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R come romance awards 2022: I migliori racconti romantici
R come romance awards 2022: I migliori racconti romantici
R come romance awards 2022: I migliori racconti romantici
E-book537 pagine7 ore

R come romance awards 2022: I migliori racconti romantici

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Info su questo ebook

Questa antologia raccoglie i migliori racconti romantici del contest letterario R come Romance 2022. Racconti per svelare le mille sfumature dell’amore.
LinguaItaliano
Data di uscita12 dic 2022
ISBN9788893472272
R come romance awards 2022: I migliori racconti romantici

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    Anteprima del libro

    R come romance awards 2022 - AA.VV.

    cover.jpg

    Autori Vari

    R come Romance Awards 2022

    I migliori racconti romantici

    Prima Edizione Ebook 2022 © Edizioni del Loggione

    ISBN: 9788893472272

    Edizioni del Loggione srl

    Via Piave n. 60

    41121 Modena – Italy

    loggione@loggione.it

    http://www.loggione.it

    img1.jpg

    R COME ROMANCE AWARDS 2022

    I migliori racconti romantici

    INDICE

    MARISA E MARTINO

    Michela Albanese

    IL POLIZIOTTO E L’INSEGNANTE DI LETTERATURA

    Roberto Alvisi

    SANDRINA

    Anna Maria Barbi

    SAND CREEK

    Paolo Bertelli

    NIKY CANDEN BAD GIRL 

    Cristina Biolcati

    LA CAREZZA DEL FALCO

    Stefano Bovi

    IL VENDITORE DI PINOCCHIETTI

     Guido Burgio

    A VOLTE SUCCEDE

     Roberta Cadorin

    A PROPOSITO DEL DIAVOLO E DI MRS. ABBOTT

    Annalisa Carbone

    C’È POSTA PER DUE

      Carla Lorenzi

    BREZZA DI MARE

     Angela Castorina

    IL PUNTO LUCE 

    Giliola Colari

    IL NOSTRO AMORE INCROLLABILE

    Viviana De Cecco

    LA NOTTE DEI FUGGITIVI

    Demian

    RAGAZZINA

    Carmen Emme

    LA LEONESSA

    Manuela Fiorini

    BALLANDO AL BUIO 

    Andrea Gheduzzi

    C’È ANCORA TEMPO PER AMARE

    Francesca Ghiribelli

    PARTIGIANO… TI AMO!

    Silvana Guarina

    LA PRINCIPESSA ELINOR

    Maurizio Libbi

    LA CASA DEL SEGRETO

    Patrizia Lo Bue

    IL PROFUMO DELLA PRIMAVERA

    Enrica Mambretti

    QUALCOSA CHE NON C’È

    Roberta Mammola

    IN EQUILIBRIO SU DI ME

    Manuela Mariani

    LO SCAMBIO FATALE (quando lei diventa lui) 

    Emanuela Marra

    L’IGNAVO

    Gianluca Melis

    ROCK’N’ LOVE

    Morgane Mentil

    RAIN IN NEW YORK

    Joe Moro

    COSTI QUEL CHE COSTY 

    Eugenio Novara

    MESSAGGI INATTESI

    Gabriella Olivieri & Sandra Becker

    BIANCO DI PASSIONE

    Francesca Panzacchi & Vito Introna

    L’ANGELO DALLA MASCHERINA AZZURRA

    Luca Prandini

    UNA STORIA PORTATA DAL VENTO

    Luca Prandini

    MARIE E ALBERT

    Guido Prette

    LA PISTA ESTIVA

    Paolo Ricci

    L’AMORE PERDUTO

    Walter Serra

    UN GIORNO SCRIVERÒ LA TUA STORIA

    Edi Sist

    SOFIA

    Mariacarla Strada

    AMERIGO VESPUCCI

    Massimo Ubertone

    ANGELO E LE ROSE

    Paolo Turconi

    PERCHÉ È TUTTO CIÒ CHE CONTA

    Amy Zaetta

    BIOGRAFIE AUTORI:

      Catalogo Edizioni del Loggione

      Concorso R come Romance

    MARISA E MARTINO

    Michela Albanese

    Alle ore 18.

    Ogni sera attende che le gocce facciano effetto per poterla abbracciare. Seduti ai margini del tempo con le dita che si sfiorano. Ossa intrecciate a quell’odore di rosa. Lo stesso che aveva Marisa la sera in cui si erano visti davanti alla Chiesa in centro. Lei così composta e assennata. A rifuggire dai suoi stessi pensieri. Lui con quel cappello a tesa larga e dal sapore latino. Occhi di brace a fondersi con il chiarore delle gote. Un inciampo dell’esistenza. L’universo che si ripiega e si ricongiunge.

    Martino. Giusto vent’anni appena compiuti. Le idee di quel colore scuro che tingeva il primo trentennio del Novecento.

    Marisa, figlia di un Dio minore. Sfuggita a un’idea che la voleva morta grazie a una bugia. Lei che di bugie non ne diceva mai.

    «Martino, sei sempre il solito» urlava lei tra i panni freschi di bucato, quando lui la andava a prendere per mangiare insieme un dolcetto nella pasticceria di Via Piave. E finiva sempre che si rincorrevano per un bacio. Quello che lui pretendeva di avere. Quello che lei fingeva di non voler dare. Erano giovani. Le loro famiglie si adattavano al rimpasto della Storia. I genitori di lui offrivano una piccola impresa tessile. I genitori di lei garantivano la purezza e le buone intenzioni.

