L'apparente fragilità di Charlie Brown: Raccolta di racconti
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Info su questo ebook
L’apparente fragilità di Charlie Brown è una raccolta di racconti, ciascuno dei quali ha per protagonista una sorta di perdente o antieroe; qualcuno che affronta il mondo con uno svantaggio rispetto agli altri. Pur essendo segnato da un destino avverso, questi non si dà per vinto, ma combatte per ottenere quella felicità che gli è stata negata.
Che si tratti di un bambino al quale i genitori – a differenza dei fratelli – non hanno regalato la bicicletta come in Due per tre; di un tale che si ostina a cercare i resti di Montezuma II come ne Il labirinto; di una donna che perderà l’uomo che ama ma avrà in cambio una figlia come in Renault 4; di un’adolescente che sogna vincere il campionato di tuffi come Sveva; di un amore impossibile come quello per Nina; di una bambina sconsolata per la perdita della madre come in Zoe; di una donna che in una sola notte insonne percorre a ritroso la sua intera vita, nell’imminenza di una svolta cruciale, come ne Il dolce dolore dell’attesa, la sostanza non cambia.
Ognuno di loro assomiglia a Charlie Brown, capitano di una squadra di baseball che non vince quasi mai una partita, illuso di far volare aquiloni che gli alberi trattengono rendendoli inservibili o di ricevere almeno un biglietto dalla sua amata ragazzina con i capelli rossi. Del personaggio creato da Charles M. Schulz hanno la stessa la fiducia incrollabile che li fa muovere sul palcoscenico dell’esistenza. A volte conquisteranno ciò che cercano, a volte no; a volte otterranno qualcosa di superiore alle loro attese.
Francesco Settin nasce nel 1970 a Bassano del Grappa, città in cui vive e lavora. Ha pubblicato L’estate che ho imparato ad andare in bici e altri racconti (Graus, 2011) e il romanzo L’albero genealogico della Luna (Italic&Pequod, 2017).
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Anteprima del libro
L'apparente fragilità di Charlie Brown - Francesco Settin
Renault 4
Per quanto tempo ho evitato di affrontarti a viso aperto, mamma? Il mio orgoglio, o forse il tuo riserbo, ci hanno sempre impedito di confrontarci senza riserve, anche se spesso siamo stati a un passo dal farlo. Ora il tempo è passato. Le ferite non sanguinano più. Possiamo provare a essere madre e figlia senza recitare? (Che senso avrebbe, poi?)
Il tuo volto, sul quale raramente mettevi un filo di trucco, ha i lineamenti della bella donna che un tempo eri, anzi, non fa che ricordarmi la giovane madre di cui andavo fiera. Ogni bambino è fiero della propria madre, del proprio padre. Sono idoli intoccabili, ha bisogno di loro per vivere – o sopravvivere – farebbe di tutto per ottenere la loro approvazione.
– Non ti allontanare! – gli dico, accorgendomi che sta salendo la gradinata.
– Posso andae là? – mi risponde facendo segno.
– Stai dove ti posso vedere.
– Va bene.
Porta una maglia rossa, calzoncini blu, sandali che si riempiranno di polvere. Ha i capelli neri, un visino dai lineamenti delicati e uno sguardo penetrante. Raccoglie piccole pietre. Le confronta l’una con l’altra. Quelle che decide di tenere le mette in tasca. Di quando in quando, all’intermittente rumore dei passi sulla ghiaia, si sovrappone lo stormire degli alberi, mossi dal vento.
Sono stata a casa tua, mamma. È ancora lì, intatta. I muri esterni sono di un rosso tra il granata e l’amaranto: un colore che mi fa stare bene, un colore che ancora fa da sfondo a certi sogni felici, per me. La casa ha solo una stanza per piano. Dalla cucina, a pianterreno, si accede con pochi gradini alla cantina, nella quale papà travasava il vino da un contenitore all’altro, valutandone colore e aspetto sotto la lampada a incandescenza. Laggiù, in quel freddo rifugio, mi parlava di luna calante e di luna crescente, di giorni buoni per imbottigliare il vino. Mi portava con sé a raccogliere l’uva, ancora non arrivavo ai grappoli più bassi. Per me, bambina, era una specie di festa.
