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Testament
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E-book410 pagine6 ore

Testament

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Info su questo ebook

Un autore da oltre 3 milioni di copie

Un grande thriller

Dal geniale autore di Il vangelo proibito

Una lotta contro il tempo alla ricerca della leggendaria arca dell'alleanza

586 a.C. I babilonesi hanno messo a ferro e fuoco la Terra Santa e Gerusalemme sta cadendo. I sacerdoti del tempio, in preda alla disperazione, imbarcano i tesori più sacri per metterli in salvo. 
1943. Un gruppo di crittografi delle forze Alleate, sotto il comando diretto di Churchill, sta lavorando per ostacolare le comunicazioni dell’Asse tra nazisti e giapponesi. Non hanno idea di quanto sia prezioso il carico della nave di cui hanno appena segnato il destino.
Oggi. L’archeologo Jack Howard è in missione in compagnia del suo amico Costas, a caccia dell’oro nazista contenuto in un relitto affondato al largo della costa continentale. La scoperta che stanno per compiere li porterà sulle tracce di uno dei più grandi misteri dell’umanità, una verità antica molto più di quanto avrebbe potuto immaginare. 
Passato e presente si uniranno in una terrificante corsa contro il tempo per il destino dell’umanità.

Un autore da oltre 3 milioni di copie
Bestseller del New York Times e del Sunday Times
Tradotto in 30 Paesi

La storia, il mistero e il mito si intersecano e rendono la lettura stupefacente. Gibbins è un vero maestro del genere.

«Superbo.»
Kirkus Reviews

«Che cosa si ottiene mettendo insieme Indiana Jones e Dan Brown? La risposta è David Gibbins.»
Mirror

«Affascinante come un Codice Da Vinci sotto il mare.»
Daily Express
David Gibbins
È un autorevole ricercatore e archeologo. Specializzato presso l’Università di Cambridge in studi sul Mediterraneo antico, ha condotto numerose spedizioni di archeologia subacquea in tutto il mondo. È autore di undici bestseller, che hanno venduto oltre 3 milioni di copie e sono stati tradotti in trenta Paesi. La Newton Compton ha già pubblicato con successo Atlantis, Le indagini archeologiche del professor Howard, Il faraone, Codice Pyramid e Testament.
LinguaItaliano
Data di uscita13 nov 2017
ISBN9788822715876
Testament
Autore

David Gibbins

David Gibbins is the author of seven previous historical adventure novels that have sold over two million copies and are published in twenty-nine languages. He taught archaeology, ancient history and art history as a university lecturer, before turning to writing fiction full-time. He is a passionate diver and has led numerous expeditions, some that led to extraordinary discoveries of ten-thousand-year-old artefacts. David divides his time between England and a farm and wilderness tract in Canada where he does most of his writing. www.davidgibbins.com

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    Anteprima del libro

    Testament - David Gibbins

    Prologo

    Mar Eritreo meridionale (odierno Mar Rosso) durante il regno di Nabucodonosor di Babilonia, 586 a.C.

    L’uomo con la barba intrecciata barcollò in avanti, ansante, con le mani sulle ginocchia. Aveva il respiro crepato e secco come la dura crosta di sale della spiaggia circostante, come se la pelle della terra stesse bruciando e si stesse spellando come la sua. Il sole aveva quasi raggiunto lo zenit e faceva caldo come la fornace stessa di Baal Hammon a Cartagine, nel luogo dei sacrifici dove insieme al suo equipaggio aveva presentato le offerte una vita fa, all’inizio del viaggio. Per un momento si chiese se non fosse ancora lì, se i tormenti delle settimane precedenti non fossero stati solo un incubo inflittogli dagli dèi, un castigo per essersi spinto tanto oltre le Colonne d’Ercole, in luoghi su cui neanche gli dèi esercitavano il proprio dominio.

    Chiuse gli occhi, sentendoli bruciare per la secchezza e vedendo le macchie bianche, apparse negli ultimi giorni, che preludevano alla cecità. Li riaprì, battendo forte le palpebre per difendersi dalla luce che si rifletteva dal mosaico crepato di sale attorno ai piedi. Non era affatto un incubo, ma era al di là di qualsiasi realtà avesse mai vissuto prima. Si voltò, traballante, si schermò gli occhi con una mano per proteggersi dalla luce e guardò il distante profilo della sua nave lì dove si era ingavonata e fermata nelle secche e dall’altra parte le sagome indistinte dei quattro compagni, due dei quali si facevano faticosamente strada con il loro carico attraverso le distese di sale in direzione delle montagne. Lo scintillio del calore sulle distese gli aveva ricordato i miraggi veduti da bambino nel deserto a sud di Cartagine, e gli aveva acceso la speranza di poter un giorno tornare a casa vivo. Cercò di leccarsi le labbra, ma aveva la lingua secca come un pezzo di arenaria. Doveva raggiungere le colline e trovare dell’acqua al più presto, altrimenti sarebbe morto.