    Marisa aveva gli occhi del cielo che si imbrunisce e la bocca di un vermiglio confuso con l’alba. E quel respiro intenso che sapeva di profondo. Aveva amato la scuola. Cinque classi di elementari. Intingeva nel calamaio i sogni di un’esistenza da scritturare. Normale. Il desiderio era senza voluttà. Una vita di famiglia e figli che corrono tra i pensieri. E quelle cene cucinate fra le creste del mare della vita.

    Non successe mai. Perché Marisa odorava di pane appena sfornato e di rose ma non di latte e notti insonni. Collezionò oceani di sale con le lacrime striate sul volto.

    "Martino, hai il cappotto rosso che ti protegge dal freddo. Ma non dai ricordi. Intrappolati dentro ai quadri appesi durante la felicità. Raccontano di noi. Volevi strapparti via dagli occhi l’immagine del nostro amore. Ci amavamo? Avevo il maglione a collo alto bianco che mi ha fatto nonna. L’odore di caramella bruciata addosso. Ai piedi le scarpe color zafferano che odi tanto. Ma che hanno disegnato migliaia dei nostri passi insieme. Da quella sera a Firenze davanti alla Chiesa, alla casetta in mezzo alle campagne toscane. Ai bordi del vigneto. Poi la vita che non ci ha seguiti. Quel figlio concepito e mai nato. Nuvole di progetti dissolte.

    Bagnate dalla nostra stessa sofferenza.

    La notte che ho partorito Albertino tu spaccavi le nocche contro il muro. Il cuore non batteva già più da giorni. Lo abbiamo sepolto vicino a nonna. Con un maglioncino bianco uguale a quello che avevo quando me ne sono andata. Era bello Albertino. Aveva il volto di tuo padre. Il naso di mamma e l’odore dell’amore eterno. Terremoto di dolore.

    Tu sei partito per mille incontri dentro te stesso abitando i paesi distrutti del tuo cuore. Io seduta all’aeroporto del mio amore. A chiedermi quale fosse il destino dei sopravvissuti. Mi salutavi ogni giorno dall’uscio della tua angoscia.

    Torno tardi stasera. Dicevi. Non mi guardavi più. Una nuova casa interiore da riempire senza la sofferenza del bagaglio. Mi hai offerto le tue scuse in un biglietto di sola andata. Hai messo in valigia la cravatta nera di seta. Quella che avevi la sera in cui indossavo il tailleur bianco ed eravamo felici. Tornerai? Hai fatto finta di non sentire. Hai chiuso la porta.

    L’hai riaperta dopo giorni. Ma intanto sono partita anche io. Era marzo. Era freddo. Ho messo il maglione di nonna. Quello bianco a collo alto, con l’odore di caramella bruciata addosso. Ho messo anche le scarpe che odi, quelle giallo zafferano. Ho fatto la valigia. Ci ho messo dentro il tailleur bianco, la fotografia della chiesa di Firenze. Ci ho messo gli occhi di Albertino e le tue lacrime. Il mio rancore. La tua paura. Il mio amore.

    Sono partita. Nel bagno. Ho aperto l’acqua. Bollente. Ti amo Martino. Ho pensato a te mentre mi tagliavo i polsi e iniziavo a vedere sfuocato.

    Quando ho sentito la mia anima staccarsi dall’involucro. Quando mi sono vista fuori di me. Finalmente libera.

    Tu sempre quello con la cravatta nera di seta. Al nostro funerale".

    Che poi il funerale si fa con i morti che salutano i vivi. Ma tu eri viva tra i cadaveri dei ricordi. Martino ti ha trovata esanime ma ancora in questo mondo. Tu che non riconosci più nessuno anche quando osservi le mani di ossa.

    Martino. Che ogni giorno disegna sui contorni del tuo viso un cuore e assapora l’odore di rosa. Martino ti ha portata in quel posto sulla collina dove vanno le persone che sono stanche. Di dare spiegazioni. Di rimanere nei confini. Di dover camminare sui bordi. Lì le persone possono esistere al di fuori del tempo e dei luoghi abitando tutte le stanze del loro cuore. Martino che ogni sera ti racconta di quando portavi a spasso la tua bella treccia color sabbia per le vie di Firenze.

    Martino che ti asciuga gli angoli della bocca e con la mano tremante ti mette quel rossetto rosso ciliegia. Pittura i contorni delle tue labbra ogni giorno. Affinché tu possa sempre saperti bellissima. Anche se non lo sai più. Martino canta per te. Tra i muri del tempo intona la canzone del vostro primo ballo e goffamente tenta di fare due passi di valzer per farti sorridere.

    Martino ti porta anche quei dolcetti di via Piave. Che la pasticcera non è più la stessa, ma gli amaretti sono strepitosi. Che ti racconta che l’amore è questo. Aspettare che tu gli sorrida mentre un fulmine ti rischiara i ricordi. Romantico bacio di intenti.