Dalla cucina si sale per una stretta scala e s’incontrano il bagno, la camera tua e di papà e infine il solaio, che diventò camera mia quando smisi di dormire nel lettone. Il bagno ha ancora le stesse le piastrelle azzurre, la vasca smaltata con i piedi a zampa di leone e un profumo di lavanda – la coltivavi in giardino, ne seccavi le spighe e quindi le legavi per metterle in casa, oppure riempivi dei sacchettini per profumare la biancheria – che non so se si senta davvero o sia solo frutto della mia fantasia. È lo stesso profumo che hai sempre avuto tu. Un odore buono, che sentivo quando mi lavavi o mi vestivi o mi spazzolavi i capelli, anche se non ricordo quando è stata l’ultima volta che m’hai presa in braccio.
Non ho dimenticato, invece, quando, nascosta dietro la siepe di gelsomino, attendevo il rientro di papà con il cuore che mi batteva forte. Dopo aver chiuso il cancello, avanzava sul selciato. Io sbucavo fuori all’improvviso e gli correvo incontro. Lui mi abbracciava e mi sollevava da terra. Era inutile che protestassi:
– Ma papà, sono grande! – perché lui mi rispondeva:
– Sei la mia bambina! –.
Invece tu eri sempre un po’ distante, come se il contatto fosse una cosa riprovevole, o forse perché era quanto di meglio riuscivi a fare. Comunque ti ricordo pensierosa, sempre indaffarata in mille impegni, con mani instancabili. Ti alzavi al mattino presto per andare a messa. Sentivo il suono della campana e qualcuno che si vestiva furtivo; infine dei passi smorzati che scendevano i gradini. Al ritorno ti occupavi del giardino. I fiori erano una delle tue poche passioni.
Un muro di cinta e una siepe delimitano il giardino, compreso in uno slargo non interamente visibile dalla strada. È percorso nel mezzo da un acciottolato, con un tappeto di prato sui due lati. Quello di destra è a ridosso di un’altra casa, pressoché in ombra. Ci piantavi ortensie, azzurre e vivaci, mughetto, azalee. In quello di sinistra, invece, facevi crescere arbusti di rose, cespugli di lavanda, tulipani o zinie. In un angolo c’è il pozzo, dal quale attingevamo l’acqua per annaffiare le piante.
In certi giorni di primavera, lontanissima dalla casa, m’è capitato di sentire gli stessi odori d’infanzia incantata – lavanda e bucato, rose e gelsomino –, tutto il mio mondo di bambole e pizzi, vestitini, sandali, calzini corti e ginocchia sbucciate.
Non entravo nella casa da almeno dieci anni, dal giorno in cui trovasti papà senza vita, disteso nel mio letto. Così ho scoperto che dormivate in camere separate. Ho capito che non vegliavi il suo sonno, né lui il tuo, fin da quando me n’ero andata di casa, a vent’anni. O forse anche da prima, da quando ero entrata in collegio. Tornavate a dormire insieme al mio rientro, durante le vacanze, solo per sembrare una coppia perfetta? Ora che non serve più mentire, te lo chiedo.
Non mi rispondi? Mi aspettavo che dicessi: – Sono cose che non ti riguardano! – come quando ti chiesi se papà era felice con te. Non ti ho ancora perdonata per le lacrime che non hai versato al funerale, come per la sicurezza con cui dicesti: – Tuo padre è fra le braccia di Nostra Madre, in cielo... – A me, che avevo gli occhi gonfi di pianto.
Ho percorso il giardino, ho raccolto una rosa per metterla in un vaso, ho sostato brevemente accanto al pozzo, assalita dai ricordi. Poi ho aperto la porta, lasciandomi pervadere dall’odore di legno e di lavanda. Ho acceso le luci, salito la stretta scala di legno. Tutto è rimasto uguale, persino i gradini che scricchiolano, in una sequenza che permane nella mia memoria.