    Barcollò nuovamente in avanti, caricando sulle spalle la sacca che conteneva i magri resti delle provviste: qualche pesce essiccato, delle manciate di grano selvatico raccolto durante l’ultima puntata a riva, un po’ di frutta secca e qualche radice. Le altre navi della flotta parevano ormai un lontano ricordo: bastimenti carichi di grano e anfore di olio d’oliva e vino per rifornire gli avamposti fondati lungo la costa desertica al di là delle Colonne d’Ercole, mentre cercavano il luogo che i greci chiamavano Chrysesephron, il paese dell’oro. L’avevano trovato. Una spiaggia dove i commercianti locali gli avevano portato pepite di oro di fiume grandi quanto un pugno, oro che erano stati felici di scambiare con tessuti tinti con la porpora reale di Tiro. Ma a quel punto invece di tornare indietro con i forzieri pieni, aveva ordinato alle navi restanti di proseguire, oltrepassando montagne ardenti coronate di torrenti rossi, superando fiumi pullulanti di pesci con denti da leone, lungo una desolata costa sabbiosa disseminata di scheletri di balene, dove le altre tre navi erano state distrutte da un terribile fortunale, che aveva gettato gli uomini urlanti e gementi sulla risacca battente per unirsi alle carcasse in putrefazione che ricoprivano la riva fin dove arrivava lo sguardo.

    La sua era stata l’unica nave a raggiungere il capo meridionale, la punta estrema dell’Africa, un burrascoso pinnacolo roccioso battuto dalle onde, dove aveva eretto una colonna con una piastra di bronzo dedicata a Baal Hammon, prima di dirigersi a nordest e risalire la costa opposta. Lì aveva pianto, pensando al fratello Imilcone. Tre anni prima, si trovavano presso le Colonne d’Ercole, a bere vino e mangiare olive, e progettavano le più grandi spedizioni commerciali mai intraprese. Imilcone avrebbe navigato a nord, verso le Cassiteridi, le Isole dello stagno, con avorio, stoffe e olio d’oliva. Se fosse riuscito a trovare la fonte dello stagno che gli intermediari greci portavano a Massalia, avrebbero potuto aggirare l’itinerario di terra attraverso la Gallia e portarlo direttamente via mare nel Mediterraneo, monopolizzandone il commercio. E se poi lui, Annone, si fosse diretto a sud e avesse trovato Chrysesephon, sarebbero stati doppiamente favoriti dalla sorte e avrebbero guadagnato fama e fortuna.

    Ma poi, quando avevano radunato le navi, da Gades, da Cartagine, dal paese avito nella lontana Fenicia, era toccata loro un’altra missione. Le navi di Tiro e Sidone, in Fenicia, avevano portato la notizia della caduta del regno di Giuda per mano dei babilonesi, della distruzione del Tempio di Gerusalemme da parte di Nabucodonosor e dell’esilio degli ebrei a Babilonia. E una delle navi aveva portato qualcos’altro, qualcosa che l’aveva condotto in quel luogo ai limiti della terra, un manufatto che ora veniva trasportato verso le montagne e che riusciva appena a intravedere nella foschia: il più grande tesoro del popolo di Giuda, la cassa contenente il sacro testamento del suo Dio, la teca d’oro chiamata Arca dell’Alleanza.

    Deglutì, facendo una smorfia per il dolore alla gola, e si voltò a guardare un’ultima volta la nave. Stava ormai affondando nella fanghiglia dove si era arenata nel suo ultimo viaggio verso la costa, gli occhi dipinti ai lati della prua fissi sui monti, l’albero inclinato in avanti. Li aveva serviti bene, lo scafo calafatato alla perfezione, impermeabile come pelle, forte e flessibile, costruito con il cedro della Fenicia che ancora prediligevano i costruttori navali cartaginesi, legno che teneva lontane le terenidi e non sarebbe marcito come gli altri. Nessun’altra nave era arrivata tanto oltre le Colonne d’Ercole, aveva affrontato simili venti e mari tempestosi, aveva mantenuto la rotta quando tutto pareva contro di loro. Nel lasciarla, aveva baciato la prua e pianto, prendendo una scheggia di legno dello scafo per inserirla nella prossima nave che avrebbe costruito a Cartagine, se Baal Hammon gli avesse concesso di sopravvivere. Il suo ultimo gesto era stato incidere il nome suo e del fratello su un frammento di anfora e gettarlo in mare, come avevano fatto insieme quel giorno alle Colonne d’Ercole, in ricordo del loro patto.