    Lui sa che tu non sai più chi sei, ma lui non scorda mai chi sei tu per lui. Marisa. Così anche stasera quando le gocce fanno effetto, quando gli occhi si aprono a uno squarcio di serenità e il tuo corpo ossuto si lascia andare, Martino ti abbraccia forte.

    Ti stringe cuore a cuore sperando di poter portare via con un respiro tutto il tuo abisso. Poi ti accomoda sul letto. Ti spruzza quel buon profumo di rosa. Mette la musica al pianoforte che ti piace tanto. E ti sussurra: al nostro romantico appuntamento di domani.

    Io vi osservo. Un giorno voi vedrete me. Al nostro amore, vostro Albertino.

    IL POLIZIOTTO E L’INSEGNANTE DI LETTERATURA

    Roberto Alvisi

    Era una giornata come le altre, calda e assolata, quando vidi quel gruppo di ragazzini prendersela con una loro coetanea. D’istinto le andai incontro per aiutarla e mandare via quei bulli.

    «Lasciatela stare!» urlai, con un tono furioso. Alle mie parole, i ragazzini scapparono.

    La ragazzina era lì in lacrime, con quel bel vestitino a pallini bianchi e neri. Gli stessi colori della mia squadra di calcio del cuore.

    «Stai bene piccola?» le domandai, con voce tranquilla e rassicurante.

    «Sì! Vai via» mi rispose bruscamente, cercando di nascondere le lacrime.

    Fisicamente non le avevano fatto nulla. Immaginai che l’avessero presa in giro per qualche ragione.

    Cosa faccio ora? So che non è una mia responsabilità. Però non me la sento di lasciarla sola. Pensai, malgrado avessi altro da fare in quel momento.

    «Ti va di raccontarmi cos’è successo?» le chiesi, sperando di tirarla su di morale.

    Lei mi fece cenno di no con la testa. Ma quando mi offrii di prenderle un gelato al chiosco lì vicino, smise di piangere e partì come un razzo verso l’ambito tesoro.

    Dopo un’ora che parlavo con Manuela, così si chiamava la ragazzina, o per meglio dire che l’ascoltavo, sapevo tutto di lei.

    D’un tratto arrivò una donna trafelata.

    «Cosa fai Manuela? Quante volte ti ho detto che non devi parlare con gli estranei!» Immaginai fosse la madre di Manuela. La voce della donna mi sembrò familiare. L’avevo già sentita e così quando mi voltai verso di lei la riconobbi subito. Era un po’ diversa da come l’avevo vista la prima volta. Mora, con i capelli corti, vestita come una punk. Il tutto era successo solo ieri sera al concerto. Ora era vestita come una casalinga, lunghi capelli biondi e un bel paio di occhiali che facevano risaltare i suoi occhi azzurri.

    «Non la rimproveri così. L’ascolti piuttosto» le dissi, per fermare quella collera ingiustificata.

    Lei mi guardò senza riconoscermi o almeno mi parve che fosse così, dato che il suo viso non lasciava traspirare nient’altro che non fosse rabbia.

    «Ma come osa dirmi quello che devo fare con mia figlia? Lei non è il padre. Per quello che ne so io è solo un pedofilo in cerca della prossima vittima» disse, guardandomi sempre con quello sguardo carico di collera.

    Pensai subito a come replicare, però intervenne Manuela in mia difesa e allora lei si calmò per il tempo necessario di presentarmi come l’agente di polizia in borghese Mauro Terme.

    La reazione sorpresa di lei mi rallegrò un po’, mi chiese scusa per il suo comportamento e si scusò anche per il fatto che Manuela mi aveva disturbato.

    «Ma quale disturbo. Mi ha fatto compagnia. Anche se adesso devo aspettare il prossimo treno per andare a Roma» le dissi. Feci un sospiro di delusione perché ancora non si ricordava di me.

    In procinto per andarmene, Manuela disse alla madre: «Fermalo mamma! Invitiamolo a cena.» Come a volerci combinare un appuntamento.

    «Non credo abbia tempo o voglia» le rispose la madre, mentre la prendeva per mano.

    «Non ha la fede al dito e in più a quest’ora non ci sono altri treni che partono per Roma» replicò Manuela, con la speranza che accettassi quell’invito.

    «Hai mai pensato a una carriera in polizia?» replicai al commento di Manuela, con tono ironico. Confermai che non avevo nessuno ad aspettarmi a casa e che quindi ero completamente libero.

    La madre di Manuela a quel punto mi lanciò quello che mi sembrò essere un sorriso. Durò solo un secondo, ma pensai che forse le piacevo e mi venne il dubbio che in realtà si ricordasse di me.

    «Allora le va di venire a mangiare da noi?» chiese lei, ribadendo l’offerta di Manuela.

    «A una sola condizione.»

    «Quale?» chiese lei, sorridendo.

    «Che mi dica il suo nome» risposi, ricambiando il sorriso.

    Dalle sue labbra sentì solo: «Mi chiamo Angela Minico» e poi più nulla. Mi ero perso nei suoi occhi.

    Manuela mi diede uno strattone alla giacca e mi disse di seguirla. In quel momento ripensai al concerto e al momento in cui l’avevo incontrata per la prima volta.