Avevo bisogno di conoscere la verità. Per questo ho aperto i cassetti del tuo comò. Ho estratto le federe ricamate, le lenzuola di lino, le camicie da notte. Sapevo di violare uno spazio che non hai mai condiviso con me, ma dovevo sapere. Non mi avete mai detto come vi siete conosciuti, né dove o quando vi siete sposati. Alla fine ho trovato una piccola chiave, nascosta in fondo a un cassetto. Apriva una cassetta di legno intarsiato. Conteneva un nastro bianco di seta, un medaglione con l’immagine dei tuoi genitori e delle foto. Alcune le conoscevo, altre non le avevo mai viste. Una foto del vostro matrimonio, prima di tutto. Papà portava capelli mossi con il ciuffo all’insù, mentre tu avevi l’abito bianco. Dietro c’era scritto: Chiesa del Sacro Cuore, 23 luglio 1961. Io sono nata nel dicembre di quell’ anno. Perché non me ne hai mai parlato?
Ho scorso le altre foto. C’era una ragazza vestita da suora, sorridente, tra i fiori d’un giardino. Eri tu, mamma. Eri così bella, così giovane. A quel punto ho messo le due foto accanto. Il confronto era stridente, sulle prime non ho capito più nulla. Ho girato la foto, ho letto: Noviziato di Bergamo, primi voti, settembre 1960. Fra tutte le ipotesi, una mi è parsa più probabile.
Non mi stupisce che tu avessi l’intento di abbracciare la vita religiosa. Hai condotto una vita ritirata, infatti, pregando a qualunque ora del giorno; hai trascorso ore e ore in chiesa, ad avvelenarti con l’odore stordente dei gigli e dell’incenso. Hai avuto una sola figlia. Ora ne comprendo il motivo. Devi aver incontrato papà mentre eri internata, al noviziato. È strano immaginarti tanto innamorata di papà al punto di eludere la sorveglianza e incontrarlo di nascosto. Forse avevate appuntamento al parco e vi siete amati sotto gli alberi, in una notte di luna piena, folli di desiderio e d’incoscienza. Mi piace pensare di essere stata concepita per amore. Mi piace pensarti col vestito sgualcito che rientri in istituto con la complicità di una tua compagna.
Chissà come ti sentivi quando ti sei accorta che c’era qualcosa di strano; chissà se ti sei confidata con qualcuno; chissà se l’hai detto subito a papà. Certo, avrai dato la colpa all’istinto, al sangue giovane che ti scorreva nelle vene. Avrai chiesto perdono alla Madonna, che per la prima volta ti avrà guardata impietosa e distante. E quale grande vergogna ti avrà fatto abbassare la testa di fronte a tuo padre e tua madre nel dire loro l’urgente novità che portavi – quei nonni che non ho mai conosciuto perché ti cacciarono subito di casa –?
Adesso ti guardo con altri occhi, mamma. Ti sono grata per avermi messa al mondo, ti sono grata per la vita che amo, per le rose che non hai smesso di piantare, in giardino, per i vestiti che hai cucito per me, per tutte le favole che mi hai letto. In realtà, comincio a credere che tu abbia vissuto per espiare una colpa. Una colpa che si materializzava davanti a te ogni volta che mi svegliavo piangendo, ogni volta che mi attaccavi al seno, ogni volta che tornavo da scuola, ogni volta che trovavi la mia bambola rattoppata in qualche angolo della casa.
Agli occhi di papà, la bambina che ero rappresentava tanto una ragione di vita quanto una consolazione. C’era una grande intesa tra noi. Ricordo come il viso gli si inondò di lacrime il giorno in cui presi il treno. Il suo sguardo si spostava da me al biglietto, dal biglietto alla valigia, come se non potesse credere a quanto stava accadendo. Quando invece tornavo, era felice. Si faceva il bagno, si metteva il vestito della festa e poi si metteva a sedere in giardino. Accendeva la pipa e fumava lentamente. Quando arrivavo mi piaceva trovarlo lì. Mi abbracciava stretta, avvolgendomi con l’odore di tabacco.
Io dov’ero, mamma? Dov’ero, quando papà saliva la scala di legno fino all’ultimo piano, solo e dimenticato? Dov’ero mentre le rose fiorivano e sfiorivano e tu tiravi su l’acqua dal pozzo facendo stridere la carrucola arrugginita? Dove, quando sulle colline nuovi grappoli dorati dal sole mi chiamavano per essere colti? O quando ti toccò riporre in un baule i miei abitini troppo stretti, insieme con la bambola di pezza?
Ero solo una bambina quando mi parlasti con dolcezza, facendomi sedere di fronte a te e prendendomi le mani:
– Stai diventando grande.
– Quasi