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La Stanza dell'Architetto
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La Stanza dell'Architetto
E-book213 pagine3 ore

La Stanza dell'Architetto

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Info su questo ebook

E fu così che crebbe Benedetta, con un padre mezzo padre, e con mezzo affetto in meno. L’altra metà dell’affetto rimase per sempre lì, a disposizione di un figlio mai cresciuto per fare il padre, e mai completamente figlio per meritarselo tutto intero.
LinguaItaliano
Data di uscita28 mar 2019
ISBN9788833463490
La Stanza dell'Architetto

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    Anteprima del libro

    La Stanza dell'Architetto - Francesco Di Chiappari

    prima

    Tra il vagar dei ricordi

    Vuolsi così colà dove si puote

    ciò che si vuole,

    e più non dimandare

    (Dante – inf.III 95-96)

    1.

    In verità le stanze erano due, ma aperta la seconda vi trovarono così tanti scheletri nell’armadio che venne immediatamente richiusa.

    Per un solaio che faceva le bizze, si disse bisbigliando nei corridoi, che rischiava di sprofondare per le scartoffie accumulate, i sussulti improvvisi di una camminata, per la sbadataggine altrui.

    Finestre chiuse, tapparelle calate, e l’unico accesso ancora rimasto – dalla stanza dell’architetto – accuratamente protetto e sigillato. Un cartoncino rosa tenue tenuto appiccicato con lo scotch largo dei pacchi faceva da contrasto al verde pastello con cui quella porta era stata dipinta. Un cazzotto nell’occhio, oserei direi, un gusto quantomeno discutibile per gli accostamenti poc’anzi dichiarati. Lui negava ogni addebito naturalmente, ogni qualsivoglia responsabilità per la scelta di quel colore stravagante e démodé, e l’avrebbe preferita impellicciata in mogano, assolutamente in tinta con lo scrittoio vicino alla finestra o, tutt’al più, del colore della sabbia asciutta di Serapo paragonabile nei chiaroscuri agli scaffali dietro la scrivania sui quali gli veniva comodo appoggiare ogni genere di cosa. Un cartoncino rosa tenue, dicevo, con un messaggio scritto di pugno ed in bella grafia secondo la tecnica del certosino amanuense che dell’arte fa il suo mestiere. E nel rosa sbiadito di quella eco-carta che si fregiava di essere un prodotto riciclato delle cartiere di Arbatax, ecco la frase che non t’aspetteresti mai di trovare;

    la famosa frase,

    quella fatidica,

    da pronunciare con rispetto e parsimonia:

    Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare.

    Ed era rappresentata con tale cura di particolari che mai a nessuno è venuto in mente di interpretarvi ciò che spinse il sommo Dante alla divina scrittura. Per tutti quanti, invece, era una sola cosa, un fatto indicibile ma pur vero, un contratto a due, la rendita per un baratto, l’obolo necessario a conseguir parere. Così nelle cose, così nelle intenzioni, così nei fatti; un cartoncino rosa tenue e pochi versi della Commedia che dà lustro al mondo. E non per dimostrare un senso di profonda cultura, d’alto ingegno, lo spessore umano che ci caratterizza in certi momenti della vita. Assolutamente no. Era solo per rimarcare una forma di approccio benevolo verso quel tal problema; una lettura al di fuori delle regole, delle norme, della consuetudine, che dà e toglie, rende possibile e nega, sulla base di una certezza: l’equilibrio sta nel mezzo, e per una cosa data a te, qualcos’altro va dato a me, sicché una mano lava l’altra e tutte e due lavano il viso.

    Era un giorno strano quello appena incominciato, un giorno da infami, e lo avevano appena salutato vedendolo varcare il portone d’ingresso, quasi a rimarcare l’estraneità alle vicende, se di estraneità ancora si può parlare… e di vicende. Qualcuno prima o poi le giudicherà, si approprierà della facoltà che certe leggi dispongono e lo farà. In nome di un Principio più alto, lo farà, quello che ci vuole tutti uguali di fronte alle Leggi dello Stato. Ma anche il Principio a volte è miope, astigmatico, dislessico, e tende a confondere oggetti, fatti e persone. Ma poi basta che uno spirito puro gli rimetti a posto le lenti, lo prenda per mano e lo indirizzi per giusta via che torna per incanto a discernere con la limpidezza attribuita al suo Rango, alla nobile funzione che gli appartiene, tutta indirizzata alla ricerca del senso più schietto della Giustizia terrena.