    Giorno prima - Kinder Garden (Modena), ore 23:33

    Ero arrivato tardi al concerto a causa di un arresto che avevo effettuato poco prima e così non avevo fatto in tempo a raggiungere il backstage per salutare il mio amico Massimo prima della sua esibizione. In compenso ero arrivato in tempo per sentirlo suonare e trionfare insieme agli altri membri della sua band. Iniziai a farmi largo tra la folla. Il tutto spingendo e piegandomi come un contorsionista. Mancava ormai poco per arrivare al backstage quando una donna stupenda mi colpì allo stomaco con una gomitata. Sicuramente senza volere, ma abbastanza forte da farmi piegare in due. Già in passato avevo subito dei colpi allo stomaco, nessuno di questi mi aveva mai colpito sotto lo sterno e mi aveva tolto il fiato così.

    «Mi dispiace» disse lei, mentre si avvicinava per vedere come stavo.

    «Non è nulla. Ora mi riprendo» le dissi, facendo il duro. Mi rialzai.

    Lei si scusò nuovamente. Quando la band successiva iniziò a suonare, qualcuno la spinse tra le mie braccia e a quel punto ci guadammo negli occhi. La musica e le persone che ci circondavano sembrarono sparire. Dall’intensità del suo sguardo, capivo che anche per lei era così. Lei chiuse gli occhi e inclinò la testa e io, guidato dalla passione del momento, la baciai. Lei non mi fermò, almeno fino a quando qualcuno sul palco non annunciò il nome della successiva band. A quel punto lei sgusciò via come un’anguilla. Però una di quelle che se provi a prenderla, ti dà una scossa così forte da mandarti in coma.

    Non sapendo nulla di lei, decisi di dimenticarla e di andare da Massimo, il mio amico, per salutarlo. Lo trovai intento a caricare gli strumenti musicali su un furgoncino. Mi congratulai per la bella performance e ritornai alla mia macchina. In fondo ero lì solo per loro, la musica degli altri non mi interessava e poi mi aspettava un lungo viaggio.

    Casa di Angela e Manuela - dopo cena

    Dopo una bella scorpacciata di cibo, avere perso il treno mi sembrò un colpo di fortuna. Manuela era crollata tra le braccia della madre, mentre la portava a letto. In attesa del ritorno di Angela, mi guardavo attorno in cerca delle foto di famiglia, ma lì in quella casa mancava sempre la figura maschile. In realtà non avrei dovuto, però cercavo qualche indizio per capire chi fosse davvero Angela. Se una madre single o se invece era quella donna libera e senza freni che mi aveva baciato al concerto.

    «Cosa guardi?» mi domandò Angela, mentre ero intento a osservare una foto che lei aveva incorniciato e appeso alla parete della sala da pranzo.

    «Ammiravo questa foto di te e Manuela in spiaggia. Immagino che la foto te l’abbia fatta tuo marito» le dissi, sperando che mi rivelasse quale fosse la sua situazione sentimentale.

    «Eravamo a Riccione quel weekend. Poi sono dovuta tornare al lavoro e così niente più vacanze» mi rispose lei, come se rivivesse quel momento nel vedere quella foto.

    Non ha negato di avere un marito pensai subito, con un po’ di amaro in bocca.

    Subito dopo le chiesi del suo lavoro e lei mi disse che lavorava come insegnante di letteratura all’università. La notizia mi sorprese un po’. Soprattutto per l’abbigliamento che aveva al concerto. Non l’avrei mai pensata nelle vesti d’insegnante.

    «E tuo marito invece, cosa fa?» domandai, quasi a cercare un termine di paragone con quel misterioso uomo.

    «Era un tenente della marina» rispose lei, con orgoglio.

    Che sia vedova? pensai, dato che aveva usato il passato nel parlare di lui.

    «E ora?» aggiunsi, con curiosità.

    Lei a quel punto, nel pensare a lui, cambiò espressione. Sembrava che da un felice ricordo fosse passata a un incubo. Uno di quelli che avrebbe preferito dimenticare.

    «Quel porco è andato via con mia cugina. Perché secondo lui io non ero abbastanza per lui» mi rispose lei a voce bassa, per non svegliare Manuela.

    «Che idiota!» esclamai, riferendomi all’uomo che l’aveva mollata.

    «Hai ragione, è un idiota» replicò lei.

    In qualche modo sentivo che le parole di lei volevano dire ben altro. Infatti percepivo nuovamente la stessa situazione che avevo provato con lei al concerto. Stavolta però non c’era nessuno a spingerla verso di me. Era proprio lei a volerlo.

    Mille dubbi iniziarono ad assalirmi come un branco di cani inferociti.

    Lo fa perché si è ricordata di me? Lo fa per vendicarsi del suo ex? Perché cerca un padre per sua figlia? O forse cerca solo la storia di una notte?.

    Non appena lei fu a pochi centimetri da me, le chiesi: «Cosa ti aspetti da me?»

    A quella domanda Angela mi rispose che voleva solo una notte di fuoco per recuperare gli anni di completa astinenza che gli aveva fatto passare il marito.

    Io non potevo e nemmeno volevo approfittare di lei. Così le diedi un bacio sulla fronte, dato che era più bassa di me e poi le dissi: «No, pensa a tua figlia e dimenticati di quell’asino che ti ha mollata.»