    Sperava che Imilcone fosse stato altrettanto fortunato con la sua nave, fabbricata a Gades da costruttori iberici alla maniera atlantica, con il fondo più piatto per poter appoggiarsi dritta sulla battigia durante la bassa marea. Era stato dubbioso riguardo alla scarsa profondità della chiglia, chiedendosi se avrebbe mantenuto la rotta con il vento di traverso, come aveva fatto la sua. Quando avrebbe rivisto il fratello, quando anche Imilcone fosse rientrato dal suo grande viaggio, avrebbero attinto a tutte le nuove esperienze acquisite per progettare la migliore nave in grado di affrontare l’oceano oltre le Colonne d’Ercole. A quel punto avrebbero intrapreso l’ultimo viaggio, quello che quel giorno avevano sognato insieme, a capo di una grande flotta verso le favolose coste che erano certi si trovassero oltre il mare aperto a ovest.

    Ricordava il giorno della partenza da Cartagine quasi due anni prima, un mattino in cui il mare era scintillante, l’aria era libera dalla sabbia del deserto e il sole faceva luccicare di un bagliore accecante il bronzo dei templi e i marmi. Avevano manovrato le navi lentamente attraverso il porto chiuso, superato gli affollati vascelli dei loro parenti fenici di Tiro e Sidone scampati al massacro babilonese. In quel momento Cartagine gli era parsa inattaccabile, la più potente città del Mediterraneo. Avevano superato i magistrati riuniti e la folla accorsa per salutarli e inondare i ponti di fiori e rami d’olivo in segno di buon auspicio. Mentre le imbarcazioni si allontanavano dall’ingresso del porto avevano sentito il primo grido dalla grande bocca bronzea di Baal Hammon sulla piattaforma sovrastante, le prime volute di fumo e le zaffate di carne bruciata. I sacerdoti avevano scelto il nipote di Annone per propiziare la loro partenza e lui e Imilcone avevano osservato dalle navi il bambino che veniva sollevato e poi gettato nelle fauci del dio e nella fornace sottostante. Le grida erano uscite dal ventre come se fossero state emesse da un’enorme tromba, echeggiando e rimbalzando per le mura del porto, e i sacerdoti avevano sollevato le braccia verso la montagna di Bou Kornine a oriente, un chiaro segno che il sacrificio aveva avuto successo. Annone era stato protetto da Baal Hammon nel suo viaggio e aveva pregato ogni giorno perché l’occhio del dio vegliasse anche su Imilcone e lo mantenesse sano e salvo.

    Ripensò a quelle navi di Tiro e Sidone, e al cugino che era venuto a cercarlo la sera prima della partenza. Aveva portato con sé un uomo con una lunga veste che si era presentato come un ebreo di nome Ezechiele, un profeta fuggito da Gerusalemme prima della presa di Nabuconosor. Il re e i sacerdoti di Gerusalemme avevano affidato a Ezechiele un tesoro sacro, che insieme a quattro compagni aveva portato sulla nave del cugino diretta a Cartagine. Ezechiele era venuto a sapere di Annone e del suo imminente viaggio, di cui si parlava tra i capitani fenici, ed era venuto da lui con una proposta. Dimentica le ricchezze che potresti ottenere col commercio, oro e stagno o qualsiasi cosa tu voglia cercare, aveva detto. Una ricompensa assai superiore sarà tua se imbarcherai il mio carico, se lo porterai nel luogo stabilito. Aveva rivelato il contenuto del sacco che aveva con sé: monete d’oro del regno di Lidia, catene e lingotti d’oro, amuleti d’oro, scarabei e maschere incrostati di gemme abbaglianti. Tutto questo ora, e il doppio al tuo ritorno.

    Aveva descritto la destinazione e Annone aveva accettato. Era sulla sua rotta, sulla costa opposta dell’Africa, non troppo a sud dell’Egitto. Ezechiele gli aveva detto cosa cercare all’orizzonte occidentale. Lui e i sacerdoti avevano scelto la tortuosa via per mare perché il deserto a sud di Gerusalemme era irto di pericoli: i babilonesi avevano invaso l’Egitto e le piste carovaniere erano infestate di briganti. Annone doveva limitarsi a trasportare il carico su una montagna chiamata il Carro di Fuoco per consegnarlo ai seguaci di Ezechiele che erano in attesa e che lo avrebbero accompagnato a sud verso un luogo inespugnabile, un imprendibile altopiano noto solo a coloro che l’avevano raggiunto in segreto dalla Giudea, per attendere l’arrivo dei loro sacri tesori. Lì, gli uomini che li avevano accolti avrebbero portato l’oggetto in un nascondiglio e poi sarebbero tornati con le pelli di animali che lo ricoprivano perché le riportasse a Cartagine. Le pelli all’interno sarebbero state macchiate dell’oro di cui era ricoperto l’oggetto, confermando a Ezechiele il successo dell’impresa. Annone avrebbe dovuto issare le pelli su aste all’esterno del tempio di Baal Hammon, come se fossero trofei presi a qualche animale esotico durante il viaggio. A quel punto avrebbe ricevuto il resto del pagamento.