    2.

    Si chiuse la porta alle spalle l’Architetto e avanzò nella penombra della stanza con esagerata accortezza, come se in quel luogo vi stesse mettendo piede per la prima volta.

    Eppure per anni… per una decina d’anni era stato l’insieme del suo vissuto, la piazzaforte dei suoi assalti all’arma bianca, il crocevia degli affari più delicati, il ritmo pulsante della vita quotidiana spartita tra l’inginocchiatoio del confessionale e le panche della sua chiesetta privata: l’ufficio al secondo piano con la finestra di fronte al mare.

    Immobile, quasi sull’attenti, roteò gli occhi nello spazio prospettico della stanza per rendersi conto di quanto ancora ci fosse rimasto di suo là dentro. Tutto gli sembrava a posto, nell’ordine disordinato di sempre: le comunicazioni di servizio sul ripiano della scrivania; le scartoffie senza valore accanto all’armadio con le ante di frassino tarlate; i fascicoli di un certo interesse in attesa della santa messa, (l’acqua benedetta che toglie i peccati del mondo e sollecita il penitente a chiedere l’indulgenza).

    Tutto ok, dunque, tutto sistemato e tenuto in disordine – malgrado gli ultimi avvenimenti – al punto da dubitare del tempo inesorabile scorso alle spalle. Lo sfoglia carte d’argento sulla scrivania di fronte alla seggiola coi braccioli intarsiati a zampa di leone; le norme e le direttive della variate al Piano Regolatore ancora in mezzo al tavolo da carteggio; i decreti sull’ennesima sanatoria con le sottolineature evidenziate in giallo; l’agenda degli appuntamenti rimasta aperta a martedì 18 novembre; il boccale della Kronen Bier – zeppo di penne, matite ed accidenti vari – ancora lì, tra la base del telefono e la sua lampada preferita, la cui luce azzurrina gli riposava gli occhi.

    Una corona in oro zecchino, dicevo, proprio nel bel mezzo del boccale della Kronen Bier, e appena più sotto una data: 1718, anno in cui i fratelli Hans e Carl Brauer si misero a fare birra.

    Una passione innata, la loro, coltivata nell’angusto spazio di una stalla con decine di animali da mungere e accudire. Qualche barile accatastato lungo la parete più lontana dalle povere bestie; una botte da mille litri sorretta da robusti sostegni ben piantati a terra; alcuni recipienti di legno complementari alla lavorazione, e tutta la determinazione necessaria a dar vita ad una birra bruna, spumosa, dal sapore forte ed asprigno.

    Si narra che Napoleone Bonaparte, in giro per le contrade di Amberg ad ispezionare i luoghi destinati allo scontro con i prussiani e gli eserciti loro alleati, dopo che l’ebbe assaporata presso la Taverna di Essena con uno stufato di cervo, funghi, e patate lesse di Sassonia, pare che abbia esclamato al codazzo dei generali che lo seguivano ad ogni passo:

    "Prendetene nota e portatene appresso qualche barile.

    La berremo domani prima della battaglia.

    Questa birra deliziosa

    ci darà la carica del diavolo."

    E scuotendosi il mignolo nell’orecchio come faceva d’abitudine per alleviare un fastidioso prurito – o anche solo per una sorta di ansia congenita che si portava appresso fin da bambino per il morso di un cane alla gamba – uscì dalla taverna con la feluca bicorna incassata sul capo, ed in groppa al suo candido destriero che il palafreniere aveva ripulito e lucidato dal fango e dall’intemperie, fece ritorno presso gli attendamenti ufficiali accompagnato dalla scorta personale armata fino ai denti.

    Ne prelevarono più di cento barili la mattina seguente, tutta la produzione di un’intera annata, che al termine della Campagna Militare – registrata nelle vicende della storia napoleonica come l’abominevole Campagna di Prussia – il divino Bonaparte ripagò con un editto a garanzia di qualità, oltre ad un cofanetto di monete sonanti con la sua effige dorata stampigliata sul retro.

    Volle fare dell’altro in verità; e per l’ardimentoso comportamento dei suoi soldati nel corso della battaglia, autorizzò i discendenti dei fratelli Brauer ad esercitare il diritto di imprimere sulle etichette, sui barili e sulle bottiglie della Bruna spumosa, il simbolo della corona imperiale di Francia quale stemma di prestigio attribuito alla Casa Madre. Un boccale niente male, a pensarci bene, che s’era portato appresso da Stoccarda dopo una serata speciale sul finire del servizio militare. E lo teneva tra la base del telefono e quella specie di pulsantiera zeppa di levette meccaniche con la quale faceva i conti. E sì che gli riuscivano bene i conti al buon Fritz!