    Lei tentò nuovamente di sedurmi slacciandosi la camicetta, ma io la fermai al terzo bottone.

    «Ma cos’ho che non va?» mi domandò lei, con voce triste. Quasi in lacrime per non aver ottenuto ciò che voleva o che credeva di volere.

    «Tu non hai nulla che non va» gli risposi e alzando il suo viso con la mia mano, continuai a parlare con tono tenero. «Sei bella, intelligente, simpatica. Anche se io ti conosco da poco tempo, vedo queste qualità e anche molto di più.»

    Le mie parole la tirarono su di morale e per non lasciarle un brutto ricordo di me, le diedi un vero bacio. Forse speravo che quel bacio le facesse ricordare il nostro primo incontro. O forse pensavo che se il ricordo del marito non fosse sparito dalla sua mente, tra di noi non sarebbe mai potuto nascere nulla. Me ne tornai a casa mia, immaginando che lei non avrebbe mai più voluto rivedermi.

    Una settimana dopo

    Il mio viaggio a Roma, per un corso di aggiornamento, era finito bene. Nel frattempo nessuna notizia di Angela. Forse mi aveva già dimenticato, come la piccola Manuela.

    Devo dimenticarla! mi dissi. Quella sera il mio amico Massimo si sarebbe esibito in un locale e avrebbe potuto procurarmi un pass o un biglietto per la sua esibizione. Passai da casa sua. Massimo non c’era, così decisi di farmi una lunga maratona di film al cinema vicino prima di ritornare in servizio. Volevo divertirmi un po’ e in mancanza d’altro, il cinema mi sembrava la scelta migliore.

    Cinema, trenta minuti dopo

    Tra tutti i film che c’erano a disposizione decisi di guardare un film d’azione, privo di qualsiasi romanticismo.

    Una volta dentro la sala scelsi di sedermi il più lontano possibile dallo schermo, in modo che nessuno potesse vedere quanto fossi triste e solo. A poca distanza da me vidi Angela, illuminata dalla tenue luce dello schermo, in compagnia di un altro uomo.

    Mi ha già dimenticato pensai, mentre guardavo il suo volto che si sporgeva verso l’uomo con cui era per parlargli a bassa voce nell’orecchio.

    Lui sembrava fin troppo a suo agio con lei e notando il suo taglio di capelli pensai subito che fosse un militare. Quel pensiero mi fece venire in mente che Angela mi aveva detto che il marito era un tenente della marina. Facendo due più due, immaginai che fossi lui. Quel marito che l’aveva tradita con la cugina, ma che ora era lì con lei come se nulla fosse mai accaduto.

    Il film sembrava interessante, ma la vista di quei due insieme mi faceva ribollire lo stomaco.

    Non so perché me la prendessi così tanto per il fatto che fosse tornata con il marito, però era così che stavano le cose. Decisi di uscire dal cinema.

    Stavo uscendo dalla porta principale del cinema, quando vidi Angela. Molto probabilmente si era accorta della mia ritirata strategica e mi aveva seguito. Io però non volevo fare la figura di quello che la stava pedinando, anche se era stato solo un caso trovarla lì. Pensai di nascondermi nell’unico luogo in cui non avrei mai pensato di entrare, ovvero un bar. Neanche fossi parte di una barzelletta: Un astemio entra in un bar e il barista gli chiede cosa vuole. L’uomo risponde Acqua!. Il barista gli dà un bicchiere vuoto, gli indica la porta e dice Si serva pure. La pioggia non si paga".

    Dopo pochi secondi la vidi passare, ma lei non vide me. Fortunatamente il giornale dietro cui mi ero nascosto era abbastanza grande da non farmi notare e abbastanza maneggevole da poterla guardare mentre se ne andava.

    Mattino seguente, stazione di polizia

    Il lavoro era iniziato come al solito, quando una collega mi fece i complimenti per la mia conquista. Io però non sapevo a cosa si riferisse, immaginavo fosse solo uno scherzo in cui aveva coinvolto altri colleghi e che si sarebbe prolungato lungo la giornata. Poco dopo anche altri mi fecero commenti simili e anche a costo di fare la figura del fesso, andai in fondo alla questione. I miei colleghi mi dissero di Angela e del fatto che era venuta a cercarmi. Però loro, non conoscendola, non le avevano detto dov’ero.

    La devo trovare! pensai. Così chiesi un permesso di due ore e andai a cercarla all’università. L’unico luogo in cui sapevo potesse essere.

    L’università non era lontana, ma in compenso era così grande che sarebbe stato difficile trovarla in poco tempo. Una volta lì, pregai il destino che me la facesse incontrare ancora una volta.

    Come prima cosa mi misi a cercare qualcuno che mi potesse dire dove trovarla e dopo il ventesimo tentativo, trovai una studentessa che aveva appena finito una lezione di storia dell’arte e sapeva dove trovarla: in biblioteca.

    Chiesi informazioni per raggiungere la biblioteca. Angela era lì, china su un enorme libro, intenta con tutta probabilità a preparare la sua prossima lezione.

    Come faccio a presentarmi così davanti a lei? pensai, imbarazzato per la situazione.

    Entrai e presi un libro qualsiasi da uno scaffale. Il cuore mi batteva sempre più forte man mano che mi avvicinavo. Mi sedetti proprio di fronte a lei.