    Ezechiele aveva dato ad Annone un avvertimento. La pelle appesa di un animale era il segno egiziano dell’imiut, un’offerta funeraria del culto del cane nero Anubi, guardiano dei morti. Quando gli ebrei erano fuggiti dall’Egitto, avevano sottratto un sacello portatile per i loro oggetti sacri con sopra una statua a grandezza naturale di Anubi, che proteggeva gli arredi funerari che un tempo vi erano contenuti. Quando il profeta ebreo Mosè aveva avuto ordine dal loro dio di creare un contenitore per i suoi comandamenti, aveva scelto quella cassa, chiamandola Aron Habberit, Arca dell’Alleanza. Ezechiele l’aveva raccontato ad Annone perché conosceva le superstizioni dei marinai, di coloro che come Annone conoscevano molti dèi. Aveva detto che il potere di Anubi era ancora presente, il potere di colui che non è dato vedere, colui che gli egiziani tengono sempre nascosto. Aveva avvertito che chiunque avesse osato togliere le pelli e le stoffe che ricoprivano l’Arca sarebbe morto all’istante. Annone non ci aveva mai guardato, anche quando avevano dovuto sostituire le pelli putrefatte di leopardo che la ricoprivano con pelli nuove trovate in Africa, tolte alle donne gorilla cacciate dai suoi uomini sulla costa occidentale.

    Anubi non era l’unico dio che preoccupava Annone. Il dio ebreo, quello che i fenici chiamavano il Dio del Testamento, le cui parole si diceva fossero nell’Arca, era sicuramente cugino di Baal Hammon, come Annone e Imilcone erano cugini dei parenti di Fenicia e Israele: dinanzi al pericolosissimo viaggio per mare che lo attendeva, non poteva permettersi che qualche dio riversasse su di lui la sua ira, che fosse egiziano, fenicio o ebreo. Come ogni buon fenicio, rispettava gli dèi di tutti quelli con cui commerciava, tenendo il piede in più staffe.

    Guardò davanti a sé e si sentì debole. Le pelli dei gorilla sull’Arca avrebbero potuto stupire Ezechiele, ma a quel punto ne avrebbero preso la forma e avrebbero costituito la prova necessaria della consegna dell’oggetto sacro. Fece un altro faticoso passo avanti sulla scricchiolante spiaggia incrostata. Ma c’era stata una cosa più potente del timore degli dèi che gli aveva fatto mantenere la parola. Era stato l’oro di Ezechiele. Annone era innanzitutto un fenicio, aveva il commercio nel sangue. L’oro e i gioielli del profeta avrebbero fatto di lui l’uomo più ricco di Cartagine, in grado di pagare la somma che aveva promesso alla sorella per aver offerto il figlio in sacrificio, in grado di dedicare un nuovo tempo all’ingresso del porto dove esporre i trofei del suo viaggio, in grado di non far mancare nulla al fratello Imilcone se il suo viaggio alle Cassiteridi non avesse dato alcun profitto. Ed Ezechiele sapeva anche un’altra cosa: la parola di un fenicio era sacra ed era vincolante quanto il patto tra gli ebrei e il loro dio. Annone avrebbe fatto tutto ciò che era in suo potere per consegnare il carico, bandendo dalla mente qualsiasi desiderio di tornare in patria prima di aver assolto al suo impegno.

    Per il momento, doveva raccogliere tutta l’energia che gli restava per attraversare quella distesa desolata, un luogo in cui anche Baal Hammon pareva averlo abbandonato. Avanzò barcollando di qualche altro passo, i piedi gli scricchiolavano sulla superficie indurita, le caviglie erano scorticate e sanguinanti a forza di estrarle dalla crosta di sale. Per impedire alla mente di divagare ripercorse alcuni momenti del viaggio. Ripensò a quando aveva eretto la piastra di bronzo sul capo meridionale alcune settimane prima. Dopo aver finito, si erano accorti di essere osservati dalla popolazione locale emersa dalla boscaglia. Annone si era prostrato in terra come in adorazione della lamina, sperando che gli indigeni la considerassero sacra e la lasciassero intatta. L’interprete della terra dei gorilla aveva detto loro che danneggiarla avrebbe significato morte certa, proprio come Ezechiele aveva detto ad Annone riguardo l’Arca. La gente, chiamata Lembana dall’interprete, era parsa sufficientemente intimorita e aveva portato offerte di frutta fresca e carne che gli uomini di Annone avevano divorato con gratitudine, non curandosi del fatto che le offerte erano in realtà destinate a soddisfare quella nuova e sconosciuta divinità e non la loro fame e sete disperate.