    Li elaborava,

    li diteggiava,

    li controllava con cura dopo che s’erano impressi sul rotolino di carta che man mano si snodava appresso alle cifre stampate dalla macchinetta. E mai che sgarrasse di un decimale – il buon Fritz – nel ticchettio sincronizzato di quella macchina perfetta. Un provetto ragioniere oltre che architetto, specie per gli affari che di più gli stavano al cuore.

    Si scricchiolava le dita delle mani incrociandole e piegandole all’incontrario, passava sulla pulsantiera i polpastrelli sensibili come quelli del pianista sulla tastiera nel corso di un concerto, e tra percentuali d’intesa, costi d’opera e balzelli vari, non scendeva mai al di sotto di certe somme che prevedevano nessun rischio e svariati ritorni in moneta sonante. Tutto meccanicamente, in accordo con i versi della Commedia, di quel quasi ovvio implicito e sacrosanto, e godendo del vantaggio che la posizione di dirigente pubblico gli concedeva, infieriva sulla vittima designata dall’alto del suo rango di carnefice.

    "Sapete! Ci sono le migliorie.

    I rincari sui particolari.

    Gli oneri per le compiacenze."

    E tra una cosa e l’altra, un sorriso beffardo e una mezza chiacchierata inutile e superficiale, si arrivava alla ratifica dell’atto finale: ufficioso, muto, lontano da occhi indiscreti e dai pettegolezzi della gente.

    Quattro parole.

    Bastavano quattro parole su un fogliaccio qualunque ed una firma in calce… così, di poco conto, su un fogliaccio qualunque. Sollevava il coperchio della Kronen Bier (gradevole ricordo del suo passato), ne estraeva una penna qualunque tra decine di penne qualunque, e la porgeva al condannato di turno già preparato a siglare l’atto indegno e vile. L’atto dell’equilibrio perfetto, della tolleranza reciproca, della mano che lava l’altra e più non dimandare.

    Era un giorno strano quello appena incominciato, un giorno da infami, e l’acqua veniva giù a catinelle perforando una luminescenza sghemba e polverosa.

    Alzò la cornetta l’Architetto, e sulla ghiera nera dei vecchi telefoni da tavolo da far ruotare fino a fine corsa, compose un numero a memoria.

    Attese la risposta quindi,

    con trepidazione,

    e un brivido di freddo gli scorse lungo la schiena scaricandosi a terra come un fulmine a ciel sereno.

    3.

    Se ne stava davanti allo specchio ad asciugarsi i capelli bagnati di pioggia quando avvertì la suoneria del telefono.

    Benedetta sbuffò, e malgrado l’agitazione a quegli squilli ossessivi e isotonici, corse al telefono e sbuffò. Si aspettava senza meno la voce di Francesco a colmare il vuoto di quel litigio imperfetto, a rimettere in ordine i cocci sparsi delle parole sfuggite a vanvera dopo la prova scritta di matematica del giorno prima.

    Come potevo!

    Come potevo passarteli i fogli con quell’arpia sempre alle spalle? Sembrava avercela con noi, la rimbecillita.

    Così le aveva detto invitandola a salire in macchina e togliersi da sotto la pioggia battente.

    Brutto imbecille di un Francesco! Potevi inventarti qualcosa di più intelligente, di credibile, di meno banale. Di meno stronzo, insomma. Magari aggrapparti all’astuzia di un momento e siglare i tuoi fogli con il suo nome senza doverceli passare ad ogni costo. Dopo tutto che diavolo ti costava lo scherzetto? Anzi, avresti fregato l’arpia che ti stava alle spalle lasciandola di merda. Così si fa. Così si fa quando si ama, quando si decide di stare insieme, di capirsi e aiutarsi nei momenti difficili.

    Ma tu no.

    Tu non l’hai fatto.

    Non potevi rovinarti quella media del cavolo sbandierata ad ogni buona occasione; non potevi ritardare il ruolino di marcia già programmato e pianificato. Saltare di un appello, insomma, di un solo appello, che ti costava? Mica di un anno intero. Conoscevi i suoi problemi, li discutevi con lei, eppure non lo hai fatto. Ti è mancata la sensibilità, la dovuta solidarietà, il cuore. Ti sono mancate le palle.