    «Posso chiederle un’informazione?» le domandai, con molta naturalezza.

    Angela alzò la testa e nel guardarmi, mi rispose: «Chiedi pure.»

    Il suo sorriso mi faceva sperare bene e così le domandai cosa provasse per me. Lei rispose alla mia domanda con la stessa domanda: «Cosa provi per me?» Il fatto che lei volesse sapere quali fossero i miei sentimenti nei suoi confronti per me era già una risposta.

    «Tu mi piaci, mi sei sempre piaciuta. Fin dal nostro primo incontro a quel concerto in cui mi hai letteralmente tolto il fiato» risposi, sperando che finalmente ricordasse quel momento.

    «Così mi avevi riconosciuto fin dall’inizio?» rise lei, aggirando il tavolo su cui aveva posato il libro che stava consultando.

    Mi avvicinai e la guardai intensamente negli occhi.

    «Come avrei mai potuto dimenticare i tuoi occhi? Li avrei riconosciuti tra mille» risposi, tentando di trovare le parole per dirle che mi ero innamorato di lei. Sapevo che le mie parole non sarebbero bastate per convincerla a lasciare il marito. Così mi decisi a baciarla.

    Non sapevo se la storia tra noi sarebbe durata, ma gli applausi delle persone presenti in biblioteca sembrarono la colonna sonora della vittoria dell’amore.

    10 minuti dopo

    «E ora come farai con tuo marito?» le chiesi, preoccupato dalla reazione che avrebbe potuto avere. Lei capì subito che mi stavo riferendo alla persona che era con lei al cinema e rise.

    «Quello non era mio marito, ma mio fratello. Era venuto a trovarmi perché gli hanno concesso una licenza.» Poi mi spiegò che il fratello era un soldato e che era da molto tempo che non lo vedeva.

    Un anno dopo

    Diedi ad Angela un appuntamento la sera prima e le chiesi d’incontrarci dove ci eravamo visti la prima volta. Sapevo che lei sarebbe venuta, anche perché l’invito che le avevo fatto era corredato con i biglietti della sua band preferita. La stessa per la quale lei era là quel giorno in cui l’aveva vista per la prima volta.

    Per essere sicuro che le cose andassero come volevo io mi ero messo d’accordo con la sua amica del cuore.

    Il concerto iniziò all’orario previsto. Angela sedeva in prima fila, accanto alla sua amica Maria. Io ero dietro le quinte con il mio amico Massimo, con cui avevo concordato la sorpresa da fare ad Angela. Maria stava provando a calmare Angela, preoccupata perché io non l’avevo ancora raggiunta. Aveva paura che gli avessi dato buca.

    Tutto il pubblico stava esultando per l’esibizione del gruppo del momento, quando uscii sul palco con un microfono in mano e mi diressi al centro del palcoscenico.

    «Fermate tutto!» esclamai. «Ho una comunicazione importante da fare.» Scese il silenzio fra il pubblico. «Tra voi c’è una donna molto speciale. Le chiedo di raggiungermi qui sul palco.» Indicai Angela, o almeno ci provai, dato che le luci del palco mi stavano accecando. Per mia fortuna sapevo che Maria avrebbe portato Angela nel punto stabilito e che un addetto alle luci l’avrebbe illuminata al momento giusto, dando così l’illusione che sapessi dov’era tra tutta quella gente.

    Angela arrossì sorpresa e si alzò per raggiungermi, applaudita dai presenti al concerto.

    «Cosa stai combinando?» mi chiese non appena fu sul palco.

    Il momento giusto era arrivato. Emozionato mi inginocchiai davanti a lei. Angela capì le mie intenzioni, ma non mi fermò. Aprii davanti a lei la scatolina che conteneva un anno del mio stipendio, ovvero l’anello di matrimonio.

    «Mia dolce e splendida Angela Minico vorresti farmi l’onore di diventare mia moglie?» le chiesi. Rimasi in attesa della sua risposta, un po’ come tutti i presenti.

    Il mio gesto l’aveva lasciata senza parole, ma con la testa riuscì comunque a dirmi di sì.

    La strinsi tra le mie braccia per la felicità e con il microfono dissi a tutti che mi aveva detto di sì. La notizia fece esultare il pubblico, mentre la band iniziò a strimpellare la marcia nuziale in nostro onore.

    SANDRINA

    Anna Maria Barbi

    PROLOGO

    La Fiammella, rimbalzando su se stessa, si posò dolcemente sul prato del Baraccano. Erano le cinque di mattina. L’aria ancora fresca della notte era il preludio alla giornata di caldo atroce che da una settimana pesava su Bologna. Caldo messicano d’estate, freddo polare d’inverno. Vedi tu.

    Lievemente s’intrufolò fra i due scuri accostati di una casa prospiciente il prato. Una grande stanza, un letto matrimoniale, alcuni mobili vecchiotti e, sul letto, in abbandono, un corpo femminile. La Fiammella, stanca del lunghissimo viaggio, si riposò un momento sullo spigolo del tavolino, poi con un balzo s’insinuò fra le labbra socchiuse di quel volto femminile dormiente. Il corpo ebbe un lieve sussulto, bevve l’aria con un leggero sibilo e richiuse la bocca. Era fatta.