    Al capo, l’equipaggio aveva cominciato a morire di un morbo misterioso che si era diffuso dopo che si erano fermati per abbeverarsi alla foce di un fiume una settimana prima. Aveva portato a bordo un paio di indigeni per rimpolpare l’equipaggio e perché li aiutassero ad approvvigionarsi a terra. Sapeva che era ben possibile che lui e il suo prezioso carico scomparissero senza lasciare traccia e aveva deciso di lasciare una testimonianza del loro passaggio. Se fossero riusciti a consegnare l’Arca, i due Lembana sarebbero stati liberati dalle catene e indirizzati verso la via di casa, al capo, portando con loro il ricordo di ciò che avevano visto. Sulla piastra, sotto la scritta in fenicio, con un cesello aveva inciso la forma rozza di un geroglifico che gli aveva mostrato Ezechiele. Un segno che testimoniasse che era arrivato fin lì e confermasse a chi lo cercava che era sulla buona strada. Questo non aveva significato rompere il patto di segretezza con Ezechiele. Gli unici che avrebbero plausibilmente potuto seguire le sue tracce erano quelli mandati a recuperare l’Arca e il geroglifico avrebbero potuto comprenderlo solo loro.

    Dopo molte settimane di navigazione avevano virato a nordest, attorno a un grande promontorio che i pescatori locali chiamavano il Corno, superato isolotti rocciosi e deserti e poi proseguito a nordovest attraverso una baia che si trasformava in uno stretto prima di riaprirsi. Annone sapeva che dovevano essere entrati nel tratto meridionale del mar Eritreo, con le distese desertiche dell’Arabia alla loro destra, non troppo lontano dal confine meridionale dell’Egitto. Quando erano arrivati alle distese di sale, in vita erano rimasti solo due membri dell’equipaggio, a stento sufficienti a governare la nave e imbrogliare la grande vela quadrata. Annone aveva proseguito, malgrado le misere razioni, sapendo che se si fosse fermato a cercare viveri, quasi sicuramente non sarebbe stato in grado di convincere gli uomini a tornare a bordo e a patire altre pene e sofferenze. Ogni giorno di navigazione verso nord, con la sua balestriglia di legno aveva osservato ansioso il sole, in attesa che raggiungesse il punto più alto del cielo. E poi all’alba di quel giorno l’aveva visto, un’increspatura di luce che si rifletteva sulle montagne proprio come gli aveva detto Ezechiele, un carro ardente che correva lungo l’orizzonte occidentale: il Carro di Fuoco.

    Aveva diretto la nave a riva e si era preparato ad abbandonarla. Sapeva che avevano raggiunto un punto non lontano dal sud del paese che gli egiziani chiamavano Punt, vicino all’ingresso del mar Eritreo. C’era stato tre anni prima, nel corso di una spedizione lungo il Nilo con Imilcone per trovare il miglior avorio, e sapeva che se avessero avuto un po’ di fortuna, lui e i due marinai superstiti avrebbero forse trovato una carovaniera e avrebbero potuto attraversare il deserto in direzione del Nordafrica e di casa loro. I due marinai e i Lembana avevano sbarcato l’Arca dalla nave, l’avevano avvolta strettamente nelle pelli delle gorilla e si erano incamminati prima di Annone, che era rimasto a riempire la sacca con tutto quello che c’era di commestibile. Riarsi dalla sete, i marinai avevano sottovalutato l’impresa di attraversare la distesa di sale sotto il sole cocente. Senza i due Lembana, che si erano sostituiti a loro nel trasporto del carico, i marinai avrebbero fatto poco più di qualche centinaio di passi, non molti di più di quelli che ora aveva fatto Annone.