    Sali in macchina che ti pigli un accidenti.

    La sola gentilezza che ti sei fatto uscire da quella fogna di bocca vedendola provata.

    Benedetta sbuffò, corse al telefono e sbuffò.

    "Pronto! Fece.

    Pronto sei tuu?…"

    Ma non sentendo voce diffondersi dalla cornetta di plastica nera, riagganciò il ricevitore ed interruppe la comunicazione. Non disse altro Benedetta, non aggiunse altro alle poche parole pronunciate contro voglia, e con il magone in gola ed il resto dei pensieri a rincorrersi nella testa come una muta di fantasmi che non sanno più dove andare, ritornò davanti allo specchio, e con un gesto di stizza continuò ad asciugarsi i capelli.

    Entrava tanta luce da fuori, e per quanto la pioggia non concedesse momenti di tregua e le nuvole facessero a botte per rovesciare di sotto tutta l’energia posseduta in corpo, c’era ancora tanta luce là fuori. Luce tagliata, riflessa, luce sghemba, che proveniva da ogni direzione per uno strano gioco di rimbalzi.

    Da ogni direzione.

    Indifferentemente.

    Per un gioco di rimbalzi.

    Le tonalità chiare delle facciate del fabbricato di fronte a casa di Benedetta ne accentuavano i riflessi rendendoli fastidiosi. Un grossolano errore degli imbianchini della FaberColor di Antonio Pesce & Figli che nel tirarle a lucido secondo l’effetto Loto (idrofobico ed autopulente), non s’erano resi conto di ciò che sarebbe potuto accadere per la presenza di palazzo Raspoli. Una struttura che gli architetti avevano voluto così, rivestita con pannelli di alluminio satinato e vetro opaco.

    Lucido contro lucido, facciata contro facciata, e la luce che vi si intrappolava dentro ne veniva riflessa come una pallina di gomma impazzita che rimbalzi tra pareti contrapposte per i lanci forsennati di un bambino. Ma a volte anche i fastidi possono rappresentare una risorsa, e quella lo fu.

    Di notte, con la luna piena a starsene nel bel mezzo del cielo, quei fabbricati troppo spesso bistrattati per le tinte chiare delle facciate ed i pannelli satinati di rivestimento, sapevano dimostrare – leggi fisiche alla mano – come si potesse recuperare buona parte dell’energia radiante catapultata sulla Terra dallo spazio.

    Riuscivano,

    infatti,

    a restituire amplificata la luminescenza del plenilunio al punto da suggerire lo spegnimento dei lampioni con il cielo sgombro di nuvole.

    Eureka!, aveva esclamato l’allora geometra Giuseppe Aniello Testa-Alicandro, fervido assertore delle fonti rinnovabili-sostenibili-alternative. E suffragato dai risultati diffusi dall’Università di Pavia nel campo della bioedilizia applicata all’ingegneria, e dai numerosi documenti raccolti e catalogati uno per uno all’interno dello schedario personale, aveva portato in consiglio comunale una relazione dettagliata sul risparmio energetico associato all’istallazione di specchi convessi orientabili sulle traiettorie della luna. Rifletterne la luminescenza nei tre giorni a ridosso del plenilunio – e citava magistralmente i risultati degli Abstract dei proff. Rossi, Piacentini e Gaudenzi – avrebbe consentito di recuperare una quindicina di milioni sulla bolletta energetica annua da ridistribuire oculatamente per potenziare la mensa della scuola materna, il trasporto scolastico in genere e l’assistenza ai disabili su tutto il territorio comunale.

    E quindi?

    Via a discuterne, quindi.

    Via a riparlarne, quindi.

    Via a far di conto, quindi.

    Per ottenerne cosa?

    Un bel nulla, quindi.

    Ma come ebbe a dire il geometra Giuseppe Aniello Testa-Alicandro di fronte alla tesi da lui sostenuta: "Il dado è tratto, bisogna solo attendere. Il Rubiconde lo attraverseremo da vincitori."

    La pioggia – che continuava a cadere imperterrita sotto la luce polverosa di una mattinata assurda – assumeva strani riflessi argentati, e le gocce d’acqua che colpivano i vetri della finestra per la spinta del vento proveniente dal mare, si urtavano, si frantumavano, si irrobustivano, si saldavano in strani arabeschi a forma di ricamo.

    Benedetta, ancora mortificata per gli avvenimenti del giorno prima, si accostò alla finestra… e per un tempo indefinito rimase a fissare la pioggia

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