    I

    Sandrina si svegliò di scatto. Guardò l’orologio sul tavolino per sapere l’ora e le parve di notare un’ombra di bruciatura sullo spigolo. Sarà stata un po’ di cenere della sigaretta pensò.

    Il caffè, la prima sigaretta, il bagno tiepido, la vecchia vestaglietta che faceva tanto Anna Magnani. Il rituale del mattino era compiuto. Si mise all’opera. Incominciò a preparare la camera dell’ospite. Smontò anche le tende che lavò, stirò e rimise sui grandi vetri. Vecchia casa pensava amica mia, sono libera fra i miei ricordi, i vecchi mobili e le fotografie. I miei amati dischi. Sto bene qui.

    L’agenzia, due settimane prima, le aveva telefonato avvertendola dell’arrivo di un’ospite pagante. Spagnolo, ventotto anni, appena laureato, vive a Ibiza, viene in Italia per perfezionare la lingua, arriva in moto, Bisogna procurare la sistemazione per quest’ultima.

    Dove la metto la moto? Nel cortilino dietro la cucina, ecco sì, nel cortilino, coperta con un vecchio telo per il sole violento d’agosto. Anche la moto ci voleva. Questi giovani non sono buoni di viaggiare normalmente, prendersi un bel treno, godere del panorama, parlare con la gente. L’importante era l’arrivo dell’ospite. II mio arrotondamento lei chiamava quella piccola attività di affittare una stanza a studenti di passaggio.

    Sandrina Malaguti di anni 58, pensionata, abitante nel centro storico di Bologna, nubile, detta la maraglia. Un soprannome che si portava dietro fin dai quindici anni che, nel gergo proletario bolognese significava tante cose: faccia da schiaffi, donna libera, imprudente, scanzonata, che la dà via a chi le pare, che se ne frega della gente.

    Bolognese e proletaria lo era veramente nel corpo e nell’anima. Due grandi occhi scuri, la bocca larga, gambe forti e belle, un continuo mulinare le mani quando si fermava a parlare e un’andatura altera che le lunghe gambe sotto i fianchi robusti, facevano risaltare. Qualcosa di animalesco e di regale insieme. Gli uomini che aveva avuto l’avevano all’inizio, corteggiata furiosamente per quella falcata da tigre in fuga che li eccitava e li costringeva ad appostamenti dietro le colonne dei portici.

    Il trillo del telefono la svegliò dal torpore del caldo che l’aveva aggredita sul tavolo di cucina. «Sono Edmondo Corbas de Ibiza, sono a Montecarlo. Señora Sandrina?» Sandrina deglutì. Mai avuto una voce così al telefono. Oh Dio come mi piace questo accento spagnolo. «La volevo advertir che sarà a su casa alle cinque di questa tarde

    Sandrina incominciò ad aspettare. Un lievissimo batticuore, un piccolo affanno, qualcosa che non sapeva spiegarsi la faceva muovere per casa, toccare gli oggetti, i mobili, accendendo sigarette che poi spegneva. Il caldo insopportabile che la confinava nella vasca per poi alzarsi in fretta e furia, ghermire il telo con la paura che l’ospite arrivasse e lei era lì nel bagno in disordine, i capelli per aria e un continuo interrogarsi sull’affanno, il batticuore, l’attesa.

    II

    La Fiammella sentì la Voce: «Si può sapere cosa hai combinato? Ti sei impadronita di una donna di cinquantotto anni, l’hai irrimediabilmente segnata con i poteri che ti ho dato? L’altro ne ha solo ventotto. Hai combinato un gran guaio, Fiammella come puoi rimediare?»

    «Farò innamorare anche quell’uomo di ventotto anni.»

    «No, è meglio una sola infelicità e poi le donne sanno sopportare il dolore. Ormai è fatta. Addio.»

    III

    Alla radio, Riccardo Cocciante cantava di una bella senz’anima che doveva spogliarsi per fare contento il lui arrabbiatissimo.

    Beata lei pensò Sandrina che lo può fare. Ogni tanto, si osservava, nuda, allo specchio. Qualche cedimento c’era già, ma in complesso aveva un corpo ancora piacevole da guardare, con le lunghe gambe forti da bolognese di razza.

    Sei da letto le dicevano quando era giovane. Sandrina non sapeva se arrabbiarsi o compiacersene.

    La doppia suonata alla porta la fece sobbalzare.

    «Sono Edmundo Corbas.» Al citofono, la voce era più spagnola che al telefono. Corse a pettinarsi, il rossetto che non trovava, via le ciabatte, le scarpe, dove erano le scarpe? Indugiò nella loggia prima di avviarsi al portoncino come se qualcosa di misterioso la trattenesse in mezzo al largo corridoio che la divideva dall’epilogo della sua vita. Era giù, nella strada, che armeggiava sulla moto. Sandrina attraversò il portico, si sbilanciò sul muretto delle colonne per dargli la mano, lo guardò e notò la scucitura della maglietta sulla manica. Era arrivato.

    IV

    La Fiammella ebbe un sussulto. «Sono stanca, debbo uscire da qui.» Risalì, facendo il noto percorso, uscì dalle labbra socchiuse di Sandrina e, come in un gemito, rimbalzò via. Sandrina richiuse le labbra che sentiva arse, mentre le gambe le si facevano molli.