    Intravide qualcosa sulle distese di sale a nord e si fermò a guardare, ondeggiando avanti e indietro. Era qualcosa che scintillava, lampeggiava, un tremolio nella foschia. Per una frazione di secondo, pensò di vedere dei cavalli, cammelli forse. Chiuse gli occhi, e poi riguardò, battendo forte le palpebre. C’era ancora. Il cuore cominciò a battergli ancora più forte di quanto già non facesse, e Annone si rimise in marcia. Dei cavalieri dal nord potevano portare soccorso, viveri e acqua, potevano essere la loro salvezza. Ma quella era una terra feroce, una terra in cui gli uomini non avevano alcuna pietà verso gli intrusi, e molto verosimilmente avrebbero invece portato morte. Riguardò le montagne, cercando di valutarne la distanza. Forse la fortuna l’avrebbe assistito. I cavalieri potevano ancora essere lontani ed era solo il riflesso che pareva accorciarne la distanza. Radunando tutte le forze rimaste, forse sarebbe riuscito ad arrivare alle colline pedemontane in tempo. Gli altri, ormai appena visibili contro lo sfondo della montagna, le avevano quasi raggiunte con il loro carico. Avrebbero potuto nascondersi tra i crinali e le gole, dove gli inseguitori, che potevano proseguire solo a piedi, avrebbero probabilmente rinunciato. Una volta lì, lui e i suoi uomini avrebbero potuto trovare della selvaggina da cacciare e sicuramente dell’acqua. Potevano ancora farcela.

    Aveva navigato attorno all’Africa dalle Colonne d’Ercole spingendosi più in là di qualsiasi altro esploratore. Gli era stata affidata una missione, un carico da consegnare, ed essendo fenicio non avrebbe mai tradito quella fiducia. Ma aveva anche un altro patto da rispettare. Quello con il fratello. Il patto di tornare e guardare di nuovo insieme la grande distesa dell’oceano, raccontarsi le storie di ciò che avevano visto nei loro viaggi e rallegrarsi delle loro avventure. Imilcone poteva davvero arrivare fino all’Ultima Thule, un luogo in cui si diceva che il cielo fosse gelato, increspato di azzurro come il mare di ghiaccio. A sua volta, Imilcone si sarebbe aspettato da Annone la circumnavigazione dell’Africa. Erano mercanti, certo, ma anche esploratori, spinti dal desiderio di conoscere cosa ci fosse al di là dell’orizzonte. Annone avrebbe raccolto fino all’ultima goccia di energia per proseguire, per vivere per quel giorno in cui avrebbe rivisto il fratello. Il suo era un patto con la sopravvivenza.

    Cominciò a sentire colpi lontani, come i tamburi sulle mura di Cartagine prima di un sacrificio. Non capì se provenissero dai cavalieri o se fosse il rumore dei propri battiti che gli risuonava nelle orecchie. Dalla direzione dei cavalieri, dalla foschia emerse traballando un cammello diretto a sud, col carico inclinato in avanti. L’uomo in groppa perdeva vistosamente sangue da uno squarcio che gli aveva macchiato di rosso vivo la veste. Annone lo fissò, osservando gli spruzzi di polvere di sale che si sollevavano sotto gli zoccoli del cammello, poi guardò di nuovo gli inseguitori. Uno di essi, con lunghi capelli scuri, brandiva una frusta, gli altri avevano lame che scintillavano al sole e le vesti svolazzavano loro dietro come una serie continua di onde bianche lungo la riva del mare. Per un attimo, si trovò tra due mondi comunicanti, uno che avrebbe visto sicuramente il suo sangue sparso lì accanto alla nave, l’altro che forse poteva offrire una speranza, che poteva significare una possibilità di sopravvivenza.

    Gettò in terra la sacca e cominciò a correre.

    Parte prima

    1

    Oceano Atlantico al largo della Sierra Leone, ai giorni nostri

    L’archeologo subacqueo Jack Howard scrutò gli abissi mentre galleggiava tra i flutti dell’oceano, sentendo solo il sibilo del rebreather. Da qualche parte là sotto, nella nera oscurità, si trovava un trofeo al di là dell’immaginazione di molti cercatori di relitti, una fortuna in oro in acque internazionali non reclamata da nessuno. Ma in quel momento, Jack più che all’oro pensava al sommozzatore che lo aveva appena preceduto. Costas si era tuffato al suo solito modo, come un sacco di piombo, appesantito dalla serie di attrezzi alla cintura. Siccome i loro rebreather non producevano bolle, era scomparso quasi senza lasciare traccia, se non un leggero tremolio della cima d’ormeggio che li ancorava al relitto. Dopo più di vent’anni di immersioni insieme, Jack aveva visto l’amico sparire in più buchi neri di quanti amasse ricordare, ma stavolta, a più di cinquanta miglia dalla costa, nelle acque minacciose del Sud Atlantico, la cosa lo agitava particolarmente. Avevano l’esperienza per affrontare praticamente qualsiasi sfida offrisse l’oceano, ma Jack sapeva che l’ultima parola spettava sempre a quella che i marinai chiamavano divina provvidenza. Non per la prima volta nel corso degli ultimi anni, chiuse gli occhi e pronunciò silenziosamente le parole che diceva sempre prima di una rischiosa immersione nell’ignoto: Buona fortuna Jack.

