola e follia
Trilogia semiseria di un lanciatore di coltelli: storie di favola e follia
E-book188 pagine2 ore

Trilogia semiseria di un lanciatore di coltelli: storie di favola e follia

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Info su questo ebook

Lo spazio non lo si descrive con due parole, e neanche con un milione di parole, in verità. Non è una distanza tra cose sospese, né una forma geometrica per metterci dentro l'universo. Lo spazio è ciò che siamo, è l'insieme della materia e della luce soffusa, è la forza assoluta che inghiotte l'energia, la comprime fino all'osso e la fa esplodere generando spazio e ancora spazio.
LinguaItaliano
Data di uscita11 nov 2019
ISBN9788833464725
Trilogia semiseria di un lanciatore di coltelli: storie di favola e follia

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    Anteprima del libro

    Trilogia semiseria di un lanciatore di coltelli - Francesco Di Chiappari

    I

    Un pesce di nome George.

    (Sono nato il primo di aprile, io! Certi scherzi li conosco bene.)

    Si risvegliò in una boccia di vetro

    ricolma d’acqua fino all’orlo.

    Niente sabbia, niente rocce,

    né una gorgonia a fargli

    compagnia.

    Unico ed irripetibile, faceva tra di sé riflettendo sulla sorte che l’Altissimo gli aveva affidato il giorno che era nato. Il bello è che ci credeva per davvero, diavolo di un George. Tra milioni di altri esseri viventi a spasso per le autostrade del mare, lui… Proprio lui, unico ed irripetibile. Che corbelleria! Liberi. Ripeteva ogni qualvolta gli capitava di starsene in disparte a parlare con qualcuno nei pressi della tana. Siamo liberi nello spirito, nell’anima, siamo liberi dentro, diceva tra di sé per compiacersene con chicchessia. Possiamo rimanere quaggiù tutto il tempo che vogliamo: nessun semaforo, nessun divieto, nessun autovelox che ci costringa a trattenere il respiro per non essere visti. Sono così le nostre strade, tutte liquide e senza asfalto, indefinite ed articolate, che si inabissano e poi risalgono, in un eterno gioco di vortici, di correnti e di maree. Le autostrade nel mare, autostrade di acqua e di sale. Sono nato il primo di aprile, io! Certi scherzi li conosco bene! - ripeteva quasi a volersene vantare gonfiando il petto.

    Ma, puntualmente, ci cascava.

    Tutte le volte ci cascava, lo scemo.

    Perfino Tommy - il riccio riccioluto trasferito dalle parti nostre direttamente dalla baia - lo aveva raggirato un paio di volte nel corso della stessa mattinata.

    Lo faccio apposta per voi! - si affrettava a commentare George con un sorriso dai tratti amari.

    Per darvi la soddisfazione di avermi finalmente fregato, e con un batter di coda energico e deciso tirava dritto verso la sua tana nascosta tra spuntoni di roccia e mille insenature camuffate da alghe e diatomee.

    Se l’era scelta con cura la tana. E quando c’era mare grosso e si creava una corrente di riflusso tra le rocce che vi si chiudevano a tunnel, allora George sì che godeva. Si disponeva nel bel mezzo della corrente e si lasciava massaggiare il mantello tutto striato di azzurro e di verde. Se ne stava così per delle ore, fermo nella corrente, a ripulirsi dalla sabbia e dal fango con cui si cospargeva la livrea per camuffarsi meglio.

    In realtà lo faceva per puro spirito di sopravvivenza: evitare le bocche larghe e grosse dei predatori incalliti, che acquattati sul fondale per non essere scoperti, aspettavano la preda da poter divorare. E non era affatto una preoccupazione da poco la sua, ma una condizione necessaria (per quanto non del tutto sufficiente) a poter dire: bene, anche oggi l’ho sfangata. E con i panni del piccolo lord che si addicevano perfettamente all’abito multietnico solitamente indossato, si buttava a capo fitto alla ricerca di un mollusco, un gamberetto, un serpentello marino che potesse fare al caso suo. Da questo punto di vista George si considerava un diverso, un puro di spirito; non come tanti altri che lo facevano d’abitudine.

    Per questi signori l’essere predatori era diventato uno status symbol, un modo per affermare la propria sfacciataggine nei riguardi del mondo subacqueo che gli girava attorno.

    Vedi! Sono sempre io il più forte e ti mangio in un solo boccone. Aumm!… e la preda era andata, bel e spacciata.

    Questi ignobili esseri, solitamente presuntuosi ed arroganti, malgrado la pancia piena e la digestione ancora in atto, continuavano imperterriti la caccia, gli appostamenti, la predazione. Non si saziavano mai, e con le bocche rimpinzate di denti appuntiti conficcati stabilmente nelle mascelle, afferravano ogni cosa a portata di tiro. Se ti vedevano nei paraggi non avevi scampo; potevi solo rendere l’anima al Signore dopo averlo ringraziato per il tempo concesso a startene quaggiù in santa pace di Dio. Ma George non era affatto così, a lui bastava molto poco per sopravvivere, e una volta risolto il problema del pasto quotidiano - dosato col bilancino del suo metabolismo equilibrato - scompariva dalla circolazione. Per tutto il santo giorno scompariva; preferiva godersi il meraviglioso spettacolo offerto dalla natura tra gli scogli dei frangiflutti ed il resto della baia.