    Dio, questo caldo mi fa proprio star male. Furono in casa. Lei accese un po’ di luci per mostrargli meglio la stanza.

    «Mi piace, sì, mi piace molto.» Si girò verso Sandrina, toccandole un braccio, quasi un ringraziamento. Sandrina sentì l’antica trafittura giù al basso ventre. Erano anni che non le capitava, fu un capogiro, un attimo di smarrimento.

    V

    Bologna era sotto una cappa di calore e quelli che erano rimasti in città si lamentavano e invidiavano i partenti. Le serate lunghe erano punteggiate da suoni, voci, richiami. Ai Giardini Margherita si ballava, l’orchestra suonava i lenti e Sandrina dalla sua camera ascoltava e aspettava.

    Edmundo si alzava presto, girava per casa, beveva acqua fresca dal frigo. Lo osservava in silenzio, gli stirava le camice e ammirava le sue gambe lunghe e snelle. Avrebbe voluto che fossero allacciate alle sue, avrebbe voluto accarezzargli le mani, baciargli gli occhi, il pizzetto, il torso, che indovinava sotto le magliette, largo e senza peli e toccargli i piedi, bellissimi. Lo desiderava come si può desiderare qualcosa che non ti spetta ma che impari a conoscere.

    Ho 58 anni lui ne ha trenta meno di me. Sono una pazza, una vecchia pazza che smania per un bellissimo giovanotto che non sa nemmeno se sono al mondo. La maraglia saltava fuori, le abitudini sopite ma non dimenticate della conquista, ribollivano, la riconducevano al passato, alla gioia del sesso che aveva rallegrato la sua giovinezza.

    E poi c’erano le notti. Lui tornava dalle sue scorribande serali, accennava a delle canzoni spagnole. Sandrina si commiserava: Sono sfortunata, un ragazzo così perché non mi è capitato vent’anni fa?.

    Le raccontava della Spagna, di Ibiza, della sua casa che guardava il mare e lei si immaginava una casa col patio, tutta bianca e lui circondato da spagnole brune che ballavano il flamenco. Che scherzo fa il caldo. In cucina lei era il suo pubblico e così, silenziosa, le braccia stese sul tavolo, ascoltava quella voce profonda dall’inflessione armoniosa.

    Dopo quei monologhi, si salutavano compunti.

    «Buona notte Edmundo.»

    «Buona notte Señora

    Sandrina in quel suo letto di fuoco non dormiva mai. Ragazzo mio, che voglia ho di te! Ho sempre detestato i vogliosi frequentatori dei cinema a luci rosse, quelli che si portano a casa le cassette dei film spinti e adesso sono come loro. Qui a desiderare un ragazzo spagnolo che dorme in casa mia e che vorrei baciare, stringere, possedere, essere posseduta. Che mi facesse tornare indietro negli anni, mi restituisse l’incantesimo delle notti d’estate con il suo bel corpo sul mio. Attrazione fisica, voglia di un corpo giovane, si diceva Sandrina, aspettando la sera, aspettando lui.

    Una sera arrivò con una ragazza, si chiamava Margarita, era austriaca, andavano a San Luca, lui prese la moto dal cortilino, la caricò in sella e via, in collina. Sandrina credeva di morire. La gelosia le attanagliava la gola. Immaginò loro due su un prato, avvinghiati a fare l’amore. Tornò a mezzanotte. Sandrina lo sentì trafficare in cortile, poi entrare in casa, andare in cucina, aprire il frigo, bere l’acqua fresca, sedersi, aspettando lei.

    No - si disse Sandrina - questa sera no.

    VI

    Edmundo Corbas con i soldi avuti in regalo dai genitori e dai nonni, era riuscito a comprarsi una Honda 250 come premio per la laurea. La sua vita era trascorsa da studente allegro e disponibile e, a volte, spronato dai suoi parenti, a studiare di più. Le belle ragazze erano il suo hobby. Era capace di intrecciare tre flirts contemporaneamente, non le chiamava mai per nome per non sbagliare, le amava tutte e, naturalmente, nessuna. Si era fidanzato, sfidanzato, rifidanzato varie volte. Giocava molto sul proprio fascino. Il viso era il suo punto di forza: una fronte ampia con un accenno di stempiatura, metteva in risalto gli occhi allungati, bellissimi dalle pupille castane, lucide, a volte sfuggenti come a coprire un improvviso lampo di furberia. La bocca dal sorriso quasi infantile, incorniciata da una traccia di baffi si congiungeva con un pizzetto posato su un mento allungato. Insomma: un bel Sandokan.

    Aveva le movenze di un gran gatto morbido e dava l’idea, come tutti i gatti, che, saltato su un tetto, nessuno l’avrebbe più ripreso. Una natura sfuggente in contrasto con un’apparente disponibilità verso gli altri, guarnita da un formidabile eloquio. Era nato nel segno dei Gemelli. La molteplicità dei suoi interessi culturali, unita a una conversazione brillante lo rendevano estremamente seducente. Insomma le ragazze andavano matte per lui.

    Nella primavera del 1988 aveva deciso di venire in Italia per perfezionare il proprio italiano. Adorava

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