    Aprì gli occhi e controllò il display a led dentro il casco. Ricordò l’ultima volta che aveva guardato Costas sparire negli abissi, nel Mediterraneo cinque mesi prima, durante la ricerca del sarcofago perduto di un faraone. Costas era rimasto intrappolato dentro un sommergibile che aveva perduto il cavo e stava precipitando sul fondo dell’oceano. Jack aveva preso la decisione istantanea di immergersi in apnea al suo inseguimento: un biglietto di sola andata per un viaggio che aveva mancato. Allora, non c’era stato tempo per riflettere, per avere paura. Ma stavolta, i pochi minuti che aveva trascorso in superficie dopo aver osservato Costas tuffarsi erano stati sufficienti a fargli aumentare il battito cardiaco e seccare la bocca. Il suo computer aveva mostrato un allarme giallo nel momento in cui stavano per scendere insieme, troppo tardi per poter fare segno a Costas di interrompere la missione. La diagnostica sul display del casco aveva indicato la ricomparsa di un’avaria del primo stadio dell’erogatore che Costas aveva cercato di sistemare nell’officina riparazioni della nave prima dell’immersione, nelle ore di tensione in cui Jack era stato impegnato in una discussione con il capitano riguardo alla necessità di tenere lontano dal relitto il cavo dell’ancora per evitare di danneggiare lo scafo sommerso ancor prima che cominciassero a esplorarlo.

    Ora tutto quello che poteva fare era aspettare che il computer completasse la diagnostica e sperare che si riparasse da sé. Anche il sistema di comunicazione era fuori uso e questo significava che non poteva più parlare con Costas, un problema non dovuto alla loro attrezzatura ma al collegamento con la sala di controllo della nave. Questo e l’assenza di strumenti specifici nell’officina riparazioni erano stati solo due dei contrattempi incontrati da quando erano scesi dall’elicottero sulla Deep Explorer il giorno prima.

    Rotolò di lato e osservò lo scafo estraneo a qualche metro oltre la boa d’ormeggio. Invece della Sequest, invece dei sommozzatori di supporto dell’International Maritime University e del sommergibile che avrebbe solitamente accompagnato un’immersione di quel tipo, operavano da una nave commerciale di recuperi marittimi senza i soliti supporti di sicurezza dell’imu. Si trovavano lì perché, grazie a un’epocale modifica nella legislazione, i relitti dei mercantili britannici della seconda guerra mondiale erano finalmente considerati cimiteri di guerra. Si trovavano lì anche perché un ricercatore della società di recuperi marittimi aveva scoperto una nota di carico segreta che indicava che la nave sotto di loro, la ss Clan Macpherson, affondata da un u-Boot nel 1943, stava trasportando una partita di due tonnellate d’oro. Senza l’oro, i recuperatori non avrebbero avuto alcun interesse in quella missione. Con l’oro, erano disposti a distruggere il relitto pur di ottenere il carico.

    Quello era il primo caso da quando era stata approvata la nuova legislazione, e Jack aveva acconsentito a condurre il programma di controllo delle Nazioni Unite, ben sapendo che la sua influenza in quanto direttore archeologico dell’imu avrebbe garantito al relitto la prima pagina nei notiziari se qualcosa fosse andato storto. Anche la società di recuperi lo sapeva e, a parte il battibecco sull’ancora quel mattino, i rapporti erano stati pratici e formali. Avevano probabilmente pensato di avere vita facile, con due dei più importanti archeologi subacquei sul posto per controllare il relitto e fornire regole per il recupero, regole simboliche a cui avrebbero potuto far mostra di attenersi mentre intanto facevano a pezzi il relitto per arrivare all’oro, una cosa che difficilmente la stampa mondiale sarebbe andata a verificare a più di cento metri sottacqua. Jack era deciso a fare il possibile per impedire che questo accadesse.

    Sentì il rombo di un motore fuoribordo e un attimo dopo vide uno Zodiac partire dalla poppa della nave con diversi uomini a bordo e dirigersi verso di lui. Fece loro cenno di mettersi tra lui e la nave, un’opzione più sicura nel moto ondoso in aumento che trovarsi intrappolato in uno spazio stretto tra le due imbarcazioni. L’uomo al timone rallentò e si accostò mettendo il motore in folle. Jack afferrò la fune attorno al bordo del gommone e attese mentre il direttore della logistica del progetto, l’ex caposquadra di un impianto petrolifero di nome Macinnes, si sporgeva in avanti e urlava: «Che problema c’è?».