    Era convinto di essere unico ed irripetibile, lo stolto, soprattutto da quando era uscito indenne dalle fauci di una grossa cernia cheratica.

    Se l’ho scampata oggi - faceva tra di sé riflettendo amaramente sull’accaduto - sono veramente io il predestinato, e sull’onda dell’entusiasmo legato al suo innato ottimismo, batteva le pinne pettorali in un clap clap di incoraggiamento alla sua buona sorte e alla fortuna. Cosa stesse facendo la cernia a quell’ora di giorno tra le pranelle dei fondali bassi è ancora un mistero. Brutta, tarchiata, con un testone che da solo le prendeva più di mezzo corpo, gironzolava a pelo di sabbia in cerca di qualcosa da depredare. Nessuno mai l’aveva vista da quelle parti lì, né tanto meno se n’era detto in giro, ma adesso che c’era incuteva una certa apprensione per quel testone spropositato che incastonava due occhietti di madreperla dal tono grigio-argenteo stagliati stabilmente su uno sfondo un po’ più scuro e raggrinzito. George se l’era trovata davanti con la bocca spalancata non appena uno sciame di bianchetti s’era aperto a ventaglio per lo spavento.

    Oddio! Oddio! Che diavolo ci faccio qui? - ebbe modo di pensare in una frazione di tempo insufficiente per qualsiasi decisione. E la fissò. E la cernia lo fissò, e guardandolo dritto nelle pupille tutte fatte di un bluette fosforescente, lo ipnotizzò. Un secondo… al massimo due, e quella caverna di bocca gli si chiuse attorno facendolo prigioniero.

    Calma! - cominciò col pensare George non appena si rese conto di trovarsi all’interno di una camera oscura piena zeppa di denti acuminati: la bocca della cernia.

    C’è bisogno di starsene calmi quaggiù.

    E raccogliendo le energie concentrate sui muscoli latero-spinali della coda fece un guizzo così scoordinato da ritrovarsi ancora più all’interno della cavità orale, laddove questa si approssimava all’articolazione che ospitava le branchie. Che situazione di merda, pensò allora il povero George. Questa volta rischio grosso, e fu colto dal panico, dalla paura di non farcela più ad uscire vivo da quel pasticcio inaudito. O la va o la spacca! O la va o la spacca! O la va o la spacca! Ed era già così, prossimo al guizzo di tutta una vita quando cacò. Abbondantemente Cacò.

    In bocca alla cernia cacò e questa, per il lezzo ed il sapore acidulo che gli escrementi le avevano procurato nel fondo del cavo orale, starnutì con una veemenza tale da scaraventarlo fuori insieme ad un rigurgito di cibo proveniente direttamente dallo stomaco. Stordito e frastornato da quel vortice del tutto inaspettato, il piccolo George trovò la lucidità per il colpo di grazia finale. Si insabbiò. Lo videro arrivare il giorno dopo mentre rientrava nella tana ridotto da fare schifo. Ma era ancora vivo però; vivo e tutto d’un pezzo, e questo, al momento, gli poteva bastare.

    Erano i giorni che corrispondevano all’equinozio di primavera e il mare viveva un momento di incanto: mille spore, mille influorescenze, mille occasioni per gioire.

    Che vita! Che bella vita! - cantava giocherellando tra i sassi e la sabbia dorata del fondale. Cantava e fischiettava George, e tutto filava liscio, a meraviglia.

    Salve, Spartacus! - fece al granchio fellone con il quale s’intratteneva a chiacchierare nel corso delle passeggiate mattutine.

    Era un grosso granchio di scoglio da tutti conosciuto come Spartacus; scuro, peloso, con due grosse chele che quando le spalancava - a volte per difendersi dagli assalti dei predatori, spesso per grattare le alghe marine dagli scogli - doveva preoccuparsi di non perdere l’equilibrio. Una volta, per la voglia di strafare, s’era rovesciato. Stava spolpando i resti di un giovane riccio rimasto schiacciato da uno scoglio caduto dalla banchina, quando - sbilanciato dalle grosse chele - s’era rovesciato. Rimase in quella posizione scomoda e pericolosa per tutta la notte e buona parte del giorno dopo: capovolto ed inerme. C’è voluta una corrente impetuosa per raddrizzarlo. La spinta di una corrente di risacca improvvisa… e certamente una buona dose di fortuna, per raddrizzarlo.

    Salve Spartacus! - fece George felice di rivederlo.

    Ed il granchio fellone, che non perdeva occasione per leccarsi i baffi: Avvicinati! Avvicinati pure che ti ripulisco dall’humus che ti si è appiccicato addosso. Hai la testa dura tu! Sai benissimo che l’odore dell’humus richiama i peggiori predatori. Avvicinati, avvicinati pure, che ti sistemo io per le feste. Ma George, niente, proprio non gli credeva. Era come se da quell’orecchio non ci sentisse affatto e continuava a starsene a debita distanza per non rischiare di suo. A distanza dalle chele, naturalmente.

    Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio, gli ripeteva prima di sgusciare via tra gli anfratti rocciosi.

    In un incontro tra vicini di tana, convocato in tutta fretta per uno scarico fognario che rendeva l’acqua sempre più torbida e maleodorante, si parlò della situazione precaria che s’era venuta a creare in quello specchio di mare.

    Uno schifo, è un vero schifo! - fecero tutti dimostrandosi d’accordo. E’ diventata peggio di una fogna a cielo aperto. Se continua così io me la svigno, cambio zona, cambio vita, fece Spartacus alla fine del suo intervento introduttivo.

    Vivo tra questi scogli da che sono nato e vi posso garantire che mai è stato così. I vermetti stanno scomparendo ad ogni giorno che passa, e non so più come integrare il pasto da associare alle alghe qui intorno, riprese visibilmente contrariato.

    Il grande Pig, uno scorfano dalle orecchie a sventola che bazzicava lì attorno da parecchio tempo, annuì. Era l’unico ad aver conosciuto gli abitanti della terra, e li descriveva come esseri abominevoli e senza cuore. Lo avevano catturato impigliato tra le maglie di una rete di nylon durante una battuta di pesca. Venne subito issato a bordo. Ma poi gli umanoidi s’erano messi a litigare, a sbraitare, a darsele di santa ragione, e lui ne aveva approfittato. Con un colpo di coda ben assestato s’era rituffato in mare per sparire dalla circolazione in un baleno.

    Hanno bocche larghe e denti di colore avorio - si affrettò a riferire sull’onda di ricordi mai del tutto rimossi - ed usano due pinne sole per tenersi all’impiedi. Le altre due le adoperano per afferrare. Proprio così riportò il grande Pig nel silenzio e nello stupore collettivo. È una vera disgrazia averci a che fare, concluse poi riluttante. Ermanno il paguro non lo si vede più in giro. E di Camilla? Ricordate la murena Camilla tutta scriccioli e veli? Pure lei è sparita, scomparsa, smaterializzata, e la sua tana è vuota da parecchi mesi oramai, povera Camilla. È una vera disgrazia avere a che fare con gli umanoidi dalle bocche larghe e dai denti stretti, sentenziò.

    Silenzio. Per un po’ ci fu silenzio.

    Un prolungato ed indefinibile silenzio.

    Lasciare luoghi tanto prediletti per cercare fortuna altrove è l’ultima delle sventure che può capitare a chi sui fondali vive per tutto l’anno.

    Ognuno dei presenti lo sapeva bene. Una circostanza del genere si sarebbe potuta attuare solo in casi di emergenza, di pura necessità, di imminente pericolo. Ad un paio, ad esempio, era già capitato di andarsene via, di spostarsi verso il centro della baia alla ricerca di nuove opportunità, ma - a pensarci bene - non si era rivelata la migliore delle soluzioni praticabili.

    Rocce, dissero. Soltanto rocce e poca sabbia. L’unica possibilità di farla franca erano gli anfratti. Tanti anfratti, però, piccole caverne, spuntoni sparsi dappertutto lungo il pendio della scogliera.

    Poi però il baratro.

    Un baratro senza fine.

    La luce ne viene inghiottita e vi scompare.

    Sprofonda là dentro per non uscirne più.

    Non tutti sono ritornati dal centro della baia e quei pochi che lo hanno fatto non sono stati mai più gli stessi.

    Marcus, il polpo maculato con la testa di melone sembra rimbecillito da allora. Muove i tentacoli in modo scoordinato, quasi a caso, e non sa più bene da che parte afferrare.

    Ancora silenzio.

    L’incontro si concluse con un nulla di fatto. Nessuna proposta concreta, nessun suggerimento, nessuna intesa.

    Ognuno per sé, ognuno che avrebbe fatto al meglio delle proprie convenienze: libera scelta in libero mare.

    Passò così la primavera e buona parte dell’estate prima che a George accadesse qualcosa.

    Voglio una vita spericolata… di quelle vite che non dormi mai… cantava di prima mattina mentre si massaggiava la livrea mettendosi controcorrente. E c’era tanta luce in giro da rimanerci abbagliati. Si diffondeva dappertutto quella luce: tra le gorgonie, la sabbia, le praterie di posidonia, gli scogli del fondale.

    Uno splendore.

    Aveva appena adocchiato un delizioso gamberetto nei pressi della tana quando successe il finimondo; si sentì imbrigliato, immobilizzato, attorcigliato a tal punto da non riuscire a sbattere la coda, porcaccia della miseria. Era finito in un labirinto di maglie strette ed invisibili, il povero George, e come se non bastasse una morsa di tentacoli lo aveva agguantato allo stomaco facendolo vomitare.

    Poi un vocio concitato;

    dei suoni gutturali;

    un batter di mani sgraziato;

    e null’altro che ricordi perfettamente.

    Svenuto.

    Si

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