    Jack indossava una maschera integrale, parte della muta ambientale dell’imu, una muta stagna adatta a tutti gli ambienti con giubbotto integrato che negli anni Costas aveva perfezionato. Non aveva voglia di togliersi la maschera mentre era in acqua e aprì una valvola unidirezionale accanto al boccaglio che gli avrebbe permesso di farsi sentire senza che entrasse dell’acqua. «Lo stesso problema di prima con l’erogatore», rispose lui, tenendosi forte per contrastare il moto ondoso che lo spingeva sotto la barca. «Il mio computer sta effettuando una diagnostica».

    «Credevo che Kazantzakis lo avesse riparato», gridò Macinnes, guardandolo con aria arrogante.

    «Ha fatto del suo meglio con gli attrezzi a disposizione».

    «Non dia la colpa a noi. Il nostro compito era di ospitarvi, non di fornirvi supporto logistico. Quello spetta a voi».

    Jack strinse i denti, cercando di mantenere la calma. In acqua, con un erogatore difettoso e con il suo amico sul fondo marino a più di cento metri di profondità non era né il momento né il luogo per litigare con quella gente. Risollevò la testa. «Costas ha programmato il computer per l’autoriparazione se avesse dovuto verificarsi di nuovo, quindi sto aspettando che concluda».

    L’uomo allungò il collo verso l’oceano deserto oltre la boa d’ormeggio. «Se ne va sempre da solo così? Non è un granché come compagno».

    Jack ignorò il commento. Macinnes e Costas sin dal loro arrivo non si erano quasi rivolti la parola. Macinnes aveva fatto mostra d’inchinarsi alle superiori conoscenze archeologiche di Jack, ma aveva stabilito che di sommergibili e veicoli a comando remoto ne sapeva più del dottor Costas Kazantzakis: un grosso sbaglio. Il fatto di non essere stato in grado di far scendere un rov per fare la ricognizione preliminare o per accompagnare l’immersione pareva dar ragione a Costas. Jack ondeggiò di lato, reggendosi con entrambe le mani. «E la storia delle comunicazioni?»

    «È la stessa storia. Avete portato le vostre attrezzature e non sono compatibili con le nostre. Non è colpa nostra».

    «Ci sta lavorando qualcuno? Non riesco a comunicare con Costas».

    «È irrilevante, con il tempo che sta peggiorando. Le previsioni per le prossime ore sono salite da Forza 4 a Forza 8. Quello che proprio non ci serve è un’ispezione raffazzonata e un incidente che pregiudichi i nostri comunicati stampa. Siamo venuti a prenderla».

    «Negativo. Non lascio Costas a fare l’immersione da solo».

    «A me pare fosse ben contento di andarsene senza di lei».

    Jack si sforzò di controllare la rabbia. L’ultima cosa che gli serviva prima di un’immersione era infuriarsi. Chiuse la valvola e si allontanò dalla barca, facendo un movimento circolare con la mano e indicando lontano mentre tornava alla boa d’ormeggio. L’uomo al timone guardò Macinnes, che alzò con fare teatrale le mani e si strinse nelle spalle. Si risedette e il timoniere partì, descrivendo un ampio arco attorno a Jack e dirigendosi verso la piattaforma d’ingresso sulla poppa della nave.

    Jack raggiunse la boa, contrastando la corrente, alzò lo sguardo e vide una fila di marinai con i berretti della Deep Explorer lungo il parapetto di prua. Trattare con quella gente nelle ultime ventiquattr’ore gli aveva insegnato una cosa. Aveva visto più sguardi spenti e apatia in quell’equipaggio che in qualsiasi altra missione cui avesse mai preso parte. Era fortunato che l’imu fosse stato sin dall’inizio un progetto puramente scientifico, finanziato da donazioni di un magnate miliardario dell’informatica che si dava il caso fosse anche uno dei più vecchi compagni di immersioni di Jack. In quel frangente, vedendo che qualsiasi discorso andava a cozzare contro l’arido terreno del profitto, aveva avuto la conferma che il motore che muoveva le persone fosse in definitiva il guadagno economico. Quello che invece muoveva Jack era la brama di avventura e scoperta che aveva spinto gli uomini all’esplorazione fin dalla più antica preistoria. Come anche il desiderio di rivelare la verità sul passato che poteva rendere degli umili cocci più preziosi di qualsiasi oro che quella gente avrebbe potuto depredare da relitti come quello che ora si trovava là sotto.

    Guardò nuovamente il parapetto, individuando una sagoma muscolosa